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Stefano Rodotà
L’uso umano 
degli esseri umani
24 Giugno 2017
Stefano Rodotà
«Un uomo di una statura morale e culturale fuori dal comune, che sarebbe stato un grande presidente della Repubblica. Lo ricordiamo qui ripubblicando uno dei suoi ultimi articoli».

«Un uomo di una statura morale e culturale fuori dal comune, che sarebbe stato un grande presidente della Repubblica. Lo ricordiamo qui ripubblicando uno dei suoi ultimi articoli».

MicroMega, 23 giugno 2017 (c.m.c)

Stefano Rodotà è stato uno strenuo difensore della Costituzione, di cui era un profondo conoscitore. Ha attraversato il suo tempo con saldissimi princìpi di giustizia sociale e laicità ed è stato al tempo stesso capace di grande modernità, con un’attenzione costante ai diritti civili e alle possibilità e ai rischi delle nuove tecnologie.

Nel secondo dopoguerra il dibattito sui limiti della scienza 
e della tecnologia era strettamente legato ai timori di distruzione 
del genere umano legati alla bomba atomica. Oggi le nuove sfide sono quelle del postumano, in cui la ‘soglia’ dell’umano viene travalicata aprendo certamente grandi possibilità ma ponendo anche nuovi, complessi interrogativi. Ed è sul terreno del diritto 
che si pongono le sfide più importanti: i princìpi di eguaglianza 
e dignità devono essere il faro per rimanere umani.
1. Quando, nel 1950, Norbert Wiener pubblica le sue riflessioni su cibernetica, scienza e società, sceglie come titolo L’uso umano degli esseri umani. In queste parole troviamo qualcosa che va oltre la storica consapevolezza dello scienziato per le conseguenze della sua ricerca. Vi è l’eco di un tempo cambiato, e non solo per la percezione lucida di quel che la tecnologia avrebbe determinato e che lo induce a una pionieristica riflessione sui rapporti tra l’umano e la macchina. Siamo a ridosso della seconda guerra mondiale e Wiener è tra gli scienziati più consapevoli dei rischi di una militarizzazione della scienza, tanto che rifiuta ogni finanziamento legato a queste finalità, ogni coinvolgimento in simili ricerche. Negando l’innocenza della scienza, nel 1947, in una lettera intitolata «A Scientist Rebels», ribadisce il suo rifiuto di incoraggiare «the tragic insolence of the military mind», che può determinare appunto usi inumani degli esseri umani, con un riferimento esplicito alle bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki. La riflessione sui rapporti tra scienza e società viene così legata alla responsabilità per gli effetti della ricerca scientifica e tecnologica, e proiettata nel futuro.

Sarà Günther Anders, mettendo al centro della sua riflessione proprio la bomba atomica, a cogliere nel 1956 la radicalità di questo passaggio, chiedendosi nel suo libro più noto se L’uomo è antiquato. E scrive: «Come un pioniere, l’uomo sposta i propri confini sempre più in là, si allontana sempre più da se stesso; si “trascende” sempre di più – e anche se non s’invola in una regione sovrannaturale, tuttavia, poiché varca i limiti congeniti della sua natura, passa in una sfera che non è più naturale, nel regno dell’ibrido e dell’artificiale».

Questo congedo dall’umano era cominciato trent’anni prima, quando Julien Huxley, al quale si attribuisce l’invenzione del termine «transumanismo», aveva concluso nel 1927 le sue riflessioni dicendo che «forse il transumanismo servirà: l’uomo rimarrà uomo, trascendendo però se stesso e realizzando così nuove possibilità per la sua propria natura umana». Il «trascendere» di Huxley ritorna in Anders, ma nelle ricerche successive l’ancoraggio sicuro nel rispetto della «natura umana» sembra svanire, comunque viene respinto sullo sfondo.

Nelle definizioni più recenti si parla di transumanismo o di postumano con riferimento alla «tecnologia che permette di superare i limiti della forma umana» o, più enfaticamente, al «movimento intellettuale e culturale che afferma la possibilità e la desiderabilità di migliorare in maniera sostanziale la condizione umana attraverso la ragione applicata, usando in particolare la tecnologia per eliminare l’invecchiamento ed esaltare al massimo le capacità intellettuali, fisiche e psicologiche». Postumano è inteso come «meglio dell’umano». Ma queste incondizionate aperture, di cui si vorrebbe l’immediata traduzione istituzionale in un «diritto alla tecnologia», rischiano proprio di eludere la questione pregiudiziale dell’uso umano degli esseri umani.

