Se il problema esiste, chiedetelo a chi vuol mettere su famiglia, o semplicemente vivere per conto suo perché ormai è adulto. Oppure a chi ha trovato un impiego, magari precario, in un centro distante qualche decina o qualche centinaio di chilometri da dove abita. O a qualcuno di quegli immigrati che lo sfruttamento neocoloniale delle loro terre, e le convenienze dei padroni e padroncini italiani, hanno richiamato nel Belpaese.
Soffrono per quel problema soggetti diversi che nel passato. Non più gli operai e gli impiegati “garantiti”, stritolati dalla tenaglia formata dalla differenza tra salario e costo dell’abitazione, ma tutto il vasto e crescente mondo del precariato e della marginalità sociale. Se guarderete con attenzione, vi accorgerete che la “questione abitativa” è intessuta della stessa disperazione e angoscia, e gravida della stessa energia di ribellione, di quando esplose ed alimentò i grandi scioperi che conclusero gli anni Sessanta, conducendo a risultati poi gradualmente cancellati.
Qualcuno tenta di affrontare il problema impiegando le opportunità del “libero mercato”. Inventando operazioni di partnership pubblico/privato che (come ha denunciato Marvi Maggio su eddyburg.it a proposito di Firenze) consentono varianti ai piani regolatori che ne aumentano l’edificabilità (naturalmente ai danni del verde e dei servizi) a patto che i beneficiati assegnino una parte degli alloggi a prezzi convenzionati. Le esperienze dimostrano che la partnership pubblico/privato non può dare risposte significative, e contribuisce invece a peggiorare le condizioni di vita nella città.
Occorre riprendere con forza il tema della casa come servizio sociale, componente essenziale per la costruzione di una città come bene comune.