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Paolo Rumiz
Nel deserto dei canali in secca Venezia mostra le sue rughe
20 Agosto 2005
Vivere a Venezia
Una Venezia inconsueta, per i foresti. Un articolo di colore su la Repubblica del 13 gennaio 2005, mentre il MoSE e la metropolitana camminano

VENEZIA - Alle sei di sera, quando la marea scende al minimo, solo il Canal Grande resta navigabile. Fantasmi di vaporetti fischiano nella nebbia, il resto è deserto. Nelle altre grandi arterie traffico zero, rumori zero. Rio Cannaregio vuoto, rio de la Scomenzera vuoto. Sei di sera, bassa marea di tutto, anche di turisti, prima dell'onda di piena del carnevale. E' il quinto giorno di fila che, per un gioco di lune, maree e pressione atmosferica, Venezia va in secca.

Succede quasi ogni anno di questa stagione, dopo i mari gonfi di novembre, quando lo scirocco imbottiglia la Laguna. Ma stavolta sembra durare di più, la navigazione è semiparalizzata, stranieri aspettano alle fermate vuote dei vaporetti senza capire, sull'orlo di un mare che non c'è, inghiottito dal fango nero come la pece.

Riva de l'Oio: la Cà d'Oro, dicono, è di fronte. Ma non si vede niente. Tutta la riva Nord è inghiottita dalla nebbia viola della sera. Ti appare a pochi metri solo il fango tra le palizzate, pieno di copertoni abbandonati. Un pezzo di Canal Grande in secca. Non c'è solo l'acqua alta, a Venezia. Non c'è solo la sirena che urla come per annunciar bombardamenti, San Marco allagata, le passerelle piene di giapponesi, i vaporetti che non passano sotto i ponti.

C'è anche l'acqua bassa. Solo che questa arriva felpata, in silenzio, in bassa stagione, senza vento e senza far notizia. Non la annunciano con le sirene, ma con un ronzìo di Sms sui telefonini. E le bastano settanta centimetri - settanta sotto il livello medio - per trasformare in un'ombra la Vecchia Signora.


Con l'acqua alta, almeno, Venezia si culla nel suo elemento, si veste del suo mito. Venezia in secca, invece, è una città nuda, una gran dama coperta di cerone che svela le sue magagne. Emergono come dopo l'onda di ritorno di un maremoto. Lo sprofondamento - ventitré centimetri in un secolo - disegnato nella linea umida coperta di alghe che passa le fondamenta in pietra d'Istria e infradicia le rosse mura in mattoni. Le palizzate corrose dai vermi d'acqua. I canali minori non dragati. Le fogne che sboccano nei rii. Decenni di immondizie gettate in mare dalle case, la rugginosa carie che si mangia i palazzi antichi sotto il bagnasciuga. Nessuno fotografa Venezia con l'acqua bassa.

Basta uscire dal Canal Grande e comincia un viaggio all'inseguimento di ombre, come in una storia illustrata di Hugo Pratt. Pochi passanti frettolosi, un labirinto silenzioso di canali immobili. Il canale di San Nicolò dei Mendìcoli è un paesaggio da day after. Arsenali di barche in secca tra un ponte e l'altro. "Gozzi" di traverso, "sampierote" col timone schizzato dai cardini, "topi" incollati al fango nero del fondale come sulla plastilina.

In Rio Marin, nel sestiere di San Polo, una grossa "topa" è letteralmente appesa nel vuoto sulle sue gomene. In fondamenta Rimpeto Mocenigo, sotto il ponte de la Rioda una scialuppa piatta penzola di tre quarti, sgocciolando nell'acqua verdegrigia. "S'ciopòn si chiama" mi spiegano, "perché ci si andava con lo schioppo a caccia di anatre".

