Ho letto con il consueto interesse ma anche con qualche stupore l'articolo («Ilva, i corni del dilemma», il manifesto, 31 luglio) di Rossana Rossanda, la quale commenta un mio articolo («Operai e padroni, una strana alleanza», il manifesto, 25 luglio) sulle questioni dell'Ilva di Taranto e molte altre connesse. Rossana ci ricorda che esiste la proprietà privata e che gli operai ne sono vittime, non complici.
Benissimo. Ma io, e altri, parlavamo di una cosa diversa. Ci torno su perché la considero non una delle problematiche fondamentali, ma la problematica fondamentale, con la quale avremo a che fare nel corso dei prossimi decenni.
Nel suo per ora inarrestabile processo di sviluppo, il grande capitale si è impadronito di quote e settori sempre più vasti del nostro essere qui su questa terra, nel corso del nostro breve (ma per ciascuno di noi, penso, abbastanza significativo) percorso vitale. Ciò, a dir la verità, è vero fin dall'inizio del gigantesco ciclo: si potrebbe dire anzi che la modalità espansiva del capitale (industriale, ma per certi versi anche quello finanziario) non prevede limiti all'impossessamento di tutto ciò che nel mondo vivente e inanimato ne rappresenta alternativamente o un'occasione da afferrare o un ostacolo da rimuovere. L'ambiente e il territorio, e conseguentemente la salute e le modalità di vita delle grandi masse di cittadini, ne costituiscono le vittime predestinate. Occorre fare esempi?
Quando i bubboni scoppiano - e ciò accade per ora, occorre dirlo, in una maniera fin troppo episodica e casuale, ma per fortuna accade quasi sempre (sempre?) gli operai, per difendere il lavoro, che rappresenta ovviamente la condizione basilare della loro sopravvivenza, individuale e personale, ma anche (se volessimo usare espressioni più impegnative) del loro esistere e resistere come classe, si schierano dalla parte dei padroni, che sono contemporaneamente sfruttatori e inquinatori. Fanno finta cioè di non vedere che i padroni sono inquinatori (anche se ne pagano un prezzo salatissimo: l'inquinamento miete le sue vittime prima in fabbrica che fuori), per consentire ai padroni di continuare a svolgere il loro ruolo di sfruttatori. Per loro, infatti, non c'è allo stato attuale delle cose un'altra possibilità: oggi il lavoro è sfruttamento e lo sfruttamento è lavoro. Il preteso modello alternativo (molto preteso, s'intende) ce lo siamo giocato nei decenni scorsi. E per ora nessuno ha deciso seriamente di pensarne uno che, almeno problematicamente, almeno provvisoriamente, cominci a subentrare all'altro. Potrei anche aggiungere, a stringata giustificazione storica della mia analisi, che la classe operaia italiana è stata selvaggiamente respinta nel bunker della sua ultima resistenza - il lavoro! il lavoro! perché senza lavoro noi non ci siamo - dall'inesausta campagna di attacchi alla sua autonomia e alla sua significazione sociale, che dura pressoché ininterrottamente da trent'anni.
Destituita - anche a sinistra, sì, anche a sinistra - della sua identità di «classe generale», è stata ridotta a «classe particolare», che lotta (giustamente, certo) per esserci ancora, ma per farlo smarrisce talvolta il filo che porta più esattamente al centro della matassa. Questa è la situazione: situazione di fatto, intendo, sulla quale c'è poco da discutere ma molto da riflettere. Ripeto: se si va avanti così, lavoro contro ambiente e magari - gli integralisti, si sa, stanno da tutte le parti - ambiente contro lavoro, andiamo verso la catastrofe. Le due direttrici o marciano consensualmente insieme o precipitiamo nell'abisso. Questo vuol dire - la formula può sembrare stantia, ma non me ne viene in mente un'altra - che va cercato, individuato, costruito e praticato un diverso modello di sviluppo. O non sono tutti qui gli strateghi della borghesia illuminata a raccontarci d'imboccare un'altra strada rispetto a quella dispendiosa, consumistica e sprecona, che loro stessi a suo tempo ci hanno indicato e costretto a percorrere per decenni? Prendiamoli sul serio una volta tanto: ma una volta tanto facciamo a modo nostro. Non comprimere i consumi e i livelli di vita per continuare a vivere, ma peggio, come prima; ma cambiare radicalmente il nostro approccio alla produzione e al consumo, ma per star meglio.
Ora, un diverso modello di sviluppo non è affare dei capitalisti, i quali vedono e credono possibile solo quello che c'è: è affare dei governi, ed è questo ciò di cui noi parliamo, quando ipotizziamo che possa esserci un ragionevole tasso di sviluppo economico e produttivo senza provocare la distruzione dell'ambiente, del territorio e della salute, per noi e soprattutto per le prossime generazioni. Hic Rhodus, hic salta . La mia impressione è che il caso Ilva, con tutto il suo carico drammatico di conflitti, paure e tensioni, rappresenti tutto sommato un punto di svolta rispetto alle questioni di cui stiamo parlando, a patto, naturalmente, che nessuno pensi di fare un passo indietro dalla giusta e clamorosa denuncia che ne è stata fatta. Per esempio, per la formazione di una coscienza ambientalista, specifica e peculiare, della classe operaia italiana; ma forse anche per una visione più ampia e dialettica dell'ambientalismo, italiano, che spesso stenta a vedere la propria missione come un affare che riguarda la società nel suo complesso, e non solo alcuni suoi episodici e marginali aspetti. Neo-operaismo e neo-ambientalismo sono le categorie nelle quali collocherei, per farmi capire, il senso del mio discorso: stanno benissimo insieme.