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Sergio Mattarella
Mattarella: “Vi racconto il mio Venticinque aprile non abbassiamo la guardia così si riafferma la democrazia”
24 Aprile 2015
Resistenza
Ezio Mauro intervista il Presidente della Repubblica. «La nostra Costituzione è il frutto della lotta antifascista contro la dittatura e la guerra. La qualifica di resistenti va estesa non solo ai partigiani ma ai militari che rifiutarono di arruolarsi nelle brigate nere».

Ezio Mauro intervista il Presidente della Repubblica. «La nostra Costituzione è il frutto della lotta antifascista contro la dittatura e la guerra. La qualifica di resistenti va estesa non solo ai partigiani ma ai militari che rifiutarono di arruolarsi nelle brigate nere». La Repubblica, 24 aprile 2015


Signor Presidente, lei ha attraversato la vita politica e istituzionale di questo Paese, ha vissuto la sfida delle Brigate Rosse alla democrazia, ha fronteggiato anche l’emergenza criminale più acuta. Che cosa legge nella data del 25 aprile, settant’anni dopo la Liberazione?

«Il Paese è fortemente cambiato, come il contesto internazionale. Non c’è più, fortunatamente, la necessità di riconquistare i valori di libertà, di democrazia, di giustizia sociale, di pace che animarono, nel suo complesso, la Resistenza. Oggi c’è la necessità di difendere quei valori, come è stato fatto contro l’assalto del terrorismo, come vien fatto e va fatto sempre di più contro quello della mafia. La democrazia va sempre, giorno dopo giorno, affermata e realizzata nella vita quotidiana. Il 25 aprile fu lo sbocco di un vero e proprio moto di popolo: la qualifica di “resistenti” va estesa non solo ai partigiani, ma ai militari che rifiutarono di arruolarsi nelle brigate nere e a tutte le donne e gli uomini che, per le ragioni più diverse, rischiarono la vita per nascondere un ebreo, per aiutare un militare alleato o sostenere chi combatteva in montagna o nelle città».

Ha ragione Calvino: pietà per i morti ma è impossibile equiparare i giovani di Salò e i partigiani. Io penso che questo moto di rifiuto e di ribellione organizzata al fascismo e al nazismo, con la lotta armata, rappresenti un elemento fondamentale nella storia morale dell’Italia. Quell’esperienza parziale ma decisiva di ribellione nazionale, italiana, alla dittatura fascista è infatti il nucleo autonomo e sufficiente per rendere la nostra democrazia e la nostra libertà non interamente «octroyé» dagli Alleati che hanno liberato gran parte del Paese, ma riconquistate. Non crede che proprio qui nasca il fondamento morale della democrazia repubblicana?

«Ricordo che Aldo Moro definiva il suo partito, oltre che popolare e democratico, come «antifascista»: per lui si trattava di un elemento caratterizzante, appunto identitario, della politica italiana. Naturalmente nella nostra democrazia confluiscono anche altri elementi storici nazionali, ma quello dell’antifascismo ne costituisce elemento fondante. La Resistenza italiana mostrò al mondo la volontà di riscatto degli italiani, dopo anni di dittatura e di guerra di conquista. Non si può dimenticare il contributo che molte operazioni dei partigiani diedero all’accelerazione dell’avanzata alleata. Basti citare l’esempio di Genova, dove il comando tedesco trattò la resa direttamente con i partigiani. Il presidente Ciampi ha il merito di aver riportato all’attenzione dell’opinione pubblica il ruolo fondamentale che le forze armate italiane ebbero nella Liberazione. Cosa sarebbe successo se questi militari italiani avessero deciso in massa di arruolarsi nell’esercito della Repubblica Sociale? Quanto sarebbe stata più faticosa per gli Alleati l’avanzata sul territorio italiano e con quante perdite? La Resistenza, la cobelligeranza, pesarono sul tavolo delle trattative di pace».

Lei aveva quattro anni nel 1945. Ha dei ricordi familiari nei racconti di quei giorni?

«Mio padre era antifascista. Diciannovenne, nell’anno del delitto Matteotti, aveva fondato nel suo comune la sezione del Partito popolare di Sturzo; e aveva subito percosse e olio di ricino. Il giornale che dirigeva come presidente dell’Azione Cattolica di Palermo prese una posizione molto dura contro le leggi razziali e fu sequestrato più volte. Lanciò, via radio, dalla Sicilia già libera, un appello agli italiani delle regioni ancora sotto l’occupazione nazista e di Salò: partecipava, così, idealmente alla lotta della Resistenza e faceva parte dei primi governi del Cln mentre il Nord Italia veniva via via liberato dagli alleati e dai partigiani. Sono cresciuto nel culto delle figure di don Minzoni, Giacomo Matteotti, don Morosini, Teresio Olivelli».

