Un saggio tratto da M@gm@ vol. 12 n. 2 Maggio - Agosto 2014.
Dalla ricerca di una risposta normativa all’interesse per un multiculturalismo quotidiano
Il dibattito sulle possibili modalità di convivenza in una società sempre più caratterizzata da individui e gruppi che si riconoscono in tradizioni e preferenze culturali diversificate è stato spesso monopolizzato da preoccupazioni di carattere normativo, sia orientate all’assunzione di appropriate politiche di intervento a favore delle minoranze, sia orientate all’elaborazione di consistenti e coerenti teorie della giustizia in grado di ampliare il carattere democratico e plurale delle società liberali. Nel primo caso, a partire dall’assunzione di esplicite politiche multiculturali in Canada (1971), in Australia (1973) e in Svezia (1975), il dibattito multiculturale ha spesso favorito un’ampia produzione normativa nel campo dell’educazione, del lavoro, delle politiche abitative, della difesa di linguaggi e culture dei gruppi minoritari tese a promuovere pari opportunità ed evitare forme di discriminazione ed esclusione. Si è trattato del tentativo di rendere effettive politiche di riforma sociale orientate a colmare evidenti svantaggi educativi, occupazionali e, più in generale, di inserimento sociale di gruppi minoritari: nativi, immigrati e altre minoranze culturali discriminate. Nel secondo caso, il dibattito si è concentrato sulla capacità di elaborare principi generali da cui far discendere forme di governo della vita pubblica in grado di valorizzare positivamente la differenza culturale. La discussione si è focalizzata sul tema del riconoscimento (Taylor 1998; Honneth 2002) e delle modifiche che è necessario introdurre nell’ordine liberale per assicurare un’effettiva libertà individuale e una piena possibilità di partecipazione alla vita collettiva. I principi liberali classici, fortemente centrati sul riconoscimento di diritti individuali e su un esteso universalismo, vengono attaccati o rivisitati in modo da includere il riconoscimento dei diritti collettivi e dell’importanza delle differenze culturali (Kymlicka 1999; Habermas 1998; Benhabib 2005). Entrambi questi dibattiti hanno sviluppato deboli strumenti concettuali per mettere a tema il significato delle pratiche sociali interculturali; pratiche che divengono una condizione normale, banale e routinaria, dell’esperienza quotidiana, soprattutto in ambito urbano. Hanno frequentemente finito per favorire il proliferare di un «normativismo intempestivo [che] ha prodotto una sconsiderata linea politica, che rischia di congelare le differenze di gruppo esistenti» (Benhabib 2005: 8). Ciò ha spesso orientato il dibattito multiculturale verso un vicolo cieco, contrapponendo favorevoli e contrari alla ‘preservazione’ delle differenze culturali, considerate come essenze, eredità reificate, ‘bagagli’ ricevuti dal passato che ora è necessario conservare scevri da ogni mutamento, pena la perdita della propria identità e della capacità di riconoscersi come soggetti autonomi. Un orientamento che ha spesso appiattito il multiculturalismo a un impegno per la protezione delle differenze, favorendo isolamento e indifferenza piuttosto che confronto e integrazione tra prospettive e storie culturali diverse. Le critiche a queste forme di multiculturalismo che finiscono per congelare le differenze e promuovere una società a mosaico, in cui solide gabbie preservano le ‘culture’ esistenti solo perché rendono difficili scambio, dialogo e confronto reciproco, hanno portato a spostare l’attenzione dal piano normativo a quello esperienziale, indagando il senso che viene attribuito alla differenza culturale nelle interazioni quotidiane. Anche in questo caso, emerge la necessità di sperimentare un nuovo vocabolario per dare senso a nuove forme di esperienza. Cosmopolitismo (Breckenridge et al. 2002; Appiah 2007; Kendall et a. 2009), intercultura (Lentin 2005; Wood et al. 2006), multiculturalismo quotidiano (Colombo, Semi 2007; Wise, Velayutham, S. 2009) non sono che alcuni dei termini introdotti per provare ad uscire dal cul-de-sac del multiculturalismo normativo.
