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Alfonso Gianni
Mario Draghi: Re Mida sul Titanic
22 Gennaio 2016
Articoli del 2016
Il neoliberalismo in Europa è fallito, ma non si vede neppure la ricerca di una strada alternativa. Intanto Draghi promette iniziative che potranno servire solo a dilazionare il naufragio. H

uffington post online, 22 gennaio 2016

Mario Draghi ha parlato e come d’incanto le borse si sono risollevate. Non è un miracolo, è esattamente quello che ci si aspettava. Anche perché non era poi così difficile prevedere quello che il potentissimo governatore della Banca centrale europea avrebbe detto. Il novello re Mida infatti ha confermato che per ora non si prevedono muove misure, si mantengono quelle che già ci sono, ma che a marzo la Bce è pronta ad ampliare “senza limiti” l’acquisto di titoli, pur restando ovviamente nei termini definiti dal proprio statuto.

Tutto bene? Tutti felici? Non proprio. Intanto perché lo stesso annuncio di Draghi mette in luce che le cose fin qui non sono andate benissimo. Infatti l’obiettivo di accrescere l’inflazione, di avvicinarla al fatidico 2%, è stato largamente mancato. Lo stesso Presidente della Bce ha riconosciuto che le aspettative per una inflazione crescente nel corso dell’anno appena cominciato si sono indebolite, tenendo conto dei dati verificati a dicembre.

La deflazione continua e non conosce ancora terapie valide a combatterla. Draghi stesso ha più volte detto che la politica monetaria da sola non basta. Ma non si intravedono a livello europeo politiche economiche e fiscali in grado di aggredire la crisi profonda nella quale siamo precipitati. Che il neoliberismo e le politiche di austerity abbiano fallito sono ormai in molti a riconoscerlo, ma al di là delle chiacchiere sulla flessibilità rispetto ai vincoli troppo rigidi, non c’è alcuna inversione di tendenza sostanziale. Tantomeno nel nostro paese, malgrado i recenti litigi fra Renzi e i big della Ue.
Intanto la crisi economica e finanziaria globale non recede. Il volume complessivo del debito è aumentato rispetto al 2008. McKinsey stima che già nel 2014 ammontasse a 57mila miliardi di dollari in più rispetto all’inizio della crisi. Rispetto ad allora è cambiata la composizione del debito. Il peso maggiore non grava sulle spalle delle famiglie americane, quanto sulle imprese cinesi o di altri paesi emergenti o emersi, ma già carichi di guai. Fitch stima che in Cina il debito complessivo – in questo caso prevalentemente privato – è arrivato al 196% del Pil a fine settembre 2015. E’ in buona parte in valuta estera e solo un terzo è assicurato contro il rischio cambio. Insomma una nuova bolla si sta gonfiando e potrebbe scoppiare da un momento all’altro.
D’altro canto le mosse della Federal reserve di innalzamento, seppure prudente e moderato, dei tassi, ha favorito lo spostamento capitali dai paesi di nuovo sviluppo verso gli Usa. A ciò si deve aggiungere che la guerra dei prezzi del petrolio, e i suoi risvolti finanziari, colpisce i paesi produttori che avevano in questo la loro principale risorsa, più che la produzione e l’esportazione di shale oil americano.
Diversi economisti tuttavia sostengono che non ci sarebbe da preoccuparsi troppo, perché il “sistema” ha imparato a difendersi dopo la scoppola della crisi dilatatasi a seguito del fallimento della Lehman Brothers. Le banche centrali non praticano più politiche restrittive e il meccanismo delle cartolarizzazioni – che diffuse urbi et orbi i subprime americani – è oggi un poco più sotto controllo.

Ma questo ottimismo si infrange almeno contro due duri elementi di realtà. Il primo concerne il fatto che nessuno ha messo mano al cosiddetto sistema bancario ombra, denunciato nei suoi ultimi libri dal compianto Luciano Gallino. Nessuno controlla quell’intreccio di fondi, di società, di investitori, di manovratori finanziari che, in quasi totale assenza di regolamentazione, hanno erogato credito in modi vari a singoli o imprese particolarmente dei paesi emergenti. Secondo una recente ricerca del Financial Stability Board il volume del denaro movimentato sarebbe pari a 137mila miliardi di dollari, dei quali 36mila in particolare potrebbero essere una mina vagante per la stabilità finanziaria.

Il secondo elemento è che le politiche di stimolo monetario, soprattutto se prolungate nel tempo, hanno come effetto collaterale quello di incrementare il mercato azionistico e di aumentare le già gigantesche diseguaglianze di reddito e quindi sociali. Lo ha affermato anche Joseph Stiglitz, confortato da molteplici studi di diversi centri internazionali, in una sua apparizione al Festival dell’economia di Trento: "In una economia moderna non si fa la distinzione tra debitori e creditori, ma tra chi risparmia e chi ha un patrimonio per nascita. Una politica come il Quantitative Easing può aumentare la disuguaglianza se si abbassano i tassi di interesse, le azioni si impennano i ricchi stanno ancora meglio ma i risparmiatori non hanno più fonti di reddito".
Infine bisogna pure tenere conto che il Quantitative Easing non può durare in eterno. Che anzi fin d’ora bisognerebbe preoccuparsi delle conseguenze sull’economia di una sua interruzione, quindi della necessitò di progettare atterraggi morbidi. Ma non mi pare che se ne occupi alcuno. Tutti intenti a brindare alle spumeggianti dichiarazioni di Mario Draghi. Effetto Titanic.
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