Il dibattito seguito alla sconfitta elettorale del 13 e 14 aprile ha avuto, tra gli altri effetti, quello di rendere di più largo dominio, e per così dire popolare, un’acquisizione che apparteneva, in verità, a pochi: la sinistra, in Italia ( come, in diversa misura, altrove) vive da decenni nel fondo di una catastrofe culturale.E’ da almeno un quarto di secolo che essa è venuta perdendo la capacità di leggere le trasformazioni del mondo attuale e di produrre saperi, valori, senso comune, in grado di orientare la propria azione, di dare prospettiva alle grandi masse popolari, ai lavoratori, ai cittadini del nostro tempo. Viviamo oggi nella parte bassa di un ciclo storico da cui si potrà riemergere in tempi non brevi e in virtù di un lavoro paziente e di lunga lena. Certo, apprezziamo gli sforzi e il lavoro di chi tenta un’opera di ricomposizione delle sparse membra della rappresentanza politica oggi in rotta.La politica vive anche di quotidiano, sotto la pressione di agende che non sempre è possibile scegliere a piacimento. Ma credo ugualmente necessario che le forze intellettuali volenterose si dispongano a una più ambiziosa progettualità, consapevoli che occorre ricostruire vecchie e nuove fondamenta a un edificio in buona parte in rovina.
Sono personalmente convinto che nella situazione presente sia di grande utilità – e che faccia anche bene al morale - distogliere lo sguardo dalle vicende del ceto politico per orientarlo verso altri ambiti di osservazione. E’ opportuno guardare alla società, con una inclinazione e una intenzionalità diversa da quanto le vicende politiche recenti ci spingerebbero a fare. A dispetto dello spettacolo inquietante fornito di recente da vari luoghi e settori della società italiana, io non credo che la « società civile globale» - di cui si discuteva sino a qualche mese fa – sia di colpo scomparsa perché l’Italia manifesta nel suo seno violente pulsioni di odio razziale et similia. E’ una novità che sgomenta, non c’è dubbio. Ma l’arretramento civile e culturale, prima ancora che politico, dell’Italia di oggi non deve farci perdere di vista il più vasto mondo in cui siamo immersi, né quella parte più o meno sommersa di realtà nazionale che non appare, non ha voce, eppure è animata dalla volontà di perseguire il bene comune, sente come propri e necessari gli ideali di solidarietà collettiva. Soprattutto non dobbiamo perdere di vista le grandi novità di fatto e potenziali che lo stesso sviluppo capitalistico ha creato e ci mette oggi a disposizione. Spesso ci accorgiamo in ritardo di quanto la «vecchia talpa» abbia scavato, creando aperture e varchi impensabili fino a poco tempo fa. Non c’è dubbio, ad esempio, che la rete costituisca oggi un inedito territorio universale di informazione, collegamento e comunicazione tra le persone e i popoli. Come ha scritto Stefano Rodotà essa costituisce “il più grande spazio pubblico che l’umanità abbia conosciuto”. E’ un mezzo che solo pochi decenni fa non possedevamo. E dentro di essa dobbiamo imparare a costruire presidi durevoli di conoscenza, cultura democratica, informazione non asservita ai poteri dominanti.
Ora, sono personalmente convinto non solo che l’ Italia costituisca una tessera della società civile globale in espansione, ma che essa sia contrassegnata anche da altre potenzialità nascoste. A dispetto delle apparenze, l’Italia – come del resto gran parte dei Paesi post-industriali – ospita all’interno una intellettualità di massa sconosciuta per dimensione a tutte le società del passato. Non penso solo genericamente ai “ceti riflessivi“ di cui parla Paul Ginsborg, con una definizione necessariamente ad effetto, ma che è sintomatica di una realtà effettiva per quanto difficilmente misurabile. Penso anche a quel vasto e crescente arcipelago di giovani che ha una laurea in tasca, spesso frequenta o ha concluso dottorati, Ph.d, master, ecc., ha viaggiato in Europa e nel vasto mondo, conosce una o più lingue straniere, ascolta la musica internazionale, naviga quotidianamente in Internet. Si tratta di un “popolo” particolare, che la mancanza di opportunità di lavoro spinge in una dimensione di specializzazione a oltranza, ma scaraventa al tempo stesso in un limbo di precarietà sociale, incertezza, assenza di prospettive, isolamento. Dovrebbe esser questa la futura élite intellettuale del Paese, frantumata, dispersa e delusa, che forse non troverà la collocazione professionale e dirigente a cui si era preparata. Ma sono questi, potenzialmente, i nuovi ceti colti da cui potranno nascere rappresentanze politiche rinnovate, cittadini cosmopoliti portatori di una idea più avanzata e solidale di cittadinanza. Senza dire che da qui potranno nascere nuove culture politiche, rinnovate letture del mondo attuale, inediti orizzonti teorici.