È per queste ragioni che subito dopo la sua elezione al Quirinale ha voluto rendere omaggio alle Fosse Ardeatine?

«Mi è parso naturale, e doveroso, ricordare sia a me stesso, nel momento in cui venivo eletto presidente della Repubblica, sia ai nostri concittadini quanto dolore, quanto impegno difficile e sofferto hanno permesso di ritrovare libertà e democrazia. L’abitudine a queste, talvolta, rischia di inaridire il modo di guardare alle istituzioni democratiche, pur con tutti i difetti che se ne possono evidenziare, rifiutando di impegnarvisi o anche soltanto di seguirne seriamente la vita. Questo mi fa ricordare la lettera di un giovanissimo condannato a morte della Resistenza che, la sera prima di essere ucciso, scriveva ai genitori che il dramma di quei giorni avveniva perché la loro generazione non aveva più voluto saperne della politica. Inoltre, oggi, assistiamo al riemergere dell’odio razziale e del fanatismo religioso: i morti delle Ardeatine è come se ci ammonissero continuamente, ricordandoci che mai si può abbassare la guardia sulla difesa strenua dei diritti dell’uomo, del sistema democratico».

Lei è stato anche giudice della Corte costituzionale: dove sente la nostra Carta fondamentale più fedele ai valori della Resistenza? Condivide il giudizio di Norberto Bobbio secondo il quale il grande risultato della Resistenza è stata la Costituzione, perché portò la democrazia italiana «molto più avanti di quella che era stata prima del fascismo»?

«Della Costituzione vanno sempre richiamati, anzitutto, l’affermazione dei diritti delle persone, che preesistono allo Stato, e il dovere della Repubblica di realizzare condizioni effettive di uguaglianza fra i cittadini. Si tratta di punti centrali con cui i Costituenti hanno caratterizzato la nostra convivenza e che hanno dato risposta al desiderio di libertà e di giustizia di chi si batteva per liberare l’Italia. Bobbio diceva bene: non vi è dubbio che la Costituzione, dopo la dittatura, la ribellione e la resistenza non poteva che essere molto diversa da quella prefascista, disegnando una democrazia molto più avanzata, una Repubblica con finalità più ambiziose e doveri più grandi verso la società, del resto in linea con gli apporti culturali della gran parte della forze politiche dell’Assemblea Costituente».

Cosa pensa della polemica dei decenni passati sulla «Resistenza tradita», che ancora riemerge?

«Le risponderò con una citazione del presidente Napolitano. Parlando a Genova il 25 aprile del 2008, disse con estrema chiarezza: “Vorrei dire che in realtà c’è stato solo un mito privo di fondamento storico reale e usato in modo fuorviante e nefasto: quello della cosiddetta «Resistenza tradita», che è servito ad avvalorare posizioni ideologiche e strategie pseudo-rivoluzionarie di rifiuto e rottura dell’ordine democratico-costituzionale scaturito proprio dai valori e dall’impulso della Resistenza”. Condivido dalla prima all’ultima parola».

C’era in quella formula un sentimento che potremmo definire di «delusione rivoluzionaria», da parte di chi nel mondo comunista vedeva nella guerra di Liberazione una rivoluzione sociale: ma in realtà non crede che il vero tradimento della Costituzione sia avvenuto negli anni delle stragi di Stato, dei depistaggi, delle verità negate, delle infiltrazioni piduiste nei vertici degli apparati di Stato?

«Ogni movimento di liberazione porta con sé l’orizzonte e la ricerca di un ordine pienamente giusto e risolutivo dei temi della convivenza. Ma io credo che nessuno, oggi, guardando indietro possa ignorare che in Italia si è sviluppata una profonda e pacifica rivoluzione sociale: territori e fasce sociali, un tempo povere e del tutto escluse, hanno visto una radicale crescita. Il rammarico è che questo non sia avvenuto in maniera ben distribuita e ovunque e che il divario con il Mezzola giorno abbia ripreso ad aumentare. Ma chi ricorda le condizioni economiche e sociali dell’Italia negli anni Quaranta e Cinquanta può valutarne le trasformazioni intervenute nei decenni successivi. Va anche sottolineato che quel processo di crescita, difettoso per diversi profili, si è realizzato salvaguardando la democrazia, malgrado quel che è stato tentato per travolgerla, con insidie, come la loggia P2, aggressioni violente e stragi. Quelle trame a cui lei fa riferimento avevano un disegno e un obbiettivo comune. Quello di abbattere lo Stato democratico, di cancellare la Costituzione del 1948, di aprire la strada a un regime tendenzialmente autoritario. In questo senso, i terrorismi di qualsiasi colore — fatte salve tutte le diversità ideologiche, politiche e culturali — avevano un nemico in comune. Vi sono stati tradimenti della Costituzione ma va anche detto che le istituzioni e le forze politiche, di maggioranza e di opposizione, hanno resistito. Il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro ne costituiscono prova evidente».

