Una storia italiana Per cancellare una villa abusiva, quartier generale di un clan della criminalità organizzata non sono bastati sindaci e magistrati dalla schiena dritta. C'è voluto anche «il coraggio di persone come Gaetano Saffioti, imprenditore di Palmi, che ha eseguito gratuitamente il lavoro che nessun altro aveva voluto fare manco pagato».
La Repubblica, 17 settembre 2014 Della casa dei boss non resta che un cumulo di macerie. E tra poche ore anche quelle saranno portate in discarica. Del quartier generale del clan Pesce non ci sarà più traccia. Cancellato, ma ci sono voluti 11 lunghi anni. E il coraggio di persone come Gaetano Saffioti, imprenditore di Palmi, che ha eseguito gratuitamente il lavoro che nessun altro aveva voluto fare manco pagato. I Pesce di Rosarno fanno ancora paura. Nonostante gli arresti e le condanne di padrini e affiliati della cosca, quel nome lo pronunciano ancora in pochi tra gli agrumeti della Piana di Gioia Tauro. E' una storia lunga quella della "villa" intestata a Giuseppina Bonarrigo, madre di Antonino, Vincenzo, Rocco, Savino e Giuseppe Pesce. Una storia iniziata a metà degli anni '80, quando la famiglia alzò pilastri e mura, coprendo 250 metri quadrati di terreno in piena zona archeologica. Un pezzo di terra pregiata che i padrini si erano presa a ridosso dell'area di Medma, antica polis magno greca del IV secolo a. c..
La vicenda della casa abusiva dei Pesce la tirò poi fuori nel 2003, il sindaco comunista Peppino Lavorato. Un simbolo della stagione degli amministratori antimafia. Lavorato acquisì al patrimonio pubblico il fabbricato e iniziò ad istruire le pratiche per la demolizione al prezzo di sventagliate di kalashnikov contro il suo municipio. Nuove elezioni fecero calare il silenzio, mentre i Pesce in quella casa stavano e in quella casa continuavano a stare. Ci vorrà un altro sindaco coraggioso prima di riparlarne.
Tra i primi atti di Elisabetta Tripodi c'è infatti l'abbattimento della cappella che i Pesce avevano costruito abusivamente all'interno del cimitero comunale, e subito dopo lo sgombero della casa nel parco archeologico. A giugno 2011 alla porta dei boss bussarono carabinieri, polizia e vigili urbani. Donna Bonarrigo e un pezzo della famiglia lasciarono l'abitazione sfilando tra le divise a testa bassa. Puntuali arrivano ancora le minacce che costrinsero la Prefettura a mettere la Tripodi sotto scorta. Lei proseguì comunque.
Un primo bando per affidare i lavori di demolizione e smaltimento delle macerie andò deserto. Stessa sorte per la seconda gara d'appalto. Non c'erano imprenditori disponibili, troppa paura. Il sindaco, di recente si è quindi rivolto al Genio Militare, ma i tempi burocratici si sono dimostrati lunghissimi. Fin quando non è stato il Prefetto di Reggio Calabria, Claudio Sammartino, a trovare la soluzione. E' stata sua l'idea di chiamare direttamente Saffiotti. Che non ha esitato un istante: "Lo faccio io e lo faccio gratis". Saffioti degli 'ndranghetisti ha paura, ma allo stesso tempo è uno di quelli che dice: "La lotta a favore della legalità si fa con i fatti, non con le parole". Anche lui vive sotto scorta, da 17 anni. Testimone di giustizia capace di far condannare decine e decine di mafiosi della provincia di Reggio Calabria.
Così lunedì mattina è salito sull'escavatore che ha dato i primi colpi ai pilastri e alle mura dei mammasantissima, poi ha lasciato fare il resto ai suoi operai. Il "santuario" della cosca è venuto giù pezzo dopo pezzo. Un colpo durissimo soprattutto dal punto di vista simbolico. Quella casa non osava toccarla nessuno. L'importanza della "villa" l'aveva raccontata Giuseppina Pesce, nipote di nonna Bonarrigo che da alcuni anni collabora con la giustizia. E' lei che ha spiegato come vicino alla casa, sotto un capanno, era stato costruito un bunker che assicurava la latitanza di alcuni ricercati della famiglia. E sempre lei aveva poi aggiunto che dalla nonna si riunivano gli uomini del clan. Attorno alla tavola imbandita della Bonarrigo decidevano strategie e affari, il bello e il cattivo tempo. Nella stessa casa, quando avevano arrestato suo marito, Giuseppina era stata spesso ospite. E sempre tra quelle mura aveva avuto modo di ascoltare quanto ha poi raccontato al pm della Dda Alessandra Cerreti. Verbali su verbali che hanno portato ai processi e a condanne per decine e decine di anni.