Una strada tra le più belle del mondo nel cuore della Val d’Orcia, immortalata dal Lorenzetti, riconosciuta dall’Unesco e meta di migliaia di turisti. Fino all’arrivo della lottizzazione dell’area per farne, dicono i dépliant, "case da amare". Uno scempio passato con l’appoggio della giunta di sinistra e tra l’indifferenza generale.
Mi aspettavo di trovare gli abitanti radunati a commentare, eventualmente a berciare e pronti a prendere fuoco Li ho trovati invece reticenti e silenziosi che pensavano ai casi loro come non avevano mai fatto
Nella casa di campagna affacciata sulla Val d’Orcia, dove sono ospite di una mia amica, arriva rombando un gippone che con una sgommata lancia in aria un’onda di brecciolino e si blocca davanti ad un muro. E dal posto di guida salta giù una giovane donna con i calzoni sporchi di cemento, con una zazzera di capelli cortissimi, una figura a metà tra un capo popolo e Peter Pan.
Punta il dito verso di me e dice: «Oh lungacchione, non mi riconosci? Sono la mamma del Mostro». E giù risate. Poi riprende, con lo stesso impeto con cui guidava: «Se credi che sia venuta a fare l’autocritica ti sbagli. Come dicono i napoletani: "ogni scarafone è bello a mmamma suia". Vogliono demolire? Si accomodino. Mi metto anche io nel mazzo dei demolitori, perché a demolire ci si guadagna più che a costruire, non lo sapevi?»
La mamma si chiama Daniela Grappi ha quasi cinquanta anni, ma ne dimostra dieci di meno, ed è sempre stata tosta e sarcastica. E il mostro è naturalmente la lottizzazione di Monticchiello, che l’articolo di Alberto Asor Rosa (Il cemento assale la Val d’Orcia, Repubblica del 24 agosto), non il primo a parlarne, ma il primo a ad aprire il ventre al fattaccio e a mostrarne le interiora, ha reso nello stesso tempo celebre e infame. Una delle prese in giro più riuscite del Mostro è stato l’uso indecente di tutto quello che la lottizzazione tende a distruggere e che viene adoperato nei dépliant promozionali diretti ai tonti, per valorizzarla. Il titolo di uno dei questi dépliant, tutti uguali nel promettere sogni fasulli come casette da Hansen e Grethel nei boschi e mulini bianchi, con la retorica della vita di campagna con l’olio "bono" e il vino "bono", dice: «Casali di Monticchiello» con un sottotitolo: «Case da amare». E ancora più sotto, a caratteri da marchio di fabbrica, per significare un’appartenenza privilegiata, si legge: «Parco artistico naturale e culturale della Val d’Orcia - Patrocinio mondiale dell’Unesco». Ma davvero?
L’altro giorno sono comparsi da queste parti i funzionari dell’Unesco, appunto, richiamati anche loro, un po’ tardi, dallo scandalo, che dopo un’accurata visita al Mostro, ne sono usciti inorriditi e sono ripartiti per le loro sedi con l’intenzione di togliere a Monticchiello quel blasone che le città e i paesi di tutto il mondo ambiscono più di ogni altro riconoscimento. E quei tozzi, pesanti edifici, circondati da muraglie di fango e cemento, che incombono all’entrata del paese e che sembrano sgorbi e scarabocchi studiati per rovinare il disegno elegantissimo di una delle vie più fotografate del mondo, di cui parleremo, si potrebbero chiamare in mille modi. Ma c’è voluta una bella faccia tosta per chiamarli casali.
