Cara Rossana, il Mose non salverà Venezia
Cara Rossanda, i miei amici veneziani (cui spero darai atto di essersi sempre battuti coerentemente) chiamano la laguna un ambiente naturale artificialmente conservato. Quelle opere idrauliche storiche - deviazione dei fiumi sversanti in laguna, costruzione dei Murazzi a difesa dalle mareggiate, rigorosa conservazione della morfologia tipica - sono servite a conservare un ambiente unico al mondo. Quando atterro al Marco Polo rimango sempre esterrefatto dagli arabeschi che i canali e i canaletti formano tra le «barene», quasi dei disegni frattali, dentro cui emergono per incanto Murano, Torcello, Burano, decine di altre isolette e infine l'inconfondibile forma urbis del «pesce» di Venezia. Continuo sempre a pensare (d'accordo con Cesco Chinello, che ha guardato Venezia dal punto di vista del movimento operaio) che tra gli emblemi di un'industrializzazione forzata e cieca del secolo scorso ci sia (con la «mia» Bagnoli) proprio la collocazione del più grande polo dell'industria pesante e poi chimica dentro la laguna. E' la portualità industriale, ora anche quella passeggeri, ad aver imposto l'escavo dei canali che mettono in collegamento mare e laguna. Profondità e larghezze del tutto insostenibili per i delicati equilibri geomorfologici lagunari.
Ambientalisti e studiosi insistono nel dirci che se c'è una cosa di cui avere paura per la sopravvivenza statica degli insediamenti lagunari è l'erosione: una quantità enorme di materiali solidi (erosi dai fondali) viene ad ogni marea rimossa e trasportata in mare. Tanto che oggi la laguna è diventata una baia, un braccio di mare aperto e sempre più esposto alla violenza dei flussi. Ecco perché ho affermato che il Mose, intervenendo solo sulle bocche di porto così come sono e solo nelle occasioni di «acque alte» eccezionali, non risolverà il problema della «salvezza» di Venezia. Ma, al contrario, apre la strada ad un'inevitabile, progressiva artificializzazione del bacino lagunare. L'idea che gli ingegneri idraulici hanno è quella di separare e chiudere la laguna centrale in un anello di ferro e cemento, che costerà «appena» 4 miliardi di euro. E' un'immagine troppo forte? Perché allora non intervenire con opere sperimentali, rimovibili, meno impattanti e meno costose, prima di affondare ciclopiche fondazioni di cemento armato e incernierare gigantesche paratoie d'acciaio di cui non si conosce nemmeno il progetto definitivo, senza una valutazione tecnica compiuta del loro funzionamento e del loro impatto, così come richiesto dal comune di Venezia? E' possibile che opere del genere siano approvate per via politica dagli esecutivi centrali di governo, blindando persino il voto del Comitato misto intergovernativo di indirizzo e di controllo? Che la più grande opera di difesa del suolo sia assegnata in esclusiva ad un ufficio periferico del ministero delle infrastrutture (magistrato alle acque e non all'autorità di bacino idrografico) evitando ogni dialogo con il ministero dell'ambiente?
Possiamo, infine, ritenere che l'Unione discuta di grandi opere come ha fatto il governo precedente? Quale partecipazione? Quale confronto, aperto e pubblico, tra vari progetti? I manifestanti convenuti a Roma erano uniti da tanti «No» (NoTav, NoPonte, NoMose, ecc.). Ogni «no» ci parla di una diversa attesa democratica e, se posso, di una critica alla «neutralità» della tecnica nei processi di governo. Ultima precisazione: le opere fin qui realizzate, nell'ipotesi del comune, non sarebbero state inutili, quindi sprecate. Il nodo del dissenso - almeno con noi di Rifondazione e con il Comitato No Mose - è soprattutto su ciò che verrà fatto.
Per tutto il resto sono d'accordo: il sindaco non si è battuto per inserire lo stop al Mose, così come si è riusciti a fare per il Ponte sullo Stretto nel programma; la concessione unica a un consorzio di imprese private è stato un errore che anche l'Unione europea ha sanzionato. Ma, soprattutto, la città storica si sta trasformando in un «parco tematico».
