Ma oggi se si volesse essere fedeli (tempi a parte) a quella scelta, cosa bisognerebbe fare? È l’interrogativo posto dall’articolo (il manifesto, 25 aprile) di Angelo Ferracuti: «La lotta avviene anche e soprattutto nel lessico, nel rimettere in circolo certi vocaboli civili, e anche nel fare con passione un racconto diverso, onesto della realtà». Le parole possono essere ancora rivoluzionarie, così come i racconti che ci facciamo. Possiamo, dunque, “cambiare” il mondo raccontandoci storie diverse da quelle che ci vengono raccontate e farlo con parole nuove?
Credo che questo dovrebbe essere il compito di ogni nuova formazione politica di sinistra. Non tanto rintuzzare o polemizzare il racconto che ci viene fatto, quanto svelarne l’opportunismo, il calcolo che esso sottende, la disuguaglianza che esso produce, stando sempre dalla parte del più debole, del più esposto.
Credo che la crisi della politica, la sua ormai sempre più manifesta incapacità a rappresentare le persone, sia soprattutto una crisi di linguaggio, di narrazione. Così come i padri non sanno più raccontare fiabe ai loro piccoli figli, i politici non sanno più rappresentare il mondo che viene e, di conseguenza, meno che mai raccontarlo ai loro rappresentati. Ci raccontano storie banali usando parole consumate di cui loro stessi, spesso, non ne capiscono nemmeno il senso: le hanno sentite pronunciare da altri e le ripetono come a voler/si convincere che sono vere: debito sovrano, austerity, sicurezza, spending review, realismo, terrorismo e via dicendo.
In fondo queste narrazioni, pur appartenendo a schieramenti diversi, si somigliano tutte: non si esce dal labirinto dove siamo stati cacciati e dove fingiamo che esso sia l’unico mondo possibile.
Eppure basta che una persona scarti un poco da quel linguaggio che subito ottiene consenso. Macron non è di sinistra né di destra (così si definisce e così lo hanno definito), e già basta a sparigliare i giochi, a far salire sul suo carro quelli (di sinistra e di destra) che di parole non ne hanno più e non sanno più raccontare niente di nuovo. Gramsci scriveva anche fiabe (L’albero del riccio, ad esempio), raccontava storie ai suoi due figli che non poteva vedere, guardava alla politica come una pedagogia per adulti e, al tempo stesso, ci raccontava del mondo contadino e delle sue possibilità di riscatto. Anche allora, bisogna dirlo, prevalse il realismo di coloro che miravano a risultati più “urgenti”.
C’è nella politica di sinistra una sorta di coazione a ripetere che, forse, in tempi brevi può rassicurare i suoi elettori, ma alla lunga diventa disfatta. Tale è l’aspettativa delle persone nei confronti di una nuova narrazione che non c’è, che spesso finiscono col seguire il primo pifferaio magico che compare sulla scena (Grillo o Salvini, o lo stesso Renzi), mentre la sinistra continua nella sua stanca narrazione, incapace di rinnovarsi, di intercettare i cambiamenti e le aspettative, a replicare se stessa.