Ma la Grappi, tutto sommato, fa il suo mestiere d’imprenditrice temeraria e d’assalto, una che ha più coglioni di tutti gli uomini di Monticchiello, come dicono in giro. L’avevo incontrata il giorno prima mentre arrancavo per la salita del paese. Sono più di trent’anni che vengo tra queste colline, portato la prima volta da Nico Garrone, critico e grande stimatore del teatro popolare, una delle glorie di Monticchiello e grande bevitore di Brunello di Montalcino. E credevo di conoscere bene una certa sprezzatura dei suoi abitanti, quel non meravigliarsi di nulla e non credere a nulla, un certo spirito libero. E anche un carattere fumantino e incazzoso, quando c’era da incazzarsi. Era un carattere che usciva bene a teatro, anche se negli ultimi tempi le pièce erano diventate ripetitive e sfocate rispetto alla realtà presente, preferendo ritornare indietro a temi sicuri come le lotte agrarie o il rapporto padrone-mezzadro. Per un curioso paradosso il turismo dei signori, quelli che venivano chiamati i nuovi vandali, aveva trasformato la Valle in una sorta di Klondyke, dove non c’erano pepite d’oro, ma ruderi, infinitamente più pregiati. E dove i prezzi dei terreni sono saliti talmente in alto da risultare superiori a quelli praticati, per dire, nel Luberon o nella Camargue.
Un’altra delle glorie del paese era la banda musicale, una delle più antiche d’Italia, una celebre banda rossa che durante il fascismo si era rifiutata di suonare Giovinezza, ed era stata disciolta: così almeno diceva la leggenda. E poi c’erano le celebrazioni e i festeggiamenti per la Resistenza. Durante la guerra il fronte attraversava queste colline - una storia raccontata magnificamente da Iris Origo, con Guerra in Val d’Orcia - e un certo numero di paesani si era battuto bene, anche se gli scontri venivano magnificati a livelli epici. E la giornata più importante di Monticchiello è sempre stata il 25 aprile con la passeggiata - processione a Colle Mosca, dove c’è un sacrario dei caduti e dove passava la Linea gotica.
E poi c’era una strada, disegnata a suo tempo copiando un’altra strada, dipinta dal Lorenzetti nell’affresco del Buon governo a Siena e che scendeva dall’alto in elegantissime volute, e che radunava in se l’unicità del paesaggio toscano. Non sono mai passato lungo questa strada senza trovarla parzialmente occupata da troupe televisive e cinematografiche provenienti da tutto il mondo che credevano di riprendere la bellezza allo stato puro.
Era vero che Monticchiello da più di mille abitanti, in pochi anni era scesa a meno di un centinaio, come lamentava qualcuno, ma questa è la sorte non tanto infelice che tocca ai paesi storici, dove ogni pietra ha una sua giusta collocazione che rende l’ambiente così perfetto e riposante da impedire a chiunque di manometterlo. E dunque i giovani non trovano balere, locali di biliardini, bar con sprizzi e sprazzi e se ne sono andati via già da molto tempo e la sera il paese ha assunto un’aria desolata e l’umidità sembra distillare dai muri. Ma il giorno dopo il paese è di nuovo affollato di turisti che girano a piedi o in bicicletta, e ci sono un paio di ristoranti dove si mangia bene e caro e la vista verso l’Amiata è sempre incantevole e tutto sommato passare qui una parte importante del tempo non è affatto male. Anzi, è la cosa migliore che uno possa fare.
Con questi precedenti mi aspettavo di trovare i monticchiellesi radunati intorno alla porta del paese a commentare, eventualmente a berciare e pronti a prendere fuoco per il Mostro. Li ho trovati invece incredibilmente reticenti e silenziosi, che pensavano ai casi loro come non avevano mai fatto. E ad accostarli raccontavano che loro non sapevano, che non erano competenti dimostrando una straordinaria capacità, per me del tutto nuova, di fare i pesci in barile. Eppure avevano avuto tutto il tempo di pensarci sopra perché l’allarme era stato dato per la prima volta nel 2003 da Anna Bachilega una dottoressa bolognese che aveva scritto un articolo premonitore sul bollettino della parrocchia. Bisognava tornare alla Sicilia dei bei tempi per trovare un’indifferenza così grande che da quelle parti veniva chiamata omertà.
Durante il nostro incontro la Grappi aveva difeso il suo progetto ora in fase di realizzazione di cui era proprietaria al cinquanta per cento. Me la ricordavo oltre dieci anni fa quando aveva rimesso in piedi il bilancio fallimentare della famiglia lavorando da mane a sera seduta sul suo trattore a scavare fossi per le strade che conducevano alle ville. Adesso era la proprietaria di una tenuta lungo la Cassia dalle parti di Gallina, di un grande albergo situato presso lo svincolo di Chiusi per l’autostrada per Roma, di un imponente agriturismo verso Bagno Vignoni, e case sparse a Monticchiello e altrove.