Il terrorismo rosso che ha insanguinato l’Italia si è richiamato alla guerra partigiana: la sinistra operaia ha respinto quel progetto, e lo Stato democratico lo ha sconfitto. È stata questa la minaccia più forte per la democrazia repubblicana nata dalla Liberazione? Lei ha vissuto quegli anni, la tragedia Moro in particolare. Sente oggi come altrettanto grave la sfida del terrorismo jihadista? Non crede che oggi come allora, con tutte le differenze necessarie, lo Stato abbia il diritto di difendersi e di difendere i suoi cittadini che gli hanno concesso il monopolio della forza, ma insieme abbia anche il dovere di farlo rimanendo fedele alle regole democratiche e di legalità che la democrazia impone a se stessa?
«La lotta al terrorismo fu condotta dallo Stato senza sospendere le libertà civili e democratiche. Fondamentale, per battere il terrorismo, è stata l’unità di po- polo. I brigatisti rossi capirono ben presto che la loro sconfitta era avvenuta prima sul piano politico — nel rifiuto, cioè, delle masse operaie, di seguirli nella lotta armata — che sul piano militare o di polizia. Basti pensare al sacrificio di Guido Rossa. Nel caso del terrorismo degli anni Settanta e Ottanta la minaccia proveniva dall’interno. Oggi abbiamo una o più entità esterne, presenti in Paesi diversi, che incitano su Internet alla guerra santa contro l’Occidente e che confidano in una rivolta spontanea dei musulmani presenti all’interno di quei Paesi che si vorrebbero sottomettere al Califfato. Non c’è dubbio che si tratti di una minaccia nuova e insidiosa. La risposta alla globalizzazione del terrore non può essere cercata che nella solidarietà internazionale (la stessa per cui molti cooperanti mettono a rischio la vita, come è successo a Giovanni Lo Porto) e nella collaborazione sempre più stretta tra i Paesi che condividono gli stessi ideali di democrazia, di convivenza e di tolleranza. La sfida è, oggi come ieri, molto impegnativa. Non c’è dubbio che la società aperta e accogliente abbia dei rischi in più in termini di sicurezza rispetto a uno Stato di polizia. Ma possiamo chiedere ai cittadini europei di sobbarcarsi qualche fastidio o controllo in più, non certo di vedersi limitare diritti e prerogative che ormai sono patrimonio comune e irrinunciabile. Tradiremmo la nostra storia e i nostri valori».
Ma la Resistenza negli ultimi vent’anni è stata anche oggetto di una lettura revisionista che ha criticato la «mitologia» resistenziale e il suo uso politico da parte comunista, che pure c’è stato, attaccando il legame tra la ribellione partigiana al fascismo e la nascita delle istituzioni democratiche e repubblicane. Qual è il suo giudizio? Perché non c’è una memoria condivisa su una vicenda che dovrebbe rappresentare il valore fondante dell’Italia repubblicana?

«Stiamo parlando di una guerra che ha avuto anche aspetti fratricidi. Credo che sia molto difficile, quando si hanno avuto familiari caduti, come si dice adesso, “dalla parte sbagliata” o si è stati vittime di soprusi o di vendette da parte dei nuovi vincitori, costruire su questi fatti una memoria condivisa. Pietro Scoppola, nell’infuriare della polemica storico-politica sul revisionismo, invitava a fare un passo avanti e a considerare la Costituzione italiana, nata dalla Resistenza, come il momento fondante di una storia e di una memoria condivisa. Una Costituzione, vale la pena rimarcarlo, che ha consentito libertà di parola, di voto e addirittura di veder presenti in Parlamento esponenti che contestavano quella stessa Costituzione nei suoi fondamenti. Tranne poche frange estremiste e nostalgiche, non credo che ci siano italiani che oggi si sentano di rinunciare alle conquiste di democrazia, di libertà, di giustizia sociale che hanno trovato nella Costituzione il punto di inizio, consentendo al nostro Paese un periodo di pace, di sviluppo e di benessere senza precedenti. Proprio per questo va affermato che il 25 aprile è patrimonio di tutta l’Italia, la ricorrenza in cui si celebrano valori condivisi dall’intero Paese».

