Questa volta gli "occhi aperti su Venezia" sono volti a indagare gli effetti che le scelte della Biennale di architettura hanno avuto sulla città: fughe dalla realtà. alibi culturali a tendenze nefasta, o contributi alla tutela e alla vivibilità?. Pervenuto a eddyburg il 16 aprile 2014
Nella preziosissima collana di Corte del Fontego che tiene aperti i nostri occhi su Venezia, è uscito un nuovo libro dell'urbanista Paola Somma. Come sempre il bersaglio è grosso, ma questa volta è anche particolarmente scomodo, visto il conformismo degli intellettuali italiani: la Biennale di Architettura!
Il libro risponde alla domanda avanzata dal sottotitolo: «Progetti in vetrina o città in vendita?». E la risposta sta già nel titolo, che è: «Mercanti in fiera».
A leggerlo viene da pensare che se gli architetti facessero il 'giuramento di Vitruvio' proposto da Salvatore Settis, ebbene la Biennale veneziana sarebbe una specie di festival dello spergiuro.
Tra i molti fili d'Arianna offertici da Paola Somma, quello più impressionante è forse la vicenda paradigmatica del Mulino Stucky, al cui recupero fu dedicato quel che venne poi considerato il 'numero zero' della Biennale di Architettura, e cioè un concorso di idee organizzato nel 1975 dalla Biennale di Venezia. Si trattava di immaginare una seconda vita per un gigantesco complesso dell'industria alimentare dismesso da vent'anni. Tutti i partecipanti al concorso lo immaginarono come un grande contenitore delle cose più disparate e irrelate, senza minimamente valutarne – nota l'autrice – «le relazioni con la struttura economica e sociale della città».
E questa è, in fondo, la cifra prevalente della Biennale di Architettura nel complesso: una lunga esercitazione a tema libero, e a tasso di responsabilità civile e sociale pari a zero. Ma non è una cifra senza conseguenze pratiche: e anche da questo punto di vista la storia dello Stucky è, fino in fondo, esemplare. Nessuno dei progetti del 1975 venne attuato, e dopo che – nel 2007 – un provvidenziale incendio ne distrusse le parti vincolate, è nato lo Stucky Hilton, un albergo di lusso con 300 camere e una piscina sul tetto. «Nel 2012 – conclude Paola Somma – l’imprenditore Caltagirone [che ne era proprietario] è stato arrestato per frode fiscale e la società Acqua Marcia è stata messa in liquidazione. Ora lo Stucky Hilton è in vendita, con base d’asta di 300 milioni di euro, ma non è dato sapere quale sia stato l’incremento di valore garantito agli investitori dalla trasformazione, né quali costi, diretti e indiretti, questa abbia comportato per la città, dove non si è manifestato nessun segnale della “creatività collettiva” auspicata dai promotori del concorso del 1975».
E a questo punto, la domanda è d'obbligo: ma non ci sarà un qualche nesso causale tra il lungo tradimento delle fughe architettoniche dalla realtà, la speculazione immobiliare selvaggia e la progressiva morte di Venezia, trasformatasi «da città a portacontainer di alberghi»? A questa domanda l'autrice risponde con un paziente, pacatissimo intarsio di citazioni testuali, dati di fatto, limpide e indiscutibili connessioni. Ed è forse a causa di questo tono civilissimo che l'effetto su chi legge è ancora più devastante.
L'architettura promossa in questi quarant'anni di Biennale è un'architettura irrelata: in primo luogo irrelata alla sua funzione, e poi ai luoghi nei quali dovrebbe essere poi calata. Un immagine, questa, insieme amplificata e alimentata dai media: «i mezzi di informazione di massa pubblicano fotografie o simulazioni di edifici descritti con un linguaggio metaforico che, assimilandoli di volta in volta a vele, nuvole, farfalle, uccelli in volo, ne ignora l’impatto spesso violento sul suolo, mentre il programmatico disinteresse per il contesto li rende indifferenti, se non ostili, ai luoghi».
Paola Somma segue, quindi, la storia della Biennale, aiutandoci a leggerla come un'incubatrice di tutti i flagelli in seguito abbattutisi su Venezia. Alla prima mostra internazionale di architettura (1980), curata da Paolo Portoghesi, risale la produzione e la propaganda di «immagini della città come palcoscenico per suggestive rappresentazioni e, che, al tempo stesso, ne hanno promosso e avallato l’uso per affari ben concreti». Una linea – che si fatica a chiamare 'culturale' – che culminerà nella privatizzazione dell'Arsenale: che invece di essere restituito alla città finirà nelle mani del Consorzio Venezia Nuova. Erano, d'altra parte, gli anni in cui nasceva – e proprio nella cerchia di Bettino Craxi, ben nota a Portoghesi – la nefasta dottrina del patrimonio culturale come petrolio d'Italia, con il suo corollario di eventi effimeri e violento sfruttamento privatistico.
Negli anni novanta continua il rapporto perverso per cui il peggio delle 'innovazioni' architettoniche ed urbanistiche veneziane nasce nella serra della Biennale: è il caso del Ponte di Calatrava, ed è il caso del più clamoroso scempio degli ultimi decenni, il cantiere per il Palazzo del Cinema al Lido, passato per l'inutile e criminale distruzione della pineta storica: «Nel 2008, alla posa della prima pietra, il presidente della Regione, Giancarlo Galan, si rallegrò perché «sono stati abbattuti tutti quegli ostacoli burocratici fastidiosi di enti e uffici che non vogliono lavorare per il bene comune». Un'affermazione e un tono che preludono tristemente a quelli – ben più pericolosi – che Matteo Renzi riserva agli stessi organi di tutela: «Sovrintendente è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia. È una di quelle parole che suonano grigie. Stritola entusiasmo e fantasia fin dalla terza sillaba. Sovrintendente de che?».
Paola Somma segue con dolorosa, ma fredda, partecipazione il resto della storia (che davvero, a Venezia dovrebbe esser fatta leggere a tutti gli studenti di architettura del primo anno), e ci accompagna all'attualissimo epilogo, il matrimonio d'affari tra la Biennale e l'Expo 2015. «Il periodo di apertura, sei mesi, sarà più lungo del solito e grande rilievo sarà dato all’esposizione dei modelli dei padiglioni di Milano, a cominciare da quello italiano, una «foresta urbana pietrificata, ispirata all’albero della vita» in cui il visitatore potrà "immergersi e scoprire una suggestiva architettura- paesaggio". E, soprattutto, la Biennale di architettura si adopererà affinché l’Arsenale diventi, e venga percepito, come la vera porta d’ingresso dell'Expo. Il presidente Baratta, che non sembra nutrire preoccupazioni per i danni collaterali derivanti dallo sbarco di ulteriori milioni di turisti, è molto soddisfatto, perché in questo modo «la Biennale farà da traino allo sviluppo di Venezia».
Temiamo anche noi che finisca proprio così, ancora una volta. Perché la morale della storia è tutta iscritta in questa misurata, ma inappellabile condanna: «ovviamente, la Biennale non è la sola responsabile dello stravolgimento economico e sociale che ha trasformato Venezia prima in vetrina e poi in merce essa stessa. Ma ha attivamente cooperato con i governi e le istituzioni locali e nazionali e con i gruppi finanziari interessati a riconvertire le cosiddette città d’arte in fabbriche di eventi e in condensatori di rendita immobiliare e fondiaria».