"Sono solo pochi anni che si è ripreso a dragare il fondo dei canali dopo decenni di incuria - spiega Pierpaolo Campestrini, direttore del Consorzio ricerche sulla laguna - e quest'opera non deve assolutamente fermarsi. Là dove si è dragato a dovere la piccola navigazione non si ferma con la bassa marea. Purtroppo sono due anni che nella Finanziaria non c'è un euro per questa manutenzione, e il rischio è che Venezia si impaludi di nuovo".

E se a Venezia non si naviga, la vita si ferma. Scarico merci, ambulanze, vigili del fuoco. La Fenice è andata a fuoco perché un canale, bloccato per lavori, sbarrava la strada ai pompieri. Due giorni fa una donna, che si era rotta il femore all'inaugurazione di una mostra, ha dovuto aspettare i soccorsi quasi un'ora perché i motoscafi non passavano.

A Campo San Polo scaricano fusti di birra da un "topo" da mercanzia, ma le rive son troppo alte, e per giunta coperte di limo. Alzare a braccia le botti è una fatica bestia, volano le bestemmie, i "va remengo", le maledizioni ai morti e al sindaco che non scava i canali. Entrare e uscire dalle barche più piccole richiede fenomenali equilibrismi. Funzionano bene solo le gondole-traghetto, con i loro pontili di legno a scalinata. Mezzo euro e sei oltre, ma poi ti accorgi che anche i pontili sono insicuri, hanno alcuni pali corrosi o ridotti a moncherini. Mandibole devastate dalla piorrea che filtrano il limo del fondale.

Nel rio de la Tana, a due passi dai gloriosi leoni marmorei dell'Arsenale, una delle ultime sacche della Venezia proletaria, solo la nebbia impedisce di vedere il riemergere di cessi, lavatrici, cestelli di plastica, ferraglia contorta. Dai boccaporti degli scoli sbucano rivoli color inchiostro, ricordano che Venezia, città inondata dai miliardi del turismo, è anche l'unica in Europa senza un sistema fognario. Con l'acqua bassa vien fuori tutto. La puzza, e meno male che non è estate. Le "pantegane", i ratti da fondamenta. Con l'alta marea, almeno, li trovi morti. Ma con quella bassa eccoli che trottano, vivissimi.

Molti pendolari protestano per la "vergogna" della paralisi del traffico. Ma molti indigeni sembrano godersi l'emergenza come una benedizione, una tregua prima della "catastrofe" del carnevale. I bambini invadono Campo San Giacomo dell'Orio per giocare a pallone sotto i lampioni. "Ocio, piera bianca culo nero!", grida uno di loro, per avvertirti che con l'umidità il lastricato in pietra d'Istria diventa scivoloso.

Anche l'acqua rivela le sue dinamiche arcane. "Basta guardare la direzione della corrente e trovi i punti cardinali", spiega Cristina Giussani, velista e titolare di una libreria di cose di mare. E' facile, con la marea che sale l'acqua va a Nord, con la marea che scende il flusso si inverte e va a Sud. Lo vedi dai "bòvoli", i piccoli vortici sotto i punti, attorno ai pali o dove i canali cambiano direzione.

Che silenzio. "Varda che bea Venezia" gode Alberto Fiorin, indigeno purosangue, e in mezzo ai colonnati deserti del mercato di Rialto, racconta delle voci dei venditori e del colpo secco con cui i pescivendoli decapitavano le anguille già alle cinque del mattino. "Lotrega, meciato, verzelata", una lapide parla di pesci dai nomi quasi estinti, definendone la lunghezza minima per lo smercio. Palizzate corrose, fondamenta fradicie, fogne a cielo aperto, tutto dimenticato.

Oltre il Canal Grande e le luminarie di Strada Nova col popolo che va e viene dalla stazione, il buio ci inghiotte di nuovo nei sotoporteghi del ghetto nuovo. La secca è al massimo, il deflusso in rio Cannaregio, deserto di vaporetti, è velocissimo come quello di un fiume. Venezia ce l'ha fatta ancora una volta.

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