Cosa pensa delle violenze e delle vendette che insanguinarono il «triangolo rosso» e le Foibe in quegli anni? Non c’è stato troppo silenzio e per troppo tempo, in un Paese che non ha avuto un processo di Norimberga ma che oggi, settant’anni dopo, non dovrebbe avere paura della verità? E come rivive le immagini di Mussolini e Claretta Petacci esposti cadaveri a Piazzale Loreto?

«È stato merito di esponenti provenienti dalla sinistra, penso a Luciano Violante e allo stesso presidente Napolitano, contribuire alla riappropriazione, nella storia e nella memoria, di episodi drammatici ingiustamente rimossi, come quelli legati alle Foibe e all’esodo degli Italiani dall’Istria e dalla Dalmazia. Sono stati molti i libri e le inchieste che si sono dedicati a riportare alla luce le vendette, gli eccidi, le sopraffazioni che si compirono, anche abusando del nome della Resistenza, dopo la fine della guerra. Si tratta di casi gravi, inaccettabili e che non vanno nascosti. L’esposizione del corpo di Mussolini, di Claretta Petacci e degli altri gerarchi fucilati, per quanto legata al martirio che numerosi partigiani subirono per mano dei tedeschi nello stesso Piazzale Loreto pochi giorni prima, la considero un episodio barbaro e disumano. Va comunque svolta una considerazione di fondo: gli atti di violenza ingiustificata, di vendetta, gli eccidi compiuti da parte di uomini legati alla Resistenza rappresentano, nella maggior parte dei casi, una deviazione grave e inaccettabile dagli ideali originari della Resistenza stessa. Nel caso del nazifascismo, invece, i campi di sterminio, la caccia agli ebrei, le stragi di civili, le torture sono lo sbocco naturale di un’ideologia totalitaria e razzista».

Il tema della riconciliazione, a mio parere, va affrontato tenendo conto che la pietà per i morti dell’una e dell’altra parte non significa che le ragioni per cui sono morti siano equivalenti. «Tutti uguali davanti alla morte — scrive Calvino — non davanti alla storia». Qual è la sua opinione?

«Calvino mi sembra abbia centrato il tema. Non c’è dubbio che la pietà e il rispetto siano sentimenti condivisibili di fronte a giovani caduti nelle file di Salò che combattevano in buona fede. Questo non ci consente, però, di equiparare i due campi: da una parte si combatteva per la libertà, dall’altra per la sopraffazione. La domanda di Bobbio ai revisionisti è rimasta senza risposta: che cosa sarebbe successo se, invece degli alleati, avessero vinto i nazisti?».

Vorrei chiudere con Bobbio. «Il rifiuto dell’antifascismo in nome dell’anticomunismo — ha scritto — ha finito spesso per condurre ad un’altra forma di equidistanza abominevole, quella tra fascismo e antifascismo». E infatti da parte della destra è emerso pochi anni fa il tentativo di superare il 25 aprile, sostituendolo con un giorno di festa civile nel rifiuto di tutte le dittature. Come se non ci fossero altri 365 giorni sul calendario per scegliere una celebrazione contro ogni regime dittatoriale. A patto però di ricordare il 25 aprile, tutti, come il giorno in cui è finita la dittatura del fascismo, nato proprio in Italia. Cosa ne pensa? Il 25 aprile, ha detto Bobbio, ha determinato un nuovo corso nella nostra storia. Perché, semplicemente, «se la Resistenza non fosse avvenuta, la storia d’Italia sarebbe stata diversa, non sarebbe la storia di un popolo libero».
«Credo che quella dell’abolizione della festa della Liberazione sia una polemica ormai datata e senza senso. Sarebbe come dire: invece di celebrare il nostro Risorgimento, festeggiamo la Rivoluzione americana e francese... È vero che nel mondo ci sono stati diversi regimi totalitari e sanguinari, frutto di ideologie disumanizzanti. Ma la storia italiana è passata attraverso la dittatura fascista, la guerra, la lotta di Liberazione. E un popolo vive e si nutre della sua storia e dei suoi ricordi ».

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