L'assenso di Richard Meier all'idea di abbattere il muro che delimita l'Ara Pacis è il peggior auspicio - purtroppo per il sindaco Alemanno - del consulto con le archistar sul futuro di Roma (Roma 2010-2020: nuovi modelli di trasformazione urbana, oggi e domani, Sala Petrassi, Auditorium). Dice il candido progettista che abbattere il muro è «un'idea superba». Ha lavorato per dieci anni al progetto. È l'autore del muro e oggi afferma che abbatterlo è un'idea stupenda. Se questi sono i medici chiamati al capezzale del malato, non c'è da stare allegri.
Chissà dov'era il grande architetto mentre la migliore cultura urbanistica discuteva con passione e competenza della necessità di guardare oltre al banale intervento di demolizione e ricostruzione della teca di Morpurgo che ricopriva l'Ara Pacis. Evidentemente, troppo preso dalla propria maestria, non si è accorto che Leonardo Benevolo, soltanto per fare il nome di maggior autorevolezza, era intervenuto decine di volte criticando alla radice l'intervento limitato al solo rifacimento di un edificio. Piazza Augusto imperatore aveva infatti subito durante il fascismo una serie così violenta di sventramenti che rimettere mano soltanto a un pezzo del mosaico sarebbe stato un errore imperdonabile che avrebbe generato un ulteriore peggioramento della qualità dei luoghi. E così è stato.
Sostiene ancora il grande architetto: «Non sapevo che il traffico del lungotevere potesse essere canalizzato sotto e che l'area si potesse pedonalizzare». Meier confessa dunque di ignorare che esistono proposte di radicale trasformazione dei lungotevere così da restituirli alla città. Sono anni che il grande urbanista Italo Insolera propone, inascoltato, che il lungotevere di sinistra venga pedonalizzato e destinato a esclusivo uso di una tramvia che dalla Piramide (nodo metro B e lido di Ostia) collegherebbe con il Flaminio (nodo metro A e ferrovia Roma nord), restituendo in questo semplice modo - a tutti i romani - una straordinaria passeggiata. Non sapeva e oggi benedice un'operazione costosa e inutile che causerà l'abbattimento degli storici platani e sarà ripagata con la creazione di un numero imprecisato di parcheggi privati. E, visto che siamo in tema, sarebbe il caso di avvertirlo che lì sotto ci sono i resti del porto di Ripetta. Forse a Las Vegas ci si può passare sopra, da noi ancora no, per fortuna.
È ancora felicissimo Meier perché l'abbattimento del muro «consentirà di vedere la chiesa di San Rocco». Davvero? Quando a dirlo era la migliore cultura storica non ascoltava evidentemente, perché è stato lui a costruire una orribile terrazza che sfregia per sempre la delicata facciata di quella chiesa. Altro che muro, è la terrazza che offende San Rocco.
Non è con la somma di tanti progetti o edifici griffati che si realizzano le città. I grandi architetti privilegiano le loro opere e il trionfo di cui godono in ogni parte d'Italia deriva proprio dalla volontà degli amministratori di ogni appartenenza politica di parlare d'altro, di nascondere dietro a nomi roboanti un vuoto di idee preoccupante. Meglio il colpo mediatico e tenere rigorosamente fuori della porta i numerosi comitati che, in questi anni, hanno dimostrato una visione complessiva della città. Il convegno all'Auditorium è infatti blindato alla partecipazione: uno strano modo di consultare la città imbavagliandola. È questo il limite culturale che preoccupa.
Con la notizia dell'abbattimento del muro, dunque, il sindaco Alemanno ha decretato il fallimento della medesima kermesse mediatica che ha organizzato. Ha reso evidente che non di architetti bravi ha bisogno Roma, ma di urbanisti. Le patologie della città sono di natura urbanistica, derivano da una eredità di feroci speculazioni e dal fallimento del «pianificar facendo» dei quindici anni del centrosinistra conclusosi con il peggiore piano urbanistico della storia della città, il piano del sacco di Roma.
La complessa vicenda dell'Ara Pacis dimostra che senza un'idea complessiva del futuro di Roma con i tanti progetti estemporanei che vanno dalla Formula 1 all'Eur alle isole artificiali davanti a Ostia, dal parco divertimenti della «Roma imperiale» alla candidatura alle Olimpiadi del 2020, non si va lontano: si va contro a un muro, anche se firmato da archistar. Le città sono un delicato equilibrio di luoghi pubblici e beni comuni che vanno trasformati con cautela e rigore ascoltando i suoi abitanti. E Roma ha invece bisogno di una sola opera, quella di essere ripensata sulla base delle reali esigenze delle desolate periferie.
E se qualcuno dei blasonati ospiti al simposio citato obietterà che «non ci sono i soldi» per risanare le periferie, qualcuno provi a sussurragli all'orecchio - nella lingua d'origine, naturalmente - che il sistema Protezione civile ha sperperato trecento milioni di euro soltanto per le inutili opere della Maddalena e a Roma ha erogato prestiti a tassi agevolati con il credito sportivo (che dunque paghiamo noi) a impianti sportivi privati prescelti solo perché specializzati in massaggi corporei a largo spettro. Non è vero che non ci sono i soldi per le nostre dolenti città. È vero, casomai, che spariscono prima.