«Il furbissimo partito renziano ha colto l’opportunità che gli si offriva per restaurare una nuova età democristiana dove la carità prevarica sulla giustizia e la misericordia ha la meglio sui diritti: provate un po’ a parlare di moschee da costruire o di diritti di cittadinanza per chi vive e lavora da noi». Left, 14 aprile 2015
Noi italiani lo sappiamo bene. Scomparso da tempo perfino lo spettro verbale della “patrimoniale”, da noi si fanno avanti ricette come quella di colpire le “pensioni d’oro” e ridisegnare la curva delle pensioni. Sulla pelle dei lavoratori si è abbattuta la cancellazione dell’art. 18, ultima fondamentale conquista della politica dell’abbandono delle tutele e dei servizi pubblici essenziali – si pensi alle ferrovie, alla sanità, alla scuola pubblica e all’università, ai beni culturali e al paesaggio.
Quella italiana è una variante che non si spiega con la miseria delle destre nostrane ma chiede di essere analizzata. E qui bisogna ricorrere alla celebre formula di Tomasi di Lampedusa: bisogna che tutto cambi perché tutto resti com’era. Formula suggestiva e persuasiva quanto misteriosa. Quel che resta com’era è l’ingiustizia sociale, il rapporto di sopraffazione dei vincitori sui vinti, le classi popolari: quel che cambia è la retorica. Renzi ne offre un buon esempio nel colorare di rosa la realtà.
Si pensi alla storia della ripresa dovuta al Jobs act: una vera invenzione della politica parlata. Secondo Renzi, a inizio 2015 avremmo avuto 82.000 posti di lavoro in più: un segno di speranza. Ma la realtà dei dati Istat ha calato la suo gelida carta: la disoccupazione è salita di nuovo sfiorando il 13% complessivo mentre quella giovanile tocca la cifra terrificante del 42,3%. Comunque, bando alla realtà, l’ottimismo di Stato è necessario. Perché da noi lo stato d’animo diffuso è lo scoramento. Una volta l’orgoglio nazionale scattava quando Coppi e Bartali vincevano il Tour de France. Oggi che la Ferrari è un’azienda in mani non italiane è difficile rivitalizzare l’esultanza del tifo.
Ma c’è nella retorica della comunicazione pubblica qualcosa che è cambiato, contribuendo a che tutto resti com’era. Parliamo di Chiesa e religione. Col papato argentino di Francesco è caduto in desuetudine lo sfacciato legame delle gerarchie ecclesiastiche con gli affari della destra finanziaria più feroce e gaudente incarnata da Berlusconi. Oggi la denunzia delle sofferenze ha trovato un grande amplificatore nell’uomo che fa affluire torme umane in piazza San Pietro; ma si è anche aperta la possibilità di trasformare la protesta in un dolce e gratificante lamento devoto sulla malvagità umana.
Le classi popolari sono ridiventate i poveri del mondo preindustriale. La parola dominante è misericordia. Ci sarà un giubileo col suo nome. Il consenso universale che circonda ogni uscita di Francesco ha molto di ambiguo e di strumentale: se ieri, in mezzo a una massa di indifferenti più o meno credenti, c’era anche qualche laico (magari devoto), oggi ci sono solo devoti, non importa se credenti o meno.
Il furbissimo partito renziano ha colto l’opportunità che gli si offriva per restaurare una nuova età democristiana dove la carità prevarica sulla giustizia e la misericordia ha la meglio sui diritti: provate un po’ a parlare di moschee da costruire o di diritti di cittadinanza per chi vive e lavora da noi.