Ebbene, io credo che oggi non abbiamo altra possibilità di entrare in contatto con tale vasto e composito arcipelago, tentare di orientarlo, se non creando luoghi di comunicazione attraverso Internet. Si tratta, com’è noto, di una realtà già in atto. La diffusione dei vari siti e blog, negli ultimi anni, ha spesso corrisposto anche a tale fine. Queste nuove comunità di dialogo svolgono non solo il compito di offrire interpretazioni non conformistiche della realtà, informazione libera e disinteressata, senso di appartenenza a individui spesso isolati , ma trovano anche negli stessi lettori dei collaboratori attivi: attenti e partecipi fruitori, ma spesso e in maniera crescente, protagonisti del dibattito che tiene in vita il sito. Ora non mi sfuggono i limiti e le insidie di questa agorà mediatica. Sono noti a molti e non mi ci soffermerò. Ma se le sezioni dei partiti sono chiuse e i quartieri delle nostre città sono privi di presidi sociali e luoghi di dibattito, è certo preferibile il dialogo virtuale al silenzio.
La proposta che voglio avanzare è ispirata a una esperienza di successo: il sito eddyburg. Come ormai molti sanno, si tratta di un sito specializzato sui temi del territorio, della città e dell’ambiente. Esso svolge a mio avviso un compito importante in un Paese come il nostro, il cui habitat è così fragile e vulnerabile, un Paese così ricco di patrimoni artistici esposti, di centri storici incomparabili, e le cui classi dirigenti in fatto di ambiente, territorio, mondo naturale, sono fra le più incolte e rozze del mondo occidentale. Un sito siffatto è destinato ad accrescere la sua penetrazione e diffusione nella società italiana, perché esso mette al centro un nodo ineludibile del tempo attuale: gli equilibri ambientali, la vita urbana, gli spazi, gli assetti del territorio.
Ora, eddyburg è il frutto casuale di una iniziativa fortunata. Un urbanista, un intellettuale della cultura e passione civile di Edoardo Salzano si è votato a tale compito e ha dato vita a questo importante presidio culturale. Chi voglia, in Italia, informarsi sui problemi delle nostre città e del nostro territorio, avere una visione anche storica dei caratteri ambientali della Penisola, ha a disposizione su Internet questo patrimonio di informazione e conoscenza. Ebbene, io credo che il modello eddyburg dovrebbe esse riprodotto per altri ambiti con analogo profilo progettuale. Occorre puntare a creare dei siti “specialistici” in grado di acquistare sul campo – per la serietà e la competenze delle analisi ospitate - autorevolezza e prestigio, così da catturare un vasto e crescente pubblico. Contribuendo così anche a ridurre la dispersione e frammentazione culturale che pure la rete tende ad alimentare. Siti siffatti non debbono solo informare, ma anche formare, grazie alla ricchezza delle conoscenze offerte. E al tempo stesso porsi come istituzioni culturali e politiche autorevoli, in grado di influenzare scelte, di fare opinione. Presidi di conoscenza e informazione indipendente e dunque casematte di democrazia.
Non sono pochi, ovviamente, gli ambiti che meriterebbero di costituire l’oggetto primario di siti specialistici. In questa sede mi sento di perorare la necessità di due grandi aree tematiche da porre al centro dell’analisi e della discussione. La prima riguarda la memoria e la storia, la seconda il mondo del lavoro. Non è certo necessaria una lunga dissertazione per illustrare il rilievo politico, civile e culturale che le due questioni rivestono oggi nel nostro Paese. Per quanto riguarda la storia, proprio in Italia, negli ultimi due decenni abbiamo potuto assistere, in forma esemplare, all’uso politico più apertamente strumentale del nostro passato. Quest’uso è in parte il risultato di scorrerie dell’industria culturale, ma fa anche parte di una intenzionalità politica molto precisa: mutare la memoria antifascista dell’Italia repubblicana, togliere rilievo e significato al protagonismo popolare che sta alle origini dello Stato democratico, predisporre la coscienza del Paese a plasmazioni culturali di natura moderata. Nella fase storica in cui i partiti democratici e soprattutto quelli della sinistra storica hanno abbandonato ogni forma di pedagogia e di cura della memoria nazionale, questa rimane oggetto delle scorribande più diverse, soprattutto dei settori politici oggi dominanti, tanto più aggressivi ed onnivori quanto più le forze di sinistra appaiono moderate, remissive, dimentiche del proprio passato, quando non impegnate con zelo in un’opera di damnatio memoriae.
