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La città rovesciata, la città sottosopra. Avevamo creduto che l’amministrazione «arancione» guidata da Giuliano Pisapia avrebbe raffigurato un tipo nuovo di centrosinistra urbano, risolutamente orientato a sinistra. Invece, l’abbiamo verificato ben prima della conclusione, esso fu apportatore di pensieri e pratiche che avrebbero potuto appartenere a un qualunque moderatismo senza punti socialdemocratici, attento alla domanda dei dominatori della città: finanzieri, corporazioni commerciali, imprenditori e impresari edili, questa coppia soprattutto. Se c’è oggi una città esemplare della libertà edificatoria come una volta Roma, è Milano. Del resto, dispersa da trent’anni anche la memoria della grande vitalità dovuta a una miriade di produzioni industriali e una dotazione terziaria in buona parte funzionale al sostegno delle produzioni, l’ascendenza della costituzione attuale sembra piuttosto quella delle tornate amministrative del centrodestra, con sindaci come Gabriele Albertini («governare la città è come amministrare un condominio») e Letizia Brichetto Moratti (ex ministro di università e ricerca scientifica - «meglio le scuole private della scuola pubblica di massa»).
Fu il primo, contraddicendo la dichiarazione minimalista, ad aprire le porte della città ad architetti internazionalisti, estranei alla storia e ai contesti urbani, per voler innalzare i tre (uno è in ritardo) balordi grattacieli di una City Life (la prima «Nuova Milano») sull’area dell’ex-Fiera, accompagnati o circondanti da impressionanti cataste di casamenti: quelli che un sagace collega ha paragonato alle non meno gigantesche e spaventevoli navi da crociera che ogni giorno infliggono incessanti vibrazioni al corpo di Venezia, scuotendolo e così avvicinandolo al crollo finale. Un geniale fotomontaggio, un’immagine di quegli edifici milanesi come sorgessero dall’acqua al fondo di una calle larga, denuncia la doppia orrendezza, di architettura terranea e navale-marinara, attestante la decadenza delle due città. Riguardo a Milano, demolisce l’artificio basato su due cardini: il gradimento popolare delle forme edilizie balzane in sé oltre che prive di qualsiasi ordinamento urbanistico; l’assordante coro assessorile intorno a una prodigiosa «attrattività» milanese. Similmente, disvela il senso mortale della svendita di Venezia a un turismo contro-culturale dei 20 milioni di visitatori annui e della violenta trasformazione di edifici carichi di storia socioeconomica e di bellezza architettonica in contenitori per consumi di una massa estranea alla città: guarda caso, mediante il compito assegnato all’archi-star di turno, quasi per inviare un segnale di appartenenza ai confratelli infurianti sempre più a Milano nel tempo dei centrosinistra, il primo col sindaco proveniente da Sel, il successivo col novizio e invece gran marpione Giuseppe Sala.
Ancora una volta in Italia, anche nella città che nel corso storico si è contraddistinta per conveniente diversità (la capitale morale…), gli amministratori accettano e cavalcano con le molte entità interessate l’esclusiva riproduzione edilizia urbana la più smaccata, sprezzante i bisogni di proletari e piccolo borghesi, mobilitante incalcolabili capitali d’ogni provenienza, compresa quella mafiosa. E questo, ossia le più recenti “Nuove Milano” del «Progetto Porta Nuova» (proprietà fondiaria comprata da emirati e principati) i nostri lo vantano come autentica modernità progressista, nuovista, solo perché espressa attraverso forme di corpi suscitanti le meraviglie dei compari e dei qualunque a causa del loro consistere: colossali come lo scimmione d’epoca soverchiante omini e donnine, contorti come il discorso di un analfabeta, volgari come i loro gemelli qatarini, sauditi, kuala-lumpuresi…
Nella nostra città la mania di grattacielo il più alto impossibile imperversa nella mente (se è questa la sede…) di sindaci, assessori, funzionari municipali, di numerosi architetti, critici d’arte (Philippe Daverio), forse anche della casalinga di Voghera fosse venuta ad abitare qui. Sicché la previsione pertinente alla più vasta operazione fondiaria d’oggi a Milano, la riconversione dei sette scali ferroviari, circa 1 milione e 300 mila mq, non lascia alcuna speranza alla moderazione di interventi unicamente destinabili alla realizzazione di una collana di parchi (parchi veri, senza snaturamento attraverso sospettabili «attrezzature») e, di edilizia, soltanto quanta ne occorra per risolvere la domanda arretrata di alloggi popolari [1]. Invece l’accordo di programma fra FS e Comune di Milano si sta definendo lungo la linea del soddisfacimento di ingiuste pretese pecuniarie delle prime e di incasso della porzione di speculazione privata che spetta al secondo. E come?