2. Non siamo privi di princìpi di riferimento, non abbiamo di fronte a noi una tabula rasa, quando affrontiamo oggi un tema così impegnativo, e comunque ineludibile. L’attenzione deve di nuovo essere rivolta al cruciale passaggio dell’ultimo dopoguerra, quando la riflessione sull’arma atomica venne accompagnata da quella, altrettanto sconvolgente, imposta dalla rivelazione dell’estremo uso inumano degli esseri umani avvenuto con la Shoà e con la sperimentazione medica di massa sulle persone, trasformate in cavie umane, come risultò dai processi a carico dei medici nazisti.

Dagli atti di quei processi Marco Paolini ha tratto uno straordinario spettacolo, intitolato Ausmerzen, parola che descrive la pratica di abbattere i capi più deboli in occasione della transumanza delle greggi. Una pratica codificata in particolare dal decreto firmato da Adolf Hitler il 7 dicembre 1941, che prevedeva che ebrei, rom, omosessuali, dissidenti politici catturati nei paesi occupati dalle truppe naziste sarebbero stati trasferiti in Germania, e lì sarebbero scomparsi «nella notte e nella nebbia». Qui viene sinistramente evocato l’Oro del Reno di Richard Wagner, quando Alberich indossa l’elmo magico, si trasforma in colonna di fumo e scompare cantando «Notte e nebbia, non c’è più nessuno». Ma ciò che scompare sono gli esseri umani, non più persone ma oggetti, disponibili per il potere politico e il potere medico.

Una reazione a questo esercizio del potere venne affidata nel 1946 al codice di Norimberga, un insieme di princìpi che si apre con l’affermazione «il consenso volontario del soggetto umano è assolutamente necessario». È una sorta di rinnovato habeas corpus, che sottrae al medico il potere fino ad allora tutto discrezionale sul corpo del paziente, limitato solo da quel giuramento di Ippocrate che proprio i medici nazisti avevano tradito. Si è detto giustamente che così nasceva un nuovo soggetto morale, che l’umano riceveva un suo essenziale riconoscimento.

Ma la risposta più radicale, e più profonda, si trova nelle parole conclusive dell’articolo 32 della Costituzione italiana: «La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Viene così posto al legislatore un limite invalicabile, più incisivo ancora di quello previsto dall’articolo 13 per la libertà personale, che ammette limitazioni sulla base della legge e con provvedimento motivato del giudice. Nell’articolo 32 si va oltre. Quando si giunge al nucleo duro dell’esistenza, alla necessità di rispettare la persona umana in quanto tale, siamo di fronte all’indecidibile. Nessuna volontà esterna, fosse pure quella coralmente espressa da tutti i cittadini o da un parlamento unanime, può prendere il posto di quella dell’interessato.

Siamo di fronte a una sorta di nuova dichiarazione di habeas corpus, a una rinnovata autolimitazione del potere. Viene ribadita, con forza moltiplicata, la promessa della Magna Charta. Il corpo intoccabile diviene presidio di una persona umana alla quale «in nessun caso» si può mancare di rispetto. Il sovrano democratico, un’assemblea costituente, rinnova a tutti i cittadini quella promessa: «Non metteremo la mano su di voi», neppure con lo strumento grazie al quale, in democrazia, si esprime legittimamente la volontà politica della maggioranza, dunque con la legge. Anche il linguaggio esprime la singolarità della situazione, poiché è la sola volta in cui la Costituzione qualifica un diritto come «fondamentale», abbandonando l’abituale riferimento all’inviolabilità.

3. Autodeterminazione della persona e limitazione dei poteri esterni segnano così la via da seguire perché l’umano possa essere rispettato in quanto tale, sottratto alle pulsioni che vogliano cancellarlo. Sono criteri ancor oggi adeguati o hanno bisogno d’essere ulteriormente articolati e approfonditi per poter fronteggiare le nuove sfide continuamente poste dalle dinamiche della tecnoscienza?

Prima di cercare una risposta a questo interrogativo, tuttavia, è bene riflettere sul modo in cui la tecnologia viene oggi nominata, anche per gli oggetti di comune utilizzazione. Si parla, per esempio, di «smartphone». Compare la parola «intelligente». E questo non è un dettaglio, un’indicazione di poco conto, perché si descrive un passaggio – quello da una situazione in cui l’intelligenza era riconosciuta soltanto agli umani a una in cui comincia a presentarsi come attributo anche delle cose, di oggetti di uso quotidiano.