Gennaro Migliore
capogruppo Prc Camera dei deputati
Venezia affonda pian piano il Mose almeno rallenta
Caro Gennaro Migliore,
davvero il Mose trasformerebbe la laguna in un lago artificiale? Per via di un sistema di paratie che fuori dai momenti di eccezionale marea, quando si alzano a frangere l'onda in entrata, giacciono sul fondale delle bocche di porto? Io sono per il Mose per molti diversi motivi.
Primo ed essenziale: Venezia lentamente affonda, si chiama subsidenza, probabilmente dovuta per una modifica dell'entroterra e delle sue falde freatiche, forse conseguenza di uno sfruttamento agricolo e di una edificazione selvaggia, dei quali non sento parlare; le maree adriatiche lentamente salgono, per ragioni che non conosco ma nessuno nega; dalla metà del secolo scorso l'altezza della marea che copre gran parte della città può assumere, come nel 1966, la natura d'un disastro. Nessuno degli studi che, restando veneziana nell'animo, ho consultato nega che sia così. Venezia è in preda a un doppio fenomeno che oggi come oggi è nei tempi lunghi irresolubile.
Neanche il Mose lo risolve. Si limita a rallentare l'impatto delle molto alte maree. Neanche le altre misure proposte - necessarie, come la pulitura dei canali e il rialzo, già in parte effettuato, di alcune fondamenta (mi è riuscito sorprendente un progetto di rialzo di tutta piazza San Marco) - sono risolutive. Sono necessari ma, mi sembra, complementari al Mose, non potendosi rialzare la città d'un metro e mezzo.
Secondo. Il Mose è un'opera di alta tecnologia che porta e comporta lavoro qualificato, cosa di cui Venezia crudelmente manca. Quale altro polo industriale è stato proposto e messo in opera? Marghera è un'opera, assai discutibile, degli anni '30, malamente agganciata alla città; il suo Petrolchimico ha avvelenato chi ci abitava e la laguna, le fabbriche degli anni '50 e '60 sono sparite o in crisi, la città è un gigantesco museo saccheggiato dalle multinazionali degli alberghi per un'orda di turisti più o meno screanzati, che da' lavoro a un esercito di camerieri e, chiamiamoli così, operatori turistici, e perfino a migliaia di affittacamere che spellano gli studenti, i quali vi frequentano le università e poi fuggono verso lidi che offrano qualche lavoro. Un'idea di Venezia vivente non l'ho sentita né dal mio amico Massimo Cacciari, né da Gianfranco Bettin che cerca nobilmente di renderne meno inumana la sottostante miseria.
Terzo. C'è una metodologia dell'amministrazione che dovrebbe essere una cosa seria. Mi piacerebbe sapere chi decide e come e per quanto tempo: sono quasi tre lustri che sento parlare del Mose, ne leggo i materiali e le decisioni delle commissioni di esperti, lo stesso studio del progetto è stato imponente e l'avvio dell'opera è iniziato senza che né Paolo Costa né Massimo Cacciari vi si opponessero. Perché Cacciari si oppone ora? Forse l'opera non andava fatta, forse non andava affidata al Consorzio Venezia Nuova, forse sarebbe stato meglio effettuarla come opera pubblica sovvenzionata da stato e regione e leggi speciali (ancorché, salvo la sottoscritta, chi ventila più idee così desuete?), eccetera.Ma non andava deciso prima di cominciare? Il rimpallo fra comune, forze politiche, consorzio e ambientalisti sembra una variante del gioco dell'oca. Capisco che Mario Pirani scriva: non parlatecene più.
Un solo motivo non mi sembra neanche da discutere. Chiedo scusa anche al manifesto, ma mi importa più il destino dei veneziani, oggi così precario, che di quello d'una garzetta che pure è bellissimo scorgere ogni tanto su una barena. Lunga vita alle garzette, ma non parliamo di laghi artificiali che non c'entrano niente. Del resto, non c'è un manufatto urbano più artificiale di Venezia, tanto è effimera una laguna. I dogi deviarono ben tre fiumi per tirare su la mia incantata città. Sarebbe stato meglio se non lo avessero fatto?
Rossana Rossanda