Mentre gli scali ferroviari perdono la vecchia funzione, non c’è milanese, residente o lavoratore pendolare, qualsiasi sia la sua appartenenza, che non spenda discorso per richiamare l’urgente necessità di creare un moderno sistema di trasporto metropolitano incentrato «sul ferro e non sulla gomma», ad ogni modo sul mezzo pubblico, specie linee tranviarie e autobus a bassa emissione di residui inquinanti della combustione. Questa dovrebbe essere, pare ovvio, la posizione del Comune e dell’Atm (Azienda tranviaria milanese). Al contrario costoro, quatti quatti, operano in stretta alleanza per obbiettivi retrogradi. Così, tre fra le principali ragioni concatenate che rendono difficile la vita cittadina, traffico automobilistico, inquinamento dell’aria, uso disagevole dei mezzi pubblici diventano simbolo di tradimento delle aspettative civili.
Vediamo. Hanno cominciato a gennaio con l’abolizione del servizio di dieci linee di bus notturni dal lunedì al giovedì e la domenica (salvata la movida di venerdì e sabato…). A metà febbraio è cominciato l’inasprimento dei tagli anche nelle tre linee storiche della metropolitana (Rossa, Verde, Gialla): aumento degli intervalli fra i treni e restrizione dell’orario di punta. Dal 20 febbraio, poi, le lunghe attese domenicali dei passaggi in 17 linee di tram spingono i «clienti» a desistere… Infine, dal 26 febbraio il piano denominato dall’Atm «razionalizzazione» (l’utente esperto capisce subito cosa vuol dire), si apre in tutta la sua aziendale e comunale eloquente espressività: venti linee gravemente amputate. Negate per sempre soluzioni intelligenti e molto utili, per prima quella, usuale nel passato, di percorsi tranviari da periferia a periferia passanti per il centro. Ora, linee troncate brutalmente hanno un capolinea presso piazza Duomo. Diventa normale la costrizione a impiegare due mezzi anziché uno, moltiplicando la durata e la penosità dello spostamento, oppure a rinunciare o ricorrere all’automobile. Altri particolari pur interessanti li trascuriamo.
Complessivamente le decisioni cozzano pesantemente contro uno solido muro di contraddizioni. Sottraggono mezzi pubblici, aumentano le auto, l’aria pericolosamente inspirata satura di polveri sottili, Pm10, non demorde (l’altr’anno 85 giorni di forte superamento della soglia dei 50 mcg/mc – n.b. soglia troppo alta, e nessuna regola per Particulate Matter da 2,5, le micro-polveri terribili, per così dire). Tutto si tiene, basta osservare gli investimenti: l’anno scorso il Comune non è stato capace di contrastare il governo che ha sottratto 12 milioni al trasporto pubblico; quest’anno se ne aggiungerebbero altri 11. Ascoltiamo consiglieri comunali di partiti diversi: I° «Tagliare il trasporto pubblico mentre lo smog sale è da irresponsabili… ora si sta esagerando» (da Forza Italia). II° «Diventa bizzarro chiedere ai cittadini di lasciare a casa l'auto se non si potenziano i mezzi pubblici, anzi si tagliano» (dal presidente della Commissione mobilità, del Pd). III° «I tagli al trasporto pubblico danneggiano soprattutto chi vive in periferia e nei Comuni della cintura. Costringerli a spostarsi in auto significa condannare Milano al traffico e all'inquinamento» (da M5S).
