Con il Codice per i beni culturali approvato ieri dal Consiglio dei ministri, di corsa, alcuni giorni prima della scadenza della delega, il governo si avvia a completare la marcia contro le leggi di tutela con cui si è cercato di salvaguardare da abusi, vendite, scempi il patrimonio storico-artistico e paesistico dall’epoca prefascista. Leggi Rosadi e Croce riprese e sostanzialmente confermate da Giuseppe Bottai nel 1939 (le famose leggi n. 1089 e 1497).
Leggi poi potenziate per la parte paesistica da quella che fu chiamata, giustamente, «la rivoluzione Galasso», con la legge n. 431. Quest’ultima imponeva alle Regioni - pena la loro sostituzione con le Soprintendenze (come è avvenuto in Campania) - la redazione e l’approvazione di piani paesistici dettagliati. Ai quali si doveva poi attenere tutta la pianificazione comunale e provinciale. Assieme alla Galasso, votata in pratica all’unanimità nel 1985, va messa, nella stessa ottica, la legge sulle aree protette, la n. 194 del 1991 che, assieme a quella per la pianificazione idrogeologica con le Autorità di Bacino (n.183/1989), completava un apparato riformatore tanto faticato quanto importante.
Tutto intaccato, indebolito o diroccato: con le leggi-obiettivo del ministro Lunardi, con la legge sul condono (il terzo in meno di vent’anni), con la normativa sul silenzio/assenso (in poche settimane) per la vendita dei beni culturali e ambientali, col decreto-legge Matteoli sulla valutazione di impatto ambientale, con le norme sull’ambiente in discussione al Senato (quelle del famigerato emendamento 32 che ora il Polo annuncia di ritirare, ma il provvedimento rimane negativo, al ribasso) e con questo Codice tanto voluto da Urbani, appena quattro anni dopo il Testo Unico onnicomprensivo sui beni culturali, il paesaggio del Bel Paese subisce una scarica di colpi mortali. Quel paesaggio che Giulio Carlo Argan, nel memorabile discorso tenuto al Senato a sostegno della legge Galasso, definì il «palinsesto in cui sono scritti millenni di storia». E pensare che ieri mattina un esponente della maggioranza si diceva stupito per le critiche vantando che questo Codice avrebbe definito «bene culturale» il paesaggio. Con la controriforma del ministero, il monumento funebre sarà completo, purtroppo. Eppure «Italia Nostra» aveva preso le distanze con un recentissimo numero monografico del suo Bollettino dal Codice urbaniano e dalle sue norme. E il Wwf aveva portato in audizione un dossier di critiche e proposte sulla parte di gran lunga più debole: quella paesistica.
Per la quale il Wwf parla ora di «eliminazione» delle norme.
Questo Codice porta all’allentamento generale delle salvaguardie esistenti e, per il paesaggio, alla demolizione della legge Galasso. Pensate che alle Regioni si prescrive di redigere i piani senza fissare alcuna data e senza prevedere sostituzioni in caso di inadempienza. Si fanno cadere i vincoli ope legis su vaste parti del territorio (il 47 per cento, secondo dati dell’Ambiente) e si muta in un semplice «parere», da dare in soli 30 giorni, il potere di annullamento sin qui esercitabile entro 60 giorni dalle Soprintendenze sulle autorizzazioni comunali e regionali, e via di questo allegro passo. Verso che cosa? Verso le moltiplicazioni di cemento e asfalto, verso il «nuovo sacco» del Bel Paese.
Le Associazioni culturali che si battono per la tutela avevano chiesto di tener conto del dibattito che vi fu alla Conferenza Nazionale per il Paesaggio e di venire coinvolte dal Ministero. C’è stato un fugacissimo incontro e nulla più. Altro che meditata riscrittura delle norme! Così l’Italia viene riportata indietro. A prima di Bottai, prima di Croce e Rosadi, cioè prima di Giolitti, e anche di Pio VII. Del resto il berlusconiano «ciascuno è padrone a casa sua», caro ai padroncini, cozzava frontalmente con la Costituzione (art. 9). La quale come il tricolore, sta finendo là dove voleva il ministro Bossi.