A partire dagli eventi pre-elettorali di Roma, una lettura dell'evoluzione della destra italiana dopo la crisi del berlusconismo. Chi rifonderà l'area della sinistra?
Il Sole 24 Ore, 17 aprile 2016 (m.p.r.)
La politica finisce sempre per rispondere, bene o male, ai sussulti delle evoluzioni sociali, dentro cui ci sono anche le successioni di generazioni. Non è detto che queste comportino sempre il rito di uccidere il padre (più o meno metaforicamente), ma spesso succede, ed è quanto sta avvenendo nel centrodestra. In maniera confusa, si capisce, ma anche questa è una sorta di regola. La querelle per le elezioni a Roma è emblematica da questo punto di vista. Troppo semplice ridurla ad uno scontro dove l’ambizione del giovane leader rampante Salvini è disarcionare definitivamente il vecchio duce Berlusconi. Quello è l’esito di una evoluzione che converrebbe considerare più attentamente.
In origine, dopo il fallimento del grande contenitore di centro democristiano che faceva al tempo stesso da ponte e da argine fra i due estremi dello spettro politico, la ricostruzione della destra italiana era stata realizzata da Berlusconi con la capacità di unire una nuova narrazione con un recupero di alleanze unificate sotto la sua guida. La narrazione era quella di un paese in cui la libertà di fare (e di trafficare) che genera ricchezza e possibilità di avanzamento per tutti era impedita dai «comunisti», cioè da un potere pubblico dirigista perché in mano ai partiti della sinistra. A sostenere quella narrazione c’era la vicenda personale del leader che facendo e trafficando era diventato ricco pur essendo partito da condizioni non privilegiate.
Le alleanze erano costruite sull’unione del suo nuovo partito con gli «esclusi» dal sistema che si combatteva: i populisti della Lega e i politici della destra post-fascista. Anch’essi erano portatori di narrazioni che facevano perno sulle leggende di un potere in mano a partiti che impedivano lo sviluppo delle rispettive enclave di consenso: il Nord prospero vampirizzato da un Sud scroccone; i partiti che mettevano i loro interessi sopra quelli dello «stato-nazione» unica fonte per il benessere del popolo.
Quel che sta accadendo ora a Roma rende evidente la dissoluzione di quello schema che per un ventennio è stato egemone e anche a lungo vittorioso. Innanzitutto nella crisi economica e sociale attuale non regge più il mito che la libertà di fare e trafficare porti ricchezza a tutti, anzi si comincia a temere che se vengono meno i sostegni pubblici la situazione peggiorerà. La possibilità di Berlusconi di incarnare quel mito si è appannata: ricco è diventato lui, ma appare più interessato a difendere la sua posizione personale che a dare chance di successo a tutti. Adesso il nemico non sono più i «comunisti», ma gli immigrati che, sempre nella narrazione, rubano il lavoro e comunque pesano sulle spalle degli italiani; l’Europa che ci impone sacrifici e via dicendo.
Di conseguenza sono mutate anche le narrazioni alla base delle forze che un tempo Berlusconi aveva federate. Alla Lega di oggi importa poco del conflitto Nord-Sud e del secessionismo, mentre cavalca le nuove paure contro immigrazione, impoverimento del welfare (vedi la campagna anti-Fornero), prospettive di declino economico. La destra post-fascista è lontana dalle pulsioni al riconoscimento sociale e all’inclusione nelle stanze dei bottoni che avevano animato la stagione di Fini visto che quello non le ha portato gran bottino elettorale e anzi la vede fagocitata nel generico quadro del moderatismo conservatore. Perciò riscopre le pulsioni populiste che da tempo facevano parte del suo Dna, il che la spinge inevitabilmente in sintonia con la nuova versione della Lega, a cui però quella alleanza serve molto per la sua strategia di espansione al Sud.
Se leggiamo in quest’ottica ciò che sta avvenendo, comprendiamo la centralità del caso romano. Qui la vecchia narrazione berlusconiana così come la sua ambizione di federare le ali estreme come pretoriani del moderatismo non reggono. Al nuovo partito lepenista di Salvini il «Roma ladrona» di bossiana memoria non serve, mentre per converso quel che resta della antica An non sa che farsene del mito della destra conservatrice e in doppio petto sola rappresentante del perbenismo politico. Sono tutti residui di un passato di cui le generazioni dei quarantenni non hanno nostalgia e che servono ormai poco per raccogliere consensi. La competizione non è più quella coi «comunisti», ma con la concorrenza populista dei Cinque Stelle da un lato e con il nuovo partito pigliatutto di Renzi dall’altro.
Berlusconi è spiazzato in questo contesto e non se ne rende conto, il che è l’aspetto veramente rilevante. È per questo che non riesce a mettere in campo strategie di vera risposta, che non siano quelle già viste del mugugno. Se leggesse un po’ di storia, saprebbe che agli eredi della classe dirigente liberale prefascista non è servito a nulla indignarsi perché al potere andavano i democristiani che non avevano la loro esperienza di classe di governo ed erano più o meno dei giovani senza arte né parte. Alla fine, per quel tanto che hanno potuto, han dovuto venire a patti coi nuovi vincitori. Così all’ex cavaliere servirà poco denunciare che Salvini ha fatto al massimo la comparsa a Mediaset o la Meloni la babysitter a casa Fiorello.
Naturalmente non tutto è semplice, perché nel gioco di rifondazione dell’area di destra non ci sono solo questi soggetti. A parte le truppe di disturbo locali, tipo Storace, c’è il fantasma delle «liste civiche» alla Marchini, che non è affatto un fenomeno solo romano, perché lo troviamo sempre più spesso presente nelle competizioni locali. Per ora è un qualcosa di molto variegato e con una fisionomia sfuggente, che cerca di essere accalappiato tanto dall’area di sinistra quanto da quella di destra, ma può anche avere evoluzioni che lo consolidino e lo portino ad essere una componente in grado di giocare un qualche ruolo nella ricomposizione dell’universo della destra italiana.