L’emergere dell’interesse per la differenza
Al di là delle peculiarità delle diverse prospettive teoriche e analitiche, le diverse critiche al multiculturalismo normativo e istituzionale evidenziano l’importanza di un’analisi delle ‘pratiche’ e dei ‘significati’ attribuiti alla differenza culturale in un contesto di crescente globalizzazione.
La differenza e la cultura non vengono assunte come dati, come entità omogenee e coerenti, precisamente definite e stabili. Vengono, al contrario, indagate nella loro dimensione di costruzione sociale, risultato di pratiche di significazione che hanno come posta in gioco la definizione della realtà sociale: delle identità e delle appartenenze, dei luoghi e dei confini, delle modalità di distribuzione delle risorse e dei poteri.
Risulta ingenuo sostenere che il dibattito sul multiculturalismo emerga negli anni ’70 del secolo scorso come risposta (meccanica) a un aumento quantitativo della differenza. Altri momenti storici sono stati caratterizzati da situazioni di convivenza urbana in cui la differenza culturale ha costituito una realtà molto più evidente e drammatica di quanto non avvenga nelle metropoli occidentali
contemporanee. Basta pensare alle città nordamericane di fine ‘800 e inizio ‘900, così riccamente descritte dai sociologi della scuola di Chicago. Mentre la Chicago del 1880 ha poco più di 500.000 abitanti, nel 1920 il loro numero è più che quintuplicato. La Chicago di Al Capone è una grande metropoli caratterizzata dalla presenza di un’infinità di gruppi culturali diversi, che parlano lingue e professano religioni diverse, che tendono a vivere in zone etnicamente segregate e hanno occasioni di contatto che si manifestano soprattutto nella compe-tizione, nella concorrenza o nel conflitto violento. La pluralità culturale a New York, nello stesso periodo, è altrettanto evidente: vi si stampano quotidiani e riviste in 23 lingue diverse (Park, Burgess, McKenzie, 1938/1999) e sono presenti miriadi di chiese, congregazioni, sette religiose differenti. Nonostante l’evidenza e la rilevanza della questione della relazione con l’alterità, in questo contesto i temi della valorizzazione e del riconoscimento della differenza non emergono. Il pluralismo urbano viene letto attraverso il prisma ideologico del ‘melting pot’ e del ‘progresso’: la differenza culturale costituisce il punto di partenza, la materia prima con cui costruire un nuovo modello di uomo (la sottolineatura della caratterizza-zione di genere è voluta e rispecchia un ‘universalismo parziale’ che usa i termini dominanti per generalizzazioni ed esclusioni), più evoluto, più civile e moderno. Ma tale materia prima, piuttosto che conservata e valorizzata, deve essere ‘fusa’, rielaborata e infine superata se si vuole arrivare a forgiare ‘l’uomo nuovo’.
Il valore oggi attribuito alla differenza non è pienamente comprensibile senza prendere in considerazione la critica culturale che, a partire dagli anni ’60 del secolo scorso, decostruisce i concetti di universalismo ed eguaglianza. I nuovi movimenti sociali elaborano una visione positiva della differenza: black is beautiful, black and proud, diverranno gli slogan dei movimenti per i diritti civili; una parte rilevante del movimento femminista elaborerà una raffinata critica dell’universalismo come imposizione del modello maschile; i movimenti studenteschi accuseranno l’eguaglianza di costringere entro schemi omologanti, repressivi, che ostacolano una piena espressione dell’individualità.
