«Mostro Marino. Dopo Prodi e Letta, il premier miete un'altra vittima senza apparire. Per «il nuovo Pd» rovesciare governi fuori dalle aule e senza dibattito pubblico è ormai una prassi. Un partito post-democratico, e anzi, tout court, antidemocratico». Il manifesto, 1° novembre 2015, con postilla
Venerdì, a Roma, il progetto renziano di manomissione della nostra democrazia ha compiuto un nuovo salto di qualità. O, forse meglio, ha rivelato – nell’ordalia rappresentata sul grande palcoscenico di Roma capitale – la propria natura compiutamente post-democratica e anzi tout court anti-democratica.
Di Ignazio Marino sindaco si può pensare tutto il male possibile: molte sue politiche sono state discutibili e anti-sociali (in primis la questione della casa), alcuni suoi comportamenti incomprensibili, la sua ingenuità (o superficialità) imperdonabile, la sua inadeguatezza evidente. E l’accettazione nella sua squadra di uno come Stefano Esposito insopportabile.
Ma la ferocia con cui il Pd, su mandato del suo Capo, ha posto fine alla legislatura in Campidoglio supera e offusca tutti gli altri aspetti. Sostituendo all’Aula il Notaio. Al dibattito pubblico la manovra di corridoio e il reclutamento subdolo dei sicari (arte in cui Matteo Renzi eccelle, avendola già sperimentata prima con Romano Prodi e poi con Enrico Letta).
E colpendo così non tanto, e comunque non solo, «quel» Sindaco (che pure a molti voleri del Pd era stato fin troppo fedele), ma il principio cardine della Democrazia in quanto tale. O di quel poco che ne resta, e che richiederebbe comunque che la nascita e la caduta degli esecutivi – nazionali e locali – avvenisse nell’ambito degli istituti rappresentativi costituzionalmente stabiliti in cui si esercita la sovranità popolare. Con un voto palese, di cui ognuno si assume in modo trasparente e motivato, la responsabilità.
Così non è stato.
Nella stagione impegnativa — per compiti da svolgere e affari da sfruttare – del Giubileo la Capitale sarà amministrata e «governata» da un dream team (o nightmare team?) non di rappresentanti del popolo ma di fiduciari del Capo, chiamati con logica emergenziale a «gestire l’impresa» in nome non tanto del bene pubblico ma dell’efficienza.
Della composizione del team già se ne parla: oltre all’inossidabile Sabella, il prefetto renziano Francesco Paolo Tronca, fresco della Milano di Expo e Marco Rettighieri, ex supermanager di Italferr, uomo Tav, quello che ha sostituito come direttore generale costruzioni dell’Expo Angelo Paris dopo il suo arresto per corruzione e turbativa d’asta…
Un bel pezzo della «Milano da mangiare» – del «paradigma Expo» – trapiantata a Roma, a far da matrice del nuovo corso della Capitale, ma anche — s’intende – del Paese.
Ed è questo il secondo anello della cerchiatura della botte renziana. O, se si preferisce, il passaggio con cui si chiude il cerchio del mutamento di paradigma della politica italiana: questo utilizzo del «modello Expo», costruito come esempio «di successo», generato e poi certificato dal mercato, e (per questo) proposto/imposto come forma vincente di governance da imitare e generalizzare.
L’operazione era stata favorita, non so quanto consapevolmente, dall’infelice esternazione di Raffaele Cantone, in cui si contrapponeva Milano come «capitale morale» a una Roma «senza anticorpi»: infelice perché sembra fortemente «irrituale», per usare un eufemismo, e comunque molto inopportuno, che colui che dovrebbe sorvegliare e garantire il rispetto della legalità prima, durante e dopo un’opera ad alto rischio come l’Expo, beatifichi la città che l’ha organizzato e ospitato e, reciprocamente, che ne venga beatificato, proprio alla vigilia di un periodo in cui la magistratura dovrebbe essere lasciata assolutamente libera di procedere a tutte le proprie verifiche e in cui l’Agenzia che egli dirige dovrebbe operare come mai da tertium super partes (che succederà, per esempio, se le inchieste in corso su corruzione, peculato, truffa, ecc. dovessero concludersi con verdetti di colpevolezza: la dovremmo chiamare «Mafia Capitale Morale»?).
Ma tant’è: il cliché coniato da Cantone è entrato alla velocità della luce a far parte del dispositivo narrativo renziano sulle meraviglie del rinascimento italiano. E su come questo possa tanto più agevolmente e soprattutto velocemente dispiegarsi quanto più si eliminano gli ostacoli della vecchia, accidiosa e fastidiosa democrazia rappresentativa (quella, appunto, che produce i Marino), e si adottano, in alternativa, le linee degli executive di turno, magari arruolando in squadra le stesse «autorità indipendenti» che dovrebbero esercitare i controlli.
Personalmente mi ha turbato la quasi contemporanea dichiarazione di Cantone sulla propria intenzione di abbandonare l’Associazione nazionale magistrati, rea di aver mosso (caute) critiche al governo… E anche questo è uno scatto – se volete piccolo, ma inquietante – nella chiusura della gabbia che ci sta stringendo.
postilla
Revelli dice, giustamente, che «la Capitale sarà amministrata e "governata" non dai rappresentanti del popolo ma da fiduciari del Capo». Non è una logica nuova né per il Capo, né per la storia. Il Capo pratica questa logica in tutti i suoi atti che riguardano l'ordinamento dello Stato: dalla scuola agli ospedali, dai ministeri alle istituzioni una volta elettive. Sta realizzando una struttura piramidale, in cui gli occupanti dei posti di comando (dal capo ai capetti ai capettini ai sottocapettini) siano collegati tra loro dall'investitura (dall'alto verso il basso) e dalla fedeltà (dal basso verso l'alto). Si chiama, nei libri di storia, "regime feudale". Questo modello di regime non è di per sé molto solido. Spesso è stato consolidato da un elemento soprannaturale, oggi da due elementi: il ricatto (almeno in Italia) e l'Unione europea, a sua volta sottordinata ai Mercati. Ma l'elemento che garantisce di più la solidità dell'edificio è l'ideologia. Quella dominante ha annullato tutte le atre, e una ideologia differente, ampiamente condivisa, fatica molto a formarsi.