Entriamo così nella dimensione dell’intelligenza artificiale, della progressiva costruzione di sistemi in grado di imparare, e così dotati di forme di intelligenza propria. Una prospettiva che inquieta alcuni tra i protagonisti del mondo della scienza e della tecnologia – da Stephen Hawkins a Bill Gates, da Elon Musk a Jaan Tallin – che esasperano i rischi di un’evoluzione che porterebbe a creare sistemi dotati di un’intelligenza che li metterebbe in condizione non solo di creare nuove simbiosi tra uomo e macchina, ma di sopraffare e sottomettere l’intelligenza umana. Si è giunti a dire che si sta «evocando un demone», che ci si avvicina pericolosamente a quella che sarebbe «l’ultima invenzione dell’uomo», dunque a un rischio ben maggiore di quello determinato dalla bomba atomica.

Quattrocento scienziati hanno discusso questa prospettiva. In un documento non catastrofista, si mette in evidenza la crescente apparizione di sistemi autonomi, veicoli autonomi, forme autonome di produzione, armi letali autonome. Ma autonomia rispetto a che cosa? Il criterio di comparazione è chiaro: rispetto a una situazione nella quale le decisioni sono affidate alla consapevolezza e alla indipendenza delle persone, e quindi alla loro responsabilità. Ora, invece, l’autonomia sembra abbandonare l’umano e divenire carattere delle cose, ponendo problemi concreti di responsabilità civile (chi risponderà dei danni provocati da un’auto senza conducente?), privacy (quali garanzie di fronte a una continua e capillare raccolta delle informazioni personali sempre più facilitata, ad esempio, dall’impiego di droni?), futuro del lavoro (sono annunciate fabbriche interamente robotizzate), legittimità dell’uso di sistemi di armi letali (prevedere almeno una moratoria per quanto riguarda il loro impiego, considerando anche l’eventualità di un loro divieto, come già si è fatto per le armi chimiche o batteriologiche?).

In questo modo di affrontare le molteplici questioni poste dalle ricerche e dalle concrete innovazioni legate dall’intelligenza artificiale si coglie un bisogno di innovazione che investe direttamente la dimensione della regola giuridica. Se il tempo a venire è descritto come quello della «nostra invenzione finale: l’intelligenza artificiale e la fine dell’età umana», quale spazio rimarrebbe per quell’attività propriamente umana che consiste nell’agire libero e nel dare regole all’agire? Scompariranno i diritti «umani», e con essi i princìpi di dignità ed eguaglianza, o verranno estesi ad altre specie viventi e anche al mondo delle cose?

Nel ricostruire la dimensione del postumano si insiste sull’assoluta libertà della ricerca scientifica e sull’incondizionato riconoscimento del diritto alla tecnologia, specificato a livello individuale come «libertà morfologica», come diritto all’uso legittimo di tutte le opportunità che l’innovazione scientifica e tecnologica mette a disposizione delle persone. Nessun limite, dunque? Ma, discutendo proprio le tesi di Günther Anders, Norberto Bobbio metteva in evidenza come in esse la fondazione di una nuova morale assumesse un significato assolutamente prioritario e come i rimedi giuridico-istituzionali fossero condizionati dal raggiungimento di quell’obiettivo.

Questi due piani si sono via via sempre più intrecciati nel mutare di un contesto nel quale l’accento si è spostato dalla considerazione della sopravvivenza fisica dell’umanità, qual era implicata dal riferimento alla bomba atomica, a una sua trasformazione così radicale da portare a una sopraffazione dell’umano da parte del mondo delle macchine. Se, allora, si deve guardare nella direzione della costruzione di un contesto istituzionale coerente con la novità dei tempi, sono i princìpi del giuridico a dover essere presi in considerazione in quella loro particolare fondazione ad essi offerta dall’ultima fase del costituzionalismo – in primo luogo quelli di eguaglianza e di dignità, non a caso presenti, direttamente o indirettamente, nell’insieme della discussione che si sta svolgendo.

4. Questi temi sono entrati nel discorso pubblico con il diffondersi delle tecniche di riproduzione assistita e con l’emergere di ipotesi estreme, come quelle delle madri-nonne o della scelta di una coppia di lesbiche sordomute di ricorrere a quelle tecniche per avere figli anch’essi sordomuti. Ma ormai l’orizzonte si è assai dilatato, la definizione del campo del postumano non fa più riferimento soltanto alle innovazioni legate a biologia e genetica, ma è il risultato della convergenza di diverse discipline e esperienze, che vanno dall’elettronica all’intelligenza artificiale, alla robotica, alle nanotecnologie, alle neuroscienze.