Un contributo significativo alla trasformazione del concetto di differenza viene inoltre dal movimento e dalla teoria post-coloniale (Chambers, Curti 1996; Hall 2000). In questa prospettiva, si elabora una stringente critica al modello dominante accusato di ‘togliere voce’ ai gruppi dominati e si sottolinea la necessità della rivendicazione del bisogno, da parte del colonizzato, di emancipazione dalla cultura del colonizzatore e dai suoi effetti sociali e psicologici, emancipazione che può avvenire solo attraverso una riappropriazione della ‘differenza’ del colonizzato rispetto al colonizzatore (Fanon 1962; Spivak 1999). La prospettiva post-coloniale mette in discussione che il principio costitutivo dello Stato e dello spazio pubblico sia l’omogeneità culturale organizzata attorno a valori ‘universali’ declinati nei termini di un liberalismo individualista; valorizza, viceversa, una ‘eguaglianza nella differenza’ in cui la coesione sociale è garantita non dalla condivisione di un unico modello ma dal riconoscimento della irriducibile specificità dei diversi soggetti, dalla loro continua variabilità.
Come risultato del convergere di queste critiche e di queste pratiche, la differenza emerge come un ‘valore’, un elemento significativo che consente di contrastare l’egemonia del pensiero e del modello dominante e permette la piena espressione individuale.
La valorizzazione positiva della differenza è stata spesso declinata in due modi apparentemente contrastanti: da un lato, si è sottolineato il suo carattere ‘essenziale’; dall’altro, quello ‘processuale’. Nel primo caso, la differenza è percepita come una caratteristica ‘fondante’ l’identità. Un’essenza che costituisce il nucleo più profondo e autentico dell’esperienza individuale e collettiva, risultato della sedimentazione di una storia distinta. Una persona o un gruppo deprivati di questa specifica essenza, della loro specifica differenza, sono deprivati della possibilità di agire e di pensare autonomamente, secondo la loro più intima natura. Mostrare e vedersi adeguatamente riconosciuta la propria ‘differenza’ diviene un elemento impre-scindibile per partecipare con pari dignità nello spazio pubblico, un prerequisito per un’effettiva equità sociale. Il limite di questa posizione consiste nel rischio di considerare differenza e cultura come oggetti sacri, che è necessario preservare da ogni ulteriore trasformazione. Differenza e cultura finiscono per essere congelati in un presente eterno che considera privazione e abiezione ogni modifica, che evita forme di dialogo e di confronto per sfuggire il rischio del ‘contagio’ e del ‘degrado’. Nel secondo caso prevale la critica al normativismo del modello dominante e la differenza viene concepita come possibilità di continua variazione, miscelazione; come opportunità di posizionamento sul margine e nelle zone interstiziali, dove è più facile resistere al potere ed esercitare la critica. La creazione continua di ibridi viene considerata essere la condizione normale di esistenza della cultura e della differenza e viene salutata come un processo sempre positivo, una trasgressione creativa, un’emancipazione dal dominio della maggioranza e del pensare-come il-solito. Il limite di questa prospettiva risiede nella difficoltà di sottoporre a critica le condizioni di formazione degli ibridi, non riconoscendo che i processi di miscelazione e trasfor-mazione possano legarsi a violenza e alienazione, possano essere il risultato di rapporti asimmetrici di potere e generare nuove barriere e nuove disparità (Anthias 2001). Rischia inoltre di banalizzare l’idea che differenza e cultura siano costruzioni sociali evidenziandone eccessivamente il carattere mobile, instabile, continuamente sottoposto a revisione e mutamento. Trascura così l’altro fondamentale aspetto di ogni costruzione sociale: essa risulta efficace quando si impone come ‘fatto’ sociale, si presenta come evidente e produce effetti concreti. Un’enfasi sulla dimensione processuale rischia di non saper cogliere come differenze e culture siano spesso percepite come elementi ‘reali’ e come individui e gruppi siano disposti a lottare per rivendicarne riconoscimento e rispetto.
