il manifesto, 22 agosto 2017
«Il sesso come violenza esplicitata nella classica giustificazione dello stupro. E il profugo, ovvero il "clandestino", identificato con lo stupratore. Viaggia in rete il feroce sessismo razzista. Non serve ribattere punto per punto, vanno riattivate pratiche di accoglienza e confronto dirette, fuori dalla giungla dei social»
Traspare evidente anche il loro desiderio di parteciparvi, la loro identificazione con lo/gli stupratori; una visione della violenza come sesso, ma anche, e soprattutto, del sesso come violenza, esplicitata dalla classica giustificazione dello stupro: «ti piacerà anche chissà quanti ne hai ogni sera a farti sfondare», ecc. Ma non è tutto. Laura Boldrini è una donna, che si batte contro il razzismo e per l’accoglienza dei profughi. Il profugo, ovvero il “clandestino”, identificato con lo stupratore. Ovviamente nero: «Le sue merde nere tanto amate». E perché mai? Perché «è arrivata l’ora che ti togli dal cazzo italiano e sali sopra il cazzo nero che tanto hai voluto».
Fa qui la sua comparsa uno dei temi di fondo del machismo, ma anche del razzismo, di tutti i tempi: l’invidia del pene, a lungo, e a torto, identificato con la condizione naturale della donna; forse per nascondere un problema che tormenta da sempre gli uomini: il confronto tra i rispettivi attributi maschili, unito al timore di uscirne perdenti; soprattutto rispetto ai “neri”, identificati tout court con tutti i profughi e tutti i clandestini. Qui il razzismo non è che un tentativo di eludere il fantasma di un confronto da sempre centrale nell’educazione dell’uomo occidentale.
Ma a quest’assalto a Laura Boldrini a suon di tweet hanno partecipato anche diverse donne, che non possono essere state mosse dalle stesse pulsioni. Da una sicuramente sì: il voyerismo, il piacere e il gusto di assistere a una violenza sessuale come fonte di soddisfazione di un desiderio di sopraffazione altrimenti inesprimibile. Ma anche, ovviamente, la soggezione a una cultura maschilista introiettata. Il fatto è che sia dagli uomini che dalle donne che la oltraggiano, Laura Boldrini non è odiata solo e principalmente perché donna, ma soprattutto perché identificata con una rigida difesa dell’accoglienza. Altre donne prima di lei hanno ricoperto la stessa carica senza essere offese in questo modo.
All’epoca di Nilde Jotti la politica non aveva ancora abbandonato le parvenze di quel bon ton messo oggi sotto accusa insieme al cosiddetto political correct. E’ vero. E in fin dei conti, Irene Pivetti era lì come rappresentante di quella parte politica da cui proviene la maggior parte delle offese contro Laura Boldrini, ma che non era certo scontenta di avere una presidente donna. Anche questo è vero. Ma allora profughi e migranti non erano ancora il problema, mentre oggi la contrapposizione tra accogliere e respingere è il cuore della lotta politica; proprio ciò che ha fatto emergere come sua componente primaria il razzismo, ben assistito dalle pulsioni custodite negli strati profondi della psiche. E soprattutto, allora non c’erano ancora i social forum, che sono la palestra di queste esibizioni di feroce sessismo razzista: la trasposizione in una rete di dimensioni planetarie di discorsi e battute che forse ci sono sempre state, ma tra pochi amici, al bar. E che oggi, invece, non si accontentano più dell’anonimato e sono fiere di presentarsi con nome e cognome. Ciò che abbina sessismo, razzismo e degrado della politica non sta, ovviamente, solo nell’avvento dei social forum.
Sta soprattutto nel fatto che i social sono al tempo stesso il vettore e lo specchio di una disgregazione sociale che, mentre responsabilizza ciascuno per le vicende biografiche personali a cui lo ha destinato la società in cui vive, offre all’individuo isolato una compensazione alle proprie frustrazioni nella libertà di procurarsi un pubblico insultando e offendendo nel modo più crudo avversari politici, tifosi di altre squadre, nemici personali, esponenti di etnie, religioni e culture diverse.
Contro questa invadenza dei social non serve ribattere punto per punto. A parte il dispendio di tempo e di energia che ciò richiederebbe, il fatto è che contro la disgregazione sociale promossa dalla cultura della meritocrazia e della competitività universale e alimentata dai social funzionano solo politiche e pratiche di riaggregazione fondate sui rapporti diretti, sull’incontro e il confronto personale, sulla cooperazione in attività, progetti e lotte comuni, sulla solidarietà che non può prescindere dall’incrocio degli sguardi, dalla conoscenza personale e dal riconoscimento reciproco attraverso condivisione di gesti, gusti, parole, serate. E usando la rete solo a supporto, e non come fondamento, di forme più complesse e generali di organizzazione. Proprio quello che si cerca di fare nei centri di aggregazione.