Il manifesto, 2 gennaio 2015 (m.p.r.)
Delle due condizioni che aveva indicato all’inizio del secondo mandato - «resterò presidente fino a quando la situazione del paese e delle istituzioni me lo farà ritenere necessario e fino a quando le forze me lo consentiranno» - se n’è dunque verificata almeno una. Giorgio Napolitano lascia, e nel farlo insiste sul peso degli anni. Un dato di fatto: «Ho il dovere di non sottovalutare i segni dell’affaticamento». Ma si è anche creata quella condizione di «sicurezza» del paese che il presidente cercava? Aveva preso l’incarico di orientare, e per un tratto ha direttamente guidato, una faticosa transizione; se ne vede l’approdo? Questo neanche Napolitano riesce a dirlo. Nell’ultimo messaggio di capodanno cerca di indicare una speranza - ma l’ha sempre fatto e sempre è andata delusa. Il vecchio presidente fa un piccolo elenco di successi, tutti parziali, incerti e discutibili. La scommessa del doppio mandato «eccezionale» non è vinta. Lascia e non siamo lontani dal punto in cui aveva raddoppiato.
Il lascito è già un trauma. Napolitano ne è consapevole e insiste che le dimissioni sono previste dalla Costituzione, che sarà un bene tornare alla normalità di un unico mandato completo al Quirinale, e - c’è l’eco delle discussioni con Renzi e delle preoccupazioni di palazzo Chigi - che le dimissioni non devono condizionare la vita del governo e del parlamento (ma anche che le esigenze degli altri organi costituzionali non possono impedire una scelta «personale» del presidente). Eppure Napolitano sa bene che andando via lancia Renzi di fronte all’ostacolo più alto. Il parlamento è lo stesso che due anni fa mandò a vuoto cinque scrutini per il presidente, una situazione niente affatto inedita ma che si è voluta drammatizzare — anche da Napolitano che ha visto il baratro, il «vuoto».
Il capo dello stato ha fatto un ultimo regalo al giovane premier, del quale approva esplicitamente ogni scelta politica. Aspetterà almeno altre due settimane prima di far avere le sue dimissioni alla presidente della camera; lo avesse fatto già a capodanno la convocazione delle camere in seduta comune con i delegati regionali avrebbe sbarrato troppo presto la strada parlamentare delle «riforme». Che invece così (almeno quella elettorale) possono fare un altro passo, che non è ancora quello definitivo. Il presidente le approva entrambe, anche la revisione costituzionale scritta dal governo e fatta ingoiare al parlamento con costante minaccia di voto anticipato. Non è la riforma che aveva applaudito ai tempi di Letta, né quella che aveva incoraggiato quando si preoccupava di mettere al centro sempre la separazione dei poteri. Ma è qualcosa per riempire il bilancio del novennato.
La scelta del suo successore «sarà una prova di maturità e responsabilità nell’interesse del paese», dice agli italiani il capo dello stato uscente. Ed è appena un auspicio. I giochi sono tutti da farsi e lo stesso Napolitano qualche pedina muove, quando dice che le sue «riflessioni» sul paese hanno «per destinatario anche chi presto mi succederà»: l’identikit che ha in mente non è quello di un uomo (o di una donna, visto ne cita tre su quattro «italiani esemplari») destinato a vivere nell’ombra del capo del governo.
Come nel messaggio dell’anno scorso, il presidente deve tornare a difendere la scelta di aver accettato un secondo mandato. «È risultata — dice — un passaggio determinante per dare un governo all’Italia, rendere possibile l’avvio della nuova legislatura e favorire un confronto più costruttivo tra opposti schieramenti». «L’aver tenuto in piedi la legislatura è stato di per sé un risultato importante (…) si è evitato di confermare quell’immagine di un’Italia instabile che tanto ci penalizza». Eppure: il governo delle «larghe intese», costruito al Quirinale a fine aprile 2013, ha retto nove mesi appena. Le larghe intese anche meno. A palazzo Chigi c’è il terzo presidente del Consiglio consecutivamente scelto dal Colle senza mandato elettorale. Anche questa è stabilità. Un appello all’altruismo e alla responsabilità chiude l’ultimo messaggio di Napolitano, il presidente indica nell’impegno pubblico l’antidoto all’antipolitica che da tempo lo preoccupa. E che proprio le larghe intese, il rigore «tecnico» e le elezioni negate hanno alimentato.
Sulla crisi economica il bilancio di una sconfitta: «Tutti gli interventi pubblici messi in atto dall’Italia negli ultimi anni stentano a produrre effetti decisivi». Sconfitta per chi tutte quelle misure di austerità ha approvato e spinto ad approvare, fino a chiedere alle minoranze e ai sindacati di non mettersi di traverso. Quanto al fatidico semestre di presidenza italiana in Europa, «l’Italia ha colto l’opportunità per sollecitare un cambiamento nelle politiche», dice Napolitano. C’è stato questo cambiamento? Nemmeno lui può affermarlo, lo facciano altri: «Renzi tirerà le somme dell’azione critica e propositiva svolta a Bruxelles». E ancora le riforme. Non c’è più un’ombra di quello spirito di «condivisione» che proprio il capo dello stato ha sempre raccomandato. Il rapporto con una parte della non maggioranza passa per un patto segreto che ha assai poco dello «spirito costituzionale». Eppure devono andare avanti «senza battute d’arresto» insiste Napolitano. Che ha ormai superato anche il doppio binario che teorizzava con Monti e Letta — al governo l’economia, al parlamento le riforme. Faccia tutto Renzi.
Infine le parole dure contro la corruzione, a tutti piaciute. Eppure anche in queste c’è la traccia di un equivoco, quando Napolitano riprende il gergo dell’inchiesta romana sui rapporti «tra mondo di sotto e mondo di sopra». «Sì — dice — dobbiamo bonificare il sottosuolo marcio e corrosivo della nostra società». E invece no, presidente. Quello marcio era il soprassuolo.