Multiculturalismo quotidiano
Le concettualizzazioni normative e filosofiche del multiculturalismo – che pure aiutano a mettere a tema la questione dell’eguaglianza delle opportunità e della partecipazione in società in cui la differenza culturale è valorizzata – esauriscono spesso le loro potenzialità in una visone idealistica, interessata a indicare come le cose ‘dovrebbero’ essere, e sottovalutano le dinamiche, le tensioni e I significati associati alla relazione con la differenza come pratica vissuta, come esperienza quotidiana.
Per cogliere la rilevanza assunta dalla differenza in un mondo globale, è utile spostare lo sguardo sulle pratiche quotidiane e analizzare come la differenza e la cultura sono utilizzate nelle interazioni sociali, da chi, in quali contesti, per quali scopi e con quali risultati. L’interesse per la dimensione empirica – vissuta, dotata di senso – del multiculturalismo, una dimensione più complessa di quanto riducibile alla dimensione etico-filosofica di giustizia sociale – necessariamente normativa e quindi riduttiva – restituisce l’ampiezza delle possibilità di azione e di costruzione di senso ma non trascura le condizioni contestuali – ‘locali’ – e i vincoli strutturali in cui tale azione è possibile e assume il suo senso specifico.
Nella sua dimensione pratica, il multicul-turalismo – che potremmo ri-definire come multiculturalismo quotidiano (Colombo, Semi 2007) – consente di mettere a tema diversi aspetti che rimangono occultati o in secondo piano nella dimensione normativo-filosofica. Innanzitutto, emerge il carattere ambivalente della differenza: risultato della continua produzione di distinzioni e confini entro discorsi e condizioni non sempre pienamente manipolabili dai soggetti. La differenza assume il carattere di un elemento indispensabile e costitutivo del continuo e necessario processo di attribuzione di senso alla realtà sociale, ma le condizioni del suo utilizzo e il materiale di cui è composta non sono necessariamente risultato di libere scelte. La differenza risulta, contemporaneamente, ‘conferita’ – dalle categorizzazioni e dalle tipizzazioni imposte dale condizioni contestuali, dal discorso mediatico e da quello politico – e ‘prodotta’ – dalle azioni di distinzione e di esclusione, dalla traduzione del discorso egemonico nel linguaggio vernacolare utile per affrontare esigenze pratiche situate.
Il riconoscimento dell’ambivalenza della differenza – sia vincolo, quando imposta al di là della volontà e degli interessi degli attori, sia risorsa, quando mezzo per distinguere e distinguersi, per vedersi riconosciuti e per escludere – consente di superare la distinzione tra differenza come ‘essenza’ e differenza come ‘processo’. Se ne sottolinea, da un lato, il carattere di costruzione sociale: non il semplice ‘riconoscimento’ di differenze esistenti, ben definite e stabili, ma il risultato del costante processo di significazione connesso alla costruzione di distinzioni e confini. Dall’altro, se ne evidenzia il carattere fattuale: una significazione e una distinzione sono efficaci quando sono ‘naturalizzate’, quando sono trasformate in dati-di-fatto, in istituzioni e reificazioni e, così, sottratte alla contestazione o al dubbio sulla loro ‘realtà’.