Molte trasformazioni sono già visibili e giustificano la considerazione del corpo come «un nuovo oggetto connesso», addirittura come una «nano-bio-info-neuro machine», richiamando quell’«homme machine» di cui nel Settecento parlavano La Mettrie e D’Holbach. Si individua così una nuova dimensione dell’umano, spesso rappresentata come un campo di battaglia dove si combattono visioni inconciliabili. Le trasformazioni assumono così un valenza qualitativa inedita, anche se di esse possono essere rintracciate ascendenze persino sorprendenti, come in quelle Magnalia naturae, che Francis Bacon nel 1627 pone in appendice alla Nuova Atlantide, indicando le prospettive aperte dalla scienza: «prolungare la vita; ritardare la vecchiaia; guarire le malattie considerate incurabili; lenire il dolore; trasformare il temperamento, la statura, le caratteristiche fisiche; rafforzare ed esaltare le capacità intellettuali; trasformare un corpo in un altro; fabbricare nuove specie; effettuare trapianti da una specie all’altra; creare nuovi alimenti ricorrendo a sostanze oggi non usate».

Oggi si discute molto di realtà «aumentata», considerando il modo in cui l’elettronica trasforma l’ambiente in cui viviamo, e noi stessi. Ma Bacon, a ben guardare, ci parlava già di un uomo «aumentato», e questa è la terminologia alla quale ricorrono i tecnologi. Si entra così nel campo dello «human enhancement», di un potenziamento della condizione umana grazie all’eliminazione di vincoli naturali e culturali resa possibile dalla scienza, con un’estensione delle opportunità di vita.

Un uomo aumentato, o spossessato di quei tratti dai quali riteniamo che l’umanità non possa essere separata? Se spostiamo lo sguardo dalle premonizioni del passato alle ipotesi di oggi, ci imbattiamo in anticipazioni profetiche e promesse allettanti. Verrà un giorno, dicono i più radicali tra i transumanisti, in cui l’uomo non sarà più un mammifero, si libererà del corpo, sarà tutt’uno con il computer, dal suo cervello potranno essere estratte informazioni poi replicate appunto in un computer, e potrà accedere all’immortalità cognitiva e l’intelligenza artificiale viene presentata come quella che ci libererà dalle malattie e dalla povertà, dandoci una pienezza dell’umano, liberato dalle sue miserie. Ma questo «meglio dell’umano» può esigere un prezzo elevato, l’abbandono di consapevolezza e indipendenza delle persone, facendo assumere al postumano le sembianze di un’ideologia della tecnoscienza.

5. Ma già viviamo l’eclisse dell’autonomia della persona nel tempo del capitalismo «automatico». Grazie a un’ininterrotta raccolta di informazioni sulle persone, la costruzione dell’identità è sempre più affidata ad algoritmi, sottratta alla decisione e alla consapevolezza individuale. Possiamo dire che stiamo passando da Cartesio a Google. Non si può parlare dell’identità con le parole «io sono quello che io dico di essere», bensì sottolineando che «tu sei quel che Google dice che tu sei».

Partendo da questa constatazione, la persona viene conosciuta e classificata, la sua identità è affidata ad algoritmi e tecniche probabilistiche, si instaura una sorta di determinismo statistico per quanto riguarda le sue future decisioni, sì che la persona, declinata al futuro, rischia d’essere costruita e valutata per sue possibili propensioni e non per le sue azioni. Così, la separazione tra identità e intenzionalità, oltre a una «cattura» dell’identità da parte di altri, conferma una tendenza verso un progressivo allontanarsi dall’identità come frutto dell’autonomia della persona. Diventiamo sempre più «profili», merce pregiata per un mercato avido di informazioni, e sempre meno persone. Si appanna, fino a scomparire, la forza dell’umano nella costruzione del sé, ed è faticosa la ricerca di vie per reinventare l’identità nel tempo della tecnoscienza.

Sono continui gli scambi tra l’umano, il postumano e un mondo delle cose che manifesta una crescente autonomia. Non è senza significato il passaggio dall’internet 2.0, quello delle reti sociali, all’internet 3.0, l’internet delle cose. E il mondo delle cose è trasformato dalla presenza variegata dei robot, sempre meno riferibili alla sola dimensione fisica. Compaiono robot virtuali, appunto gli algoritmi che consentono il funzionamento dei computer che governano determinate attività, e robot sociali, che sarebbero poi quelli ai quali deve essere già riconosciuta «una piccola umanità». Piccola come unica possibilità o primo passo verso un’integrale «umanità» della macchina?