E qualche anno fa aveva rilevato l’intero pacchetto della lottizzazione, ridistribuendone la metà a romani qualificati, come lei li definiva, dopo un periodo in cui avevano ronzato intorno all’affare facce da Banda della Magliana. L’inizio della vicenda risaliva a molti anni prima, quando aveva un aspetto e un carattere del tutto diversi. Dal 1958 ad oggi a Monticchiello erano state costruite solo 14 case e quelle nuove dovevano essere assegnate alle giovani coppie per aiutarle a rimanere nel posto in un periodo in cui la fuga dal paese si era accentuata. Nel corso degli anni questa modesta e benefica iniziativa si era andata trasformando in una lottizzazione di tipo speculativo, che snaturava la ragione d’essere del progetto. Ma anche la location era cambiata passando da un versante all’altro del paese senza che nessuno osasse intervenire su una scelta che andava a sconvolgere l’antico assetto di Monticchiello.
L’accelerata era arrivata con la Grappi e anche con la presenza di un architetto che aveva doti di ubiquità riuscendo a far parte dei tecnici di cui si era servito il comune di Pienza per il piano regolatore che aveva avallato il Mostro. Ed era anche, fortunata coincidenza, l’architetto stesso del gruppo lottizzatore. Come dire che una mano lavava l’altra. Il signore in questione si chiamava Ottavio Fusi ed era già abbastanza noto per aver progettato gli interventi più discutibili di tutta l’area con la connivenza di tutta la sinistra locale. Era, comunque fosse andato il suo iter, una lottizzazione che aveva dimensioni troppo grandi per una frazione di comune piccola come Monticchiello, chiunque era in grado di vederlo, e non si capiva perché gli amministratori non fossero intervenuti a suo tempo e anche dopo per evitare un finale da circo Barnum a quella strada che tutti credevano intoccabile.
Ma anche così disastroso, il progetto aveva certe regole cui attenersi: il rispetto dell’andamento paesaggistico, l’urbanizzazione dell’area, da eseguire prima delle costruzioni degli edifici e altre ancora. Inoltre un’amministrazione decente per un intervento di quel genere avrebbe dovuto pretendere dai fautori dell’iniziativa edilizia un bel modello in scala delle costruzioni da sistemare in una sala del comune in modo che tutti gli abitanti potessero esprimere il loro giudizio. Invece non solo gli appartamenti sono stati costruiti prima dell’urbanizzazione, ma si erano moltiplicati come i pani e i pesci fino a raggiungere il numero di 96, molto più del doppio di quelli previsti. E non parliamo poi dell’aspetto paesaggistico, quello che si vede è esattamente il contrario. Invece di presentarsi con edifici bassi sul fronte della strada, per poi farli crescere mano a mano che la collina saliva, hanno costruito subito un vallo, che dà il benvenuto ai visitatori come le mura del carcere di Alcatraz. Quanto al modello su scala da esporre in Comune, l’inadeguatezza degli uomini politici che reggono le sorti delle città d’arte è spesso tale rispetto al loro compito, che nessuno ha mai pensato di presentare al pubblico il progetto.
Ci sono poi altre inadempienze o incongruità come le fosse biologiche che superano il livello della strada e altre amenità. E mentre guardavo il Mostro, mi domandavo dove erano finiti tutti quei soprintendenti severi, che minacciavano la fucilazione per una piscina dipinta di azzurro e non di verde o per l’apertura della finestrella di un bagno nei casali di compagna. E che cosa avevano in testa tutti gli amministratori del comune di Pienza quando avessero avallato un simile progetto, che sarebbe stato bocciato già qualche secolo fa perché le norme protettive dei Lorena erano abbastanza severe da evitare le indecenze su un paesaggio amato non solo da quelli di Monticchiello ma da tutto il mondo e lascia un sapore amaro il fatto che lo scempio è avvenuto con l’accordo di una parte politica che si definisce sinistra se tutto ciò ha ancora un valore.