LIl Fatto Quotidiano, 11 dicembre 2016
Oggi, però, sappiamo che era fasullo. Matteo Renzi non lascia la testa del Partito democratico. «Se perdo troveranno un altro premier e un altro segretario», aveva scandito davanti alle telecamere di Virus. «Se non passa il referendum la mia carriera politica finisce. «Vado a fare altro», aveva garantito a Radio Capital. «Io non sono come gli altri», aveva giurato al Messaggero. «Torno a fare il libero cittadino», aveva confermato a un Bruno Vespa troppo navigato per non essere perplesso.
Così, mentre nel nome di Renzi l’Italia prova a darsi un nuovo governo, sui taccuini dei cronisti resta solo quel crescendo rossiniano di promesse e spacconate destinato a segnare per sempre la sua carriera e le nostre vite.
Eppure, anche noi ci avevamo sperato. Dopo aver raccontato a una a una le contraddizioni di un presidente del Consiglio nato rottamatore e adesso destinato a morire restauratore, Renzi ci era piaciuto quando aveva affrontato a viso aperto la sconfitta. Il suo bel discorso d’addio a Palazzo Chigi di domenica 4 dicembre ci era sembrato il trampolino per un possibile riscatto. Quando avevamo letto i retroscena del giorno dopo, conditi da frasi che raccontavano i suoi dubbi e la sua voglia di lasciare, ci eravamo detti: “Dai, per una volta sorprendi tutti, prenditi davvero un anno sabbatico. Parti! Vai in giro! Scopri quell’Italia che non hai voluto e saputo vedere”. Pensavamo, o meglio ci illudevamo, che il molto sangue democristiano che scorre nelle vene dell’uomo di Rignano potesse portarlo a rileggere la storia di Amintore Fanfani, il Rieccolo di montanelliana memoria.
Renzi alla fine lo ha fatto. Ma ha sbagliato parte della biografia. Ha saltato a piè pari le pagine in cui si racconta come nel 1959 Fanfani, logorato dalla minoranza interna, si dimette da presidente del Consiglio e da segretario per tornare sulla scena, dopo mesi di auto-esilio e solitudine, non appena muore il governo Tambroni (appoggiato dal Msi). È in quel momento che Fanfani, assieme ad Aldo Moro inventa di fatto il centrosinistra e dà il via a una lunga stagione di produttive riforme: la scuola media, l’aumento delle pensioni, l’autostrada del sole, la Rai educativa e tanto altro. Poi c’è il secondo Fanfani. Quello a cui Renzi s’ispira.
C’è la parte di biografia che andrebbe bruciata e che invece Matteo, il giovane vecchio, divora. C’è il Fanfani che perde il referendum sul divorzio di 20 punti. Che crede di poter capitalizzare il 40 per cento ottenuto e che invece alle Amministrative del 1975 subisce una nuova débâcle. Una sconfitta che lo costringe ad abbandonare la segreteria.
Ovvio, la storia non si ripete mai uguale a se stessa. Renzi non è Fanfani. Nessuno per ora lo chiama il Rieccolo. In molti invece lo definiscono il Bomba. È un peccato, però. Perché quel nomignolo cattivo, nato dalle troppe promesse non mantenute, poteva essere spazzato via di colpo con le doppie dimissioni: da premier e da segretario.
E invece resterà. Accantonato per sempre nell’archivio dei nostri ricordi assieme all’illusione di una politica finalmente in grado di cambiare verso.