L’umano si distribuisce, esce dall’area che culturalmente gli era stata attribuita, il mondo delle cose si anima, e così a qualcuno sembra che debba essere certificata addirittura l’eclisse definitiva di quello che abbiamo chiamato umanesimo. Una nuova manifestazione di quel conflitto tra le due culture di cui tanto si parlò anni fa? Si annuncia piuttosto una passaggio radicale. Non solo l’assunzione di sembianze di macchina da parte dell’umano. Ma la creazione di sistemi artificiali in grado di imparare, dotati di una forma di intelligenza propria che li metterebbe in grado di sopraffare l’intelligenza umana, di creare una simbiosi macchina/uomo influente sulla stessa evoluzione della specie.

Due situazioni diverse, che tuttavia hanno in comune il problema della soglia, superata la quale si passerebbe da una dimensione all’altra. E in questo intreccio tra dati del presente e proiezioni nel futuro si colloca la faticosa costruzione di un contesto di regole e princìpi, di una RoboLaw in grado di massimizzare i benefici della seconda rivoluzione delle macchine.

Una nuova forma sociale si sta manifestando e, com’è già avvenuto in passato, i suoi effetti vengono subito misurati sul rapporto tra condizione postumana e destino del lavoro. Una società liberata dal lavoro o insidiata da più profonde servitù? Esclusioni crescenti o un «fully automated luxury communism»? Queste domande rinviano a un interrogativo più radicale, che si manifesta sempre più esplicitamente nelle discussioni: queste trasformazioni avvengano all’insegna del profitto o dell’interesse della persona? Per affrontare questo problema, il riferimento non può essere cercato nell’intelligenza artificiale, ma in quella collettiva, dunque nella politica e nelle decisioni che questa è chiamata ad assumere. Il vero rischio, infatti, non è quello di una politica espropriata dalla tecnoscienza. È il suo abbandonarsi a una deriva che la deresponsabilizza, induce a concludere che davvero malattia e povertà siano affari ormai delegabili alla tecnica e non problemi da governare con la consapevolezza civile e politica.

Questa politica non può essere senza princìpi. Lo dimostra, ad esempio, la questione dello human enhancement, del potenziamento dell’umano. Tema tutt’altro che astratto, perché il corpo si presenta non solo come oggetto connesso, ma come destinatario di interventi sempre più invasivi. Un’invasività, peraltro, che non evoca soltanto rischi, ma descrive recuperi di funzioni perdute, accesso a opportunità nuove, arricchimento dei legami sociali.

Chi governa questi processi? Torna qui il tema della libertà e dell’autonomia, essendo evidente che il potenziamento dell’umano non può risolversi nella disponibilità del corpo altrui, quali che siano le sue motivazioni, culturali, paternalistiche o autoritarie. Si è discusso della legittimità della decisione di una coppia di lesbiche sordomute di avere un figlio anch’esso sordomuto. Libertà di scelta, dunque, ma fino a quando le decisioni producono effetti nella sola sfera dell’interessato. E questo mette in discussione l’affermazione postumanista di un diritto incondizionato al ricorso a tutto ciò che la tecnoscienza mette a disposizione.

Il potenziamento dell’umano incontra poi il principio d’eguaglianza. Quale criterio governerà l’accesso alle opportunità offerte dalla tecnoscienza? La logica dei diritti o quella del mercato? Basta pensare al potenziamento dell’intelligenza e alle conseguenze di una situazione in cui questo potenziamento fosse legato alla disponibilità delle risorse necessarie per comprarlo sul mercato o a una situazione di privilegio sociale. Non basta più dire che così nascerebbe una società castale, perché storicamente questa forma sociale era fondata su una discriminazione culturale, economica, sociale, religiosa, che poteva sempre essere eliminata. Quando, invece, è implicato il corpo, nasce una distanza umana, come tale irredimibile. E la disparità delle intelligenze, accettata in nome del suo discendere da fatti naturali, non sarebbe più possibile nel momento in cui diverrebbe fatto socialmente determinato. Il legittimo rifiuto di questa deriva, che allontanerebbe l’umano dall’eguaglianza e dalle dignità, porterebbe a quelle che sono già state chiamate guerre tra umani e postumani.