Ora, è giusto ricordare che l’Italia ha ancora saldi presidi che consentono lo studio, l’insegnamento, la trasmissione di una memoria storica scientificamente fondata. La scuola pubblica, l’ Università, le riviste storiche specializzate, un numero considerevole di storici di prim’ordine alimentano ricerca, dibattito e insegnamento degni di un Paese civile. E godiamo anche delle pubblicazioni di tante case editrici di cultura che tengono viva la tradizione democratica. E tuttavia oggi questo non basta. La potenza manipolativa assunta dai media in quest’ambito reclama nuovi strumenti di contrasto e soprattutto di diffusione popolare dei risultati storiografici. Non trascuro, certo, il fatto che i (pochi) giornali democratici abbiano fatto e facciano la loro parte. Ma i giornali non arrivano dovunque, e di norma sono dei fortilizi cui è negato ogni accesso al lettore, se non nella forma dimessa della letteraal direttore: qualcosa di simile alle “suppliche al re” di antico regime. E d’altra parte la storia costituisce un avamposto di egemonia sempre più importante in un mondo che non ha cessato di utilizzare l’immagine del passato come strumento di lotta politica. Aggiungo una considerazione che io ritengo capitale. La sinistra e il movimento operaio hanno oggi un compito culturale e storiografico di grandissimo impegno: quello di sottrarre il proprio glorioso e meritorio passato dall’ombra del fallimento di una esperienza storica. La riduzione di tutto il passato del movimento dei lavoratori, e della lotta politica per la loro emancipazione, alla storia dell’URSS pesa ancora come un macigno sull’immagine e la possibilitàegemoniche della sinistra attuale. Occorre dunque ricostruire l’immaginario culturale nostro passato.
Un sito che si occupa di memoria e storia, per la verità esiste già nella rete. E un buon sito, ma di modesto profilo. Io penso a qualcosa di più ambizioso. Esso dovrebbe essere pensato e diretto da storici di professione, per un largo pubblico, con articoli e saggi brevi, orientati da uno sforzo serio di alta divulgazione, ma che ospiti anche discussioni, lettere, opinioni. Potrebbe anche far posto a un archivio con saggi più lunghi e sistematici per chi voglia approfondire alcune tematiche importanti. Ma io credo che l’anima di un sito siffatto dovrebbe consistere nella sintesi di rigore e militanza: la serietà storiografica messa al servizio di un disvelamento sistematico dell’uso politico della storia che si fa quotidianamente nel nostro Paese. Mostrare come si manipola la storia e al tempo stesso cercare di ricostruire il passato dalla parte dei ceti che la storia l’hanno fatta, ma non lasciano tracce scritte, non hanno voce.
Non minore rilevanza culturale e politica riveste l’altro sito che vado proponendo. Quest’ultimo per la verità, meriterebbe ben più approfondite riflessioni di quanto si possa fare in un breve articolo. Non c’è dubbio, infatti, che le attuali gerarchie di dominio che governano il mondo e lo vanno trascinando verso squilibri sociali sempre più insostenibili si reggono su una gigantesca rimozione culturale e politica: la centralità insostituibile del lavoro umano. Viviamo in un epoca nella quale le merci sono diventate le protagoniste della storia mondiale, mentre il lavoro che le produce viene ricacciato in una sorta di purgatorio dell’irrilevanza. Su che cosa si regge l’asfissiante retorica sulle virtù salvifiche del mercato, della libera circolazione di merci e servizi, se non sul fatto che il lavoro è scomparso di scena? Non è il lavoro umano a produrre la ricchezza, ma la sua libera circolazione in forma di beni. E’ questa l’immagine del mondo che ci viene quotidianamente offerta. Non a caso, quando la libera circolazione dei lavoratori vuole imitare quella concessa alle merci, gli Stati nazionali riscoprono la realtà e l’orgoglio delle frontiere. Ma il dominio attuale del capitale sul lavoro può contare su un colossale occultamento e su una disconoscenza culturale di inusuale ampiezza. E qui credo che bisogna dirla tutta: sulla condizione attuale della classe operaia, in Italia come nel resto dei Paesi post-industriali, circola una colossale menzogna. Una fandonia diffusa in ogni cortile della vita pubblica. Oggi, infatti appare dominante, è anzi diventata