L’Associazione dei direttori dei musei americani ha stilato una policy che fissa alcuni paletti: il più importante dei quali è che il denaro ricavato dalla vendita può essere usato solo per acquistare altre opere. E quando un museo non lo rispetta, scattano sanzioni non simboliche. Nel 2014 l’Art Museum of Delaware ha venduto un bel quadro preraffaellita per ripianare parte di un debito contratto per un’espansione edilizia: l’Associazione ha disposto una sorta di embargo in forza del quale i suoi 242 musei non hanno più alcun rapporto (di ricerca o di prestiti) col museo “colpevole”. Misure forti, ma certo non capaci di fronteggiare situazioni di emergenza: come il fallimento della città di Detroit, che ha quasi provocato lo smembramento e l’intera vendita delle importanti collezioni del municipale Detroit Institute of Arts (con opere di Rembrandt o Beato Angelico). Un’apocalisse evitata a stento, grazie alla raccolta di 816 milioni di dollari (offerti da fondazioni, privati e dallo Stato del Michigan) e alla conseguente, dolorosissima, privatizzazione del museo, passato dalla proprietà della città a quella di un charitable trust. È di fronte a episodi come questi che Lee Rosenbaum (una delle più seguite opinioniste americane in materia d’arte) ha proposto, sul Wall Street Journal, di adottare una legislazione simile a quella europea: per «evitare che le collezioni vengano monetizzate per coprire i costi di esercizio o pagare i debiti».
Ma nello stesso momento alcuni musei europei abbracciano il modello di cui gli americani stessi iniziano a dubitare. Il governo inglese ha cessato di erogare fondi pubblici al Northampton Museum, reo di aver venduto una statua egiziana (per 38 milioni di euro) allo scopo di finanziare un riallestimento. Mentre in Germania è il museo pubblico di Münster a rischiare di esser privato di 400 opere (dalle pitture del senese quattrocentesco Giovanni di Paolo alle sculture di Henry Moore), a causa del fallimento di un banca appartenente al Land della Renania-Westfalia. E in Portogallo infuria da mesi una battaglia di opinione circa la possibilità che il governo metta all’asta 85 opere di Joan Miró (alcune assai importanti), anch’esse appartenenti ad una banca pubblica fallita: ed è di questi giorni la notizia che ci sarà un ennesimo pronunciamento giudiziario.
Insomma, il tema è così caldo che un artista e avvocato newyorchese, Sergio Muñoz Sarmiento, ha aperto un informatissimo e assai vigile Deaccessioning blog dove è possibile farsi un’idea delle dimensioni globali della questione. E da noi? In Italia le collezioni pubbliche sono inalienabili, ma negli ultimi anni una serie di disegni di legge ha proposto di “valorizzare” i depositi dei musei noleggiandone le opere a pagamento, e a lungo termine, a musei stranieri o a privati. E considerando che la “valorizzazione” degli immobili pubblici praticata dall’Agenzia del Demanio contempla l’alienazione come possibilità culminante (e oggi praticatissima: anche per quelli storici e di gran pregio), la prospettiva non sarebbe rassicurante.
Negli scorsi giorni si è tenuto a Milano un convegno (promosso dalla Rics, società britannica di consulenza finanziaria e immobiliare) dal titolo esplicito: Patrimonio culturale: quanto vale? . L’ultima risposta disponibile (della Ragioneria dello Stato, 2012) indicava la cifra di 179 miliardi di euro, mentre nel 2014 la Corte dei Conti ha contestato alle agenzie internazionali di rating il non aver conteggiato, in 234 miliardi, proprio quel presunto capitale pubblico italiano.
Ma oltre al fatto che non è per nulla chiaro come si arrivi a queste cifre, è evidente che si carica una pistola solo se si inizia a pensare di poterla usare. Quando, nel 1965, Carlo Ludovico Ragghianti lanciò una iniziativa simile (gli Uffizi furono stimati 400 miliardi di lire), Roberto Longhi rispose che si stava allestendo «un volgare listino»: a ragione, visto che Ragghianti stesso era favorevole alla possibilità di vendere le opere dei musei.
Ma una simile scelta sarebbe un grave errore: in primo luogo per ragioni pratiche. Poche settimane fa un antiquario italiano ha potuto comprare ad un’asta l’unico modello noto per la Fontana di Trevi: una terracotta venduta dall’Art Museum di Seattle, che non sapeva cosa stava vendendo. Non si tratta di negligenza: la storia dell’arte è una disciplina relativamente giovane, e sono più le cose che ignoriamo di quelle che sappiamo. E conoscenza e gusto oscillano insieme: se intorno al 1880 i musei italiani si fossero disfatti delle opere “secondarie” e allora non esposte, probabilmente oggi non possederebbero un solo Caravaggio. Senza contare il tasso di corruzione italiano: facile immaginare che i soliti noti farebbero incetta di capolavori pubblici a prezzi di saldo.
Ma ci sono ragioni più profonde per avere seri dubbi circa l’orizzonte del deaccessioning. In Italia i musei non si sono formati sulle raccolte di capricciosi collezionisti, nelle quali un Monet vale (forse) un altro: essi sono invece lo specchio e il deposito estremo dell’arte e della storia di un territorio, e una rete fittissima di nessi stringe anche la più umile tela al massimo capolavoro. Ogni vendita determinerebbe dunque un vuoto, letteralmente incolmabile.
E poi l’idea che – in un mondo sempre più diseguale – i super ricchi possano gettare anche sulle pareti di un museo lo sguardo cupido che si riserva ad un supermercato di articoli di lusso, mina l’idea stessa del museo come (ultimo?) luogo libero dalla dittatura del mercato. Perché «i musei rappresentano ancora quel genere di spazio pubblico dove è bandito il consumismo sfacciato»: lo ha detto lo scrittore Jonathan Franzen. Un americano.