Alla questione dell’eguaglianza si congiunge così quella della dignità, che ricompare quando le tecniche di potenziamento implicano forme di controllo esterno, permanenti o transitorie, quali possono essere quelle legate all’inserimento nel corpo della persona di dispositivi elettronici in grado di ricevere e trasmettere informazioni. Qui la regola non può essere, semplicisticamente, quella del consenso della persona interessata, essendo ben noti i condizionamenti della libertà di consentire. Quel che può essere ammesso è una modifica o un potenziamento transitorio, dunque reversibile in base alle decisioni dell’interessato.

Queste vicende dell’umano rinviano a una considerazione più generale che muove dall’osservazione secondo la quale l’umanità sembra uscita da due processi nelle apparenze opposti: l’ominizzazione, dunque l’evoluzione biologica, che ha portato all’emergere di una sola specie umana, con un processo di unificazione tendente all’universalismo; e l’umanizzazione, dunque l’evoluzione che si è articolata attraverso le culture, con un processo di diversificazione tendente al relativismo. Universalità e unicità, da una parte; differenziazione propria di ciascun gruppo umano, dall’altra. Nel tempo di un’innovazione scientifica che modifica le modalità della procreazione e costruisce integrazioni nuove del mondo umano con quello animale e con quello delle macchine, queste categorie non ci darebbero più una descrizione delle dinamiche umane adeguata alla profondità del cambiamento.

L’accento dovrebbe essere posto con intensità particolare proprio sull’ominizzazione, poiché la profondità del mutamento dei processi biologici e il loro intersecarsi con l’intero complesso delle innovazioni scientifiche e tecnologiche sembrano indicare una direzione che porterebbe a una diversificazione della specie umana, fino alla creazione di nuove specie. Nei processi di umanizzazione, al contrario, si colgono significativi segni di un movimento verso l’unificazione, di cui è testimonianza proprio il diffondersi di norme giuridiche comuni nei settori in cui l’umano è messo più visibilmente alla prova dalla tecnoscienza. Un radicale rovesciamento di prospettiva, dunque, che è stato anche descritto riferendosi alla speranza che l’umanità riuscirà a sostituire «la casualità del processo evolutivo con una auto-diretta re-ingegnarizzazione della natura umana». Processi che, comunque, ci portano fuori dalla logica dell’evoluzione darwiniana.

6. Possiamo fermarci alla contemplazione di questo orizzonte, che può apparirci smisurato? O dobbiamo guardare oltre, tornando a quell’uso umano degli esseri umani citato all’inizio? Su chi incombe la responsabilità di quest’uso umano? Infatti, anche se si accettasse la tesi una tecnologia tendenzialmente incontrollabile perché produttrice autonoma di fini sempre nuovi, non si potrebbe trascurare un’analisi delle forze concretamente all’opera, che orientano la ricerca, la sostengono e la finanziano, dando ai complicati tragitti tra umano e postumano la funzione di trasformare profondamente gli stessi rapporti sociali.

La diffusione della robotica, come già è avvenuto con l’elettronica, porta a una concentrazione del potere nelle mani di soggetti che ne controllano la dimensione tecnica. Con la sua esasperata enfasi sull’indefinita e libera espansione del potere individuale il progetto transumanista finisce con l’incarnare la logica di una competitività senza confini, di cui ciascuno è chiamato a essere protagonista. Se soccombe, è solo perché non è stato capace di cogliere le opportunità offerte dalla tecnoscienza. La nuova rivoluzione svela così un’anima antica e mostra inquietanti continuità con la logica di un incontrollato mercato concorrenziale.

L’umano, e la sua custodia, si rivelano allora non come una resistenza al nuovo, un timore del cambiamento o come una sottovalutazione dei suoi benefici. Si presentano come consapevolezza critica di una transizione che non può essere separata da princìpi nei quali l’umano continua a riconoscersi, aprendosi tuttavia a un mondo più largo e in continua trasformazione. Non è impresa da poco, né di pochi. Non basta evocare, per i rischi del futuro, la vicenda della bomba atomica, sperando che il tabù che l’ha accompagnata possa essere trasferito nei nuovi territori. L’impegno necessario esige un mutamento culturale, un’attenzione civile diffusa, una coerente azione pubblica. Parlare di una politica dell’umano, allora, è esattamente l’opposto delle pratiche correnti che vogliono appropriarsi d’ogni aspetto del vivente.

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