senso comune, la convinzione che l’informatica, il lavoro intellettuale, le varie forme di subappalto, di esternalizzazione di settori industriali e servizi, l’apparire di nuove professioni, ecc. abbia fatto sparire dalla nostra società il lavoro manifatturiero. Come se d’improvviso fosse scomparso il lavoro di fabbrica, come se non ci fossero più uomini e donne addetti al lavoro siderurgico, meccanico, tessile, chimico, cantieristico, edilizio, agricolo. Come se fosse scomparsa la giornata lavorativa con le sue rigidità orarie, i ritmi di produttività, i tempi programmati, l’uso delle macchine,la ripetitività dei gesti e delle mansioni, il controllo dei capi, la fatica, lo stress, l’usura. Ed è davvero singolare osservare anche intellettuali di sinistra, di quelli che fanno opinione, che hanno voce sulla grande stampa, impegnati a divulgare spesso inconsapevolmente l’idea che il lavoro manifatturiero sia una realtà residuale delle società attuali. Essi scambiano l’emarginazione politica e sindacale di vasti strati operai con la loro marginalità sociale, con il loro peso effettivo nel processo di produzione della ricchezza. In realtà il rilievo assunto nel processo produttivo da nuove figure di ideatori, programmatori, manager, ecc. se ha marginalizzato il ruolo immediatamente produttivo degli operai meno qualificati non l’ha affatto sostituito. Le fabbriche continuano a produrre merci, beni che escono dalle mani di lavoratori e lavoratrici in carne ed ossa. Ed è non poco paradossale che debba essere qualche isolato giornalista a rammentarlo, come ha fatto Mario Pirani su la Repubblica del 7 e 29 luglio, su dati Edison, WTO e ONU, mostrando i colossali profitti e i successi di mercato delle imprese italiane nel mondo. Imprese manifatturiere, che si reggono sulla fatica quotidiana degli operai.
Ebbene, il compito culturale e informativo di un sito dedicato al lavoro appare evidente in tutta la sua vasta portata. Si tratta, in primo luogo, di bonificare la vasta palude ideologica in cui è stata fatta sprofondare la condizione reale di chi è inserito nel processi produttivi. Più precisamente: occorre rimettere sui piedi un mondo interamente poggiato sulla testa. E a tal fine, dunque, è necessario che il sito qui proposto, con i modi e il linguaggio della rete, faccia conoscere la composizione attuale della classe operaia, le sue culture, geografie regionali, storie ecc.. Naturalmente tutto il mondo del lavoro andrebbe rappresentato nelle sue multiformi facce e articolazioni. Avere contributi dalle varie regioni italiane, denuncie, analisi, resoconti, cronache, arricchirebbe non solo la nostra visione, anche locale del lavoro italiano, ma contribuirebbe, simultaneamente a costituire una rete di rapporti.
Esistono oggi figure, gruppi, settori del sindacato italiano che non si sono rassegnati alla burocratizzazione delle loro organizzazioni e al moderatismo subalterno che le ispira. D’altra parte l’Italia vanta sociologi del lavoro – da Gallino a Revelli – di primissimo ordine, che hanno creato tanti allievi. E sono senz’altro numerosi i giovani studiosi sparsi nella società italiana che sono esperti di tali temi e vogliosi di occuparsene. Quindi, le forze in campo esistono. Sono solo disperse
Il sito, naturalmente, dovrebbe avere ambizioni informative più alte. Potrebbe, ad esempio, assumersi il compito di informare, con servizi che si possono ricavare da altre fonti giornalistiche – come fa ottimamente eddyburg – delle lotte dei lavoratori in corso nei vari angoli del mondo. C’è un dato importante, infatti, che occorre far conoscere se vogliamo rimettere in piedi il mondo capovolto della società attuale. Non solo, oggi come ieri, sono gli operai a produrre la ricchezza di cui gode l’intera società. E quindi ad essi va riconosciuto il rilievo politico che hanno perduto. Ma bisogna rammentare che mai la classe operaia era stata tanto numerosa nel mondo quanto lo è nel nostro tempo. E quando ci accorgeremo che la globalizzazione può significare anche lotte operaie su scala mondiale, allora avremo scoperto l’altra faccia della luna. Non solo le merci sono cosmopolite, anche il lavoro può tornare a valicare le frontiere, ridiventare universale. Un nuovo ciclo storico della lotta politica può cominciare.