Intanto altri motivi complicano la vita in città. La costruzione della linea 4 della Metropolitana (successiva alla quinta già in funzione) procede sconvolgendo in maniera incomprensibile il centro e grandi direttrici viarie radiali, residenziali commerciali e di penetrazione dall’hinterland o dalla totalità regionale. Nei cantieri estesi lungo i viali che ricordiamo alberati anche in tutto lo spazio interno (parterre) sembra che si voglia impedire la visione e il controllo degli accadimenti. Alti pannelloni di plastica dura e spessa connessi perfettamente fra essi e con la base diventano muraglie impenetrabili. Quale tecnica stanno impiegando le imprese, se questi larghi e lunghi viali completamente recinti sembrano richiedere lo scavo per intero della superficie? Perché non si sono scelte le tecnologie che rendono il «tube» indipendente dai tracciati stradali? Troppo costoso? Lo sappiamo, non si è costruita la metropolitana in altri tempi, quelli giusti, per così dire. Come a Londra, a Parigi, a Mosca…Adesso gli enti pubblici locali non possono che affrontare gli alti costi per l’impiego delle tecniche più aggiornate agendo sugli equilibri di bilancio e soprattutto ottenendo maggiori finanziamenti statali; debbono farlo, l’adeguamento alla riduzione non può diventare il sistema corrente.
Il sacrificio delle alberature per il Comune è scontato: quante saranno a fine lavori le piante ad alto fusto perdute se verso la fine di luglio gli abitanti di una sola parte di Viale Argonne denunciavano «l’inutile abbattimento di 573 alberi, molti dei quali secolari»? E nel vasto spazio del viale proseguente verso il centro, con il corso Indipendenza e oltre? E dalla parte opposta della città il massacro di via Lorenteggio, dobbiamo darlo per accettato? [3]. Attenzione, qui non stiamo piangendo inutilmente la morte arborea che i nostri governanti considerano una pinzillacchera. Stiamo affermando che i loro errori o le loro pretese o le loro inadempienze nei confronti dello stato spingono verso il brutto il segno barometrico della qualità vitale milanese. Infatti ai lavori per la metropolitana si intersecano per durate incommensurabili la posa delle tubazioni e i relativi sbancamenti per il teleriscaldamento, nonché la sostituzione, qua e là, dappertutto all’improvviso, dei tubi metaniferi nelle vaste fosse. Da ultimo ma non il meno importante: si è ritornati all’assurda costruzione di silo sotterranei in pieno centro, calamite che attirano quelle automobili a cui si vorrebbe impedire l’entrata. Questa volta si tocca il vertice della incongruenza con un grande garage in via Borgogna, vale a dire addosso a piazza San Babila (super-centro conosciuto da tutti), d’altronde quasi impossibile da percorrere fino a quando non sarà pronta la nuova stazione della metropolitana. Ah… dimenticavamo: i lavori per questa linea 4 e contorni dovrebbero terminare nel 2022 (annunci su diversi cartelloni). L’esperienza ci informa che significa: non prima del 2024.
Osservazione conclusiva. La questione delle opere pubbliche urbane si deve porre dapprima come verifica del grado di necessità, poi immediatamente come dovere di pianificazione integrale e integrata: dei luoghi, dei momenti, delle durate, del livello di incidenza sul benessere e benestare dei cittadini, partendo quantomeno dal rifiuto dell’affastellamento dei cantieri, insensato per definizione. Purtroppo l’attinente vocazione delle istituzioni pubbliche e delle aziende non rientra in alcun capitolo della presunta efficienza milanese, d’altronde sbandierata troppo spesso per non crederla un distintivo ammaccato, al più una medaglia di vermeil.
[1] Cfr. L. Meneghetti, Meno «rito ambrosiano» ma nuovi ritualismi», in eddyburg, 21 settembre 2016.
[2] «Babilonia del 2000. Coltivare sui terrazzi dei grattacieli zucchine, cavoli, fagiolini, cipolle, pomodori, patate, mele, fragole, verdura e frutta da esibire come status symbol: è l’ultima follia miliardaria di New York, una moda che il New York Times ha definito “l’esclusiva fattoria dello zio Tobia”. Le cifre? Da vertigine, of course. 90 dollari per un pomodoro o una mela, 4.000 dollari al mese per il giardiniere, quasi un metro cubo d’acqua al giorno per l’innaffiamento. Questi orti che vanno trasformando New York in una sorta di Babilonia del 2000, sono curati come lussuosi salotti da specialisti del Landscape Design, ribattezzati dallo slang “i giardinieri dei piani alti”». In «Condé Nast Traveller», fascicolo monografico New York. New millennium city!, p. 137, siglato M. S. [Massimo Spampati].
[3] Non importa se i non milanesi non conoscono i luoghi citati. Basti ricordare che la struttura urbana è radiocentrica, cerchie attorno al nucleo storico e radiali. Strade e viali di penetrazione immaginabili possono essere riportati alla realtà di quelli nominati.