Nell’interazione quotidiana i soggetti mostrano una duplice competenza culturale (Baumann 1996): sono in grado di trattare la differenza come un’essenza per dare forza alle proprie azioni e significazioni (o semplicemente riproducendo i discorsi egemonici) e di considerarla relativa e flessibile per contestare etichette esterne sfavorevoli o per rivendicare riconoscimenti e inclusioni. Passare da un registro retorico all’altro non è causa di confusione o segno di contraddizione; al contrario, risulta essere una capacità indispensabile per far fronte a situazioni complesse e mutevoli. Più che essere caratterizzati dal possedere una cultura e una differenza, i soggetti risultano caratterizzati dalle loro capacità di utilizzare cultura e differenze per dare senso alle loro esperienze quotidiane. L’attenzione alle pratiche multiculturali quotidiane consente, inoltre, di considerare come la capacità/possibilità di utilizzo della differenza sia inevitabilmente connessa alla dimensione del potere. La differenza non è sempre e solo prodotto delle strategie e delle tattiche personali; in molti casi risulta imposta, e non è detto che persone e gruppi amino la differenza che è loro attribuita. La posta in gioco della produzione (e della relativa decostruzione) di differenze è la definizione della realtà sociale, una definizione che – producendo confini che classificano, includono ed escludono – privilegia inevitabilmente alcuni soggetti e alcune posizioni a scapito di altre. La produzione sociale della differenza è sempre anche una battaglia per privilegi sociali, per produrre, resistere o demolire etichette negative. Il multiculturalismo quotidiano non riguarda solo positive situazioni di comunicazione interculturale, ma anche i conflitti e le frizioni che emergono nel costante tentativo di distinguere e di distinguersi. Alcuni soggetti e alcuni gruppi occupano posizioni più favorevoli per rendere egemonica la propria differenza e attribuire ad altri differenze negative e degradanti. «Un importante aspetto dell’attenzione alle pratiche di multiculturalismo quotidiano consiste nel riconoscere che le società multiculturali contemporanee non sono la semplice collezione di “differenze eguali”, ma riflettono le relazioni di potere che hanno forgiato le storie nazionali e i flussi globali di individui e gruppi» (Harris 2009: 191). L’analisi delle relazioni multiculturali quotidiane non si esaurisce dunque nell’osservazione degli ‘incontri’, dei ‘dialoghi’ interculturali, ma interroga anche la genesi e le pratiche di legittimazione delle gerarchie esistenti. Non riguarda solo le ‘minoranze’, ma analizza come i gruppi dominanti costruiscono e mantengono le loro posizioni di privilegio, come pregiudizio e razzismo sono spesso parte della cassetta degli attrezzi del gruppo dominante per costituirsi come egemonico e unitario. Riconoscere una differenza può anche essere un mezzo per definire una barriera, per legittimare un’esclusione, per segnare una distanza, per definire se stessi in negativo, per contrapposizione. Può servire per creare un nemico esterno che catalizza la formazione di maggiore solidarietà e riconoscimento interno. L’attenzione all’uso quotidiano della differenza consente, infine, di evidenziare come, in un contesto di crescente globalizzazione, saper coniugare particolare e universale, differenza e eguaglianza, reificazione e relativismo costituiscano risorse relazionali fondamentali: la capacità di mediare e di utilizzare opzioni apparentemente opposte risulta garantire più opportunità rispetto a scelte definitive e radicali per un’unica opzione. In situazioni di variabilità, complessità e incertezza, la differenza costituisce un’importante risorsa politica: consente di costruire o demolire confini che potrebbero favorire od ostacolare le opportunità, la partecipazione, il riconoscimento, la realizzazione personale. In un contesto di crescente globalizzazione, passare da un contesto all’altro – in cui valgono regole diverse e ci sono interlocutori e pubblici diversi – diviene un’esperienza comune e inevitabile. Essere riconosciuti – cioè essere ‘individuati’ come caratterizzati da una qualche specifica ‘differenza’ – diviene un elemento cruciale: può consentire accesso e visibilità, ma può anche essere motivo di esclusione e discriminazione. Saper evidenziare la ‘giusta’ differenza nel giusto contesto risulta essere una risorsa importante – soprattutto per le nuove generazioni – per giocare al meglio le proprie carte e sfruttare le occasioni possibili nei diversi contesti. Vedersi imbrigliati in un’unica differenza, in un’unica appartenenza, riduce le possibilità perché rende più difficile il movimento, l’attraversamento dei confini, lo spostarsi da un contesto all’altro. Mostrare, rivendicare od occultare la differenza in base alle specifiche aspettative dei diversi contesti costituisce un sapere pratico che riduce il rischio di essere bloccati sulla soglia, di essere considerati intrusi, stranieri, di essere discriminati ed esclusi.