Titolo originale: The Temporary Urbanism of Critical Mass – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Critical Mass è tornata sulle prime pagine. Poco tempo dopo gli arresti dello scorso anno a Buffalo e le recenti cariche della polizia a New York City, il diluvio mensile di ciclisti urbani per le strade si è conquistato i titoli dei notiziari qualche settimana fa, a Portland. Il sindaco della città, Tom Potter, ha mantenuto la promessa fatta in campagna elettorale di unirsi al raduno di gennaio ad altri 250 ciclisti. Non sorprende che i critici stiano bersagliando Potter di commenti sulla sua indulgenza, o addirittura incitazione alla cosiddetta illegalità. Il giornale The Oregonian di recente ha severamente criticato Potter per il suo “tener stramba Portland “.
È piuttosto difficile pensare che chiunque sia interessato in qualche modo alla pianificazione urbana non conosca Critical Mass, ma nel caso vale la pensa in breve di riassumerne storia e “definizione”. Nel 1992, alcuni amici di San Francisco pedalarono insieme lungo Market Street, mostrando cartelli che dicevano “Fate Spazio alle Bici”, e incoraggiando i ciclisti di passaggio ad unirsi a loro, quel venerdì sera, per una biciclettata attraverso la città. Venne parecchia gente a quella prima volta nella sera di settembre, e così fu deciso di ripetere la cosa il mese dopo. A ottobre c’erano più ciclisti, a novembre ancora di più, e via di questo passo. Da allora, il gruppo è in media di un migliaio di ciclisti (spesso un po’ di più) che si affollano sulla Justin Herman Plaza all’Embarcadero per quella che è diventato un appuntamento fisso di San Francisco. Il fenomeno si è diffuso in tutto il mondo, a circa 300 città.
Ovunque c’è un evento Critical Mass, c’è una polemica. Il fastidio di solito viene da due direzioni: il comando di polizia (spesso in comunella col sindaco), e gli osservatori non partecipanti. I poliziotti sostengono che non si dovrebbe permettere ai ciclisti di infrangere le regole del codice stradale, visto che Mass regolarmente ignora i segnali di Stop, i semafori rossi, e ferma il traffico automobilistico tenendo tutto il gruppo di ciclisti compatto, per motivi di unità e sicurezza. Chi osserva da fuori, ovvero automobilisti, qualche editorialista, ospiti radiofonici e vari personaggi pubblici e privati, esprime critiche simili, oltre a lamenti sul fatto che Critical Mass è “controproducente”, e serve solo a ricacciare indietro i ciclisti nella loro battaglia per lo “spazio sulla strada”. Credo che le critiche sulla questione del codice e le tattiche di protesta siano vetuste e noiose. Dopo tutto, se Critical Mass fosse stata solo un ingorgo mensile, non sarebbe diventata una leggenda che dura da più di dieci anni. Dato che partecipo devotamente alle biciclettate qui a San Francisco, noto che Critical Mass non solo trasforma fisicamente l’ambiente urbano di tutti i giorni, ma tende a ingarbugliare una serie di relazioni che si sono instaurate con lo status quo: da qui, le reazioni forti all’evento.
Critical Mass non è una protesta, e neanche una dimostrazione. In genere i ciclisti non hanno un programma concordato. Critical Mass non è una “organizzazione” o un gruppo per i diritti dei ciclisti, come spesso definito dai media; piuttosto, è la definizione “coincidenza spontanea” utilizzata dai partecipanti, a descriverlo meglio. Uno dei cosiddetti fondatori di Critical Mass, Chris Carlsson, sintetizza piuttosto quando dice che le biciclettate riguardano “la scomparsa dello spazio pubblico ... [e] la crisi della comunicazione e socialità umana”. Secondo Carlsson, anche se Critical Mass originariamente voleva ottenere più spazio stradale per i ciclisti, si è svoluta in una forma di “auto-espressione” dove “le biciclette sono un curioso fatto incidentale”. Cosa più importante, Carlsson sostiene che “ciascun individuo contribuisce con qualcosa di personale all’evento”, esponendo ciò che pensa a proposito di “una vita migliore nell’America urbana”.
I partecipanti alle Critical Mass, specialmente a San Francisco, riconoscono che quanto afferma Carlsson è più di un ragionamento filosofico astratto. Il raduno mensile fra amici e sconosciuti, la conseguente rivendicazione delle strade, l’urbanistica temporanea che viene a crearsi, sono l’antitesi di quanto è diventata la città americana. I ciclisti si riuniscono, chiacchierano, condividono storie con gente che non avrebbero mai incontrato prima. Crescono amicizie. Spesso qualcuno fa girare cibo o bevande. Il capitalismo e la paura degli altri se ne stanno fuori, anche se solo per qualche ora. Prende piede un senso comunitario. Gente vera – intere famiglie, insegnanti, attivisti di tutti i colori, fattorini, impiegati degli uffici, anziani, teen-agers, e chiunque altro vogliate immaginarvi – invadono le strade, e costruiscono un’immagine inedita della città. Andare in bicicletta in mezzo a questo scenario è quantomeno esilarante. Di fatto, di macchine non ce n’é, dentro o attorno alla Mass; quelle che ci sono se ne stanno ferme e aspettano: automobilisti impotenti, qualche volta a disagio e nervosi, ma spesso anche curiosi e benevoli. Con biciclette e pedoni a occupare la strade per interi isolati (che suonano, si chiamano e scherzano) è come se queste strade progettate per l’unico scopo di favorire il traffico automobilistico si siano trasformate nelle più belle piazze europee.
Non è di questo, a pensarci bene, che parlano il movimento del New Urbanism e per la smart growth? Prendere la realtà attuale e attuare grandi operazioni di mutamento cosmetico, fisico, di atteggiamento. Critical Mass offre l’immagine perfetta di questi obiettivi, presentata direttamente da chi vive il triste stato della vita e dello spazio americano. I critici hanno etichettati il mondo del suburbio in ogni modo: da “brutto” a “noioso”, a “auto-dipendente”, fino a “bancarotta morale e sociale”. Molte delle città centrali sono state date per morte. Certo quelle città sono piuttosto lontane dall’essere perfette. Il New Urbanism tenta di recuperare gli ambienti attuali applicando una progettazione neotradizionale. Il professionisti di quest’arte guardano un’area industriale dismessa e ci vedono quartieri vibranti di vita come Pearl District a Portland, o North Beach a San Francisco. C’è bisogno di spazi a funzioni miste, città senza auto, strade per i pedoni, spazi pubblici dove i vicini si possano incontrare, o tutte queste cose insieme; e mostrare a tutti gli scettici che questi concetti devono soppiantare la cultura prevalente dell’auto è un’impresa monumentale: una battaglia che, a dire il vero, non stiamo certo vincendo.
Critical Mass, a modo suo, rappresenta un’immagine di come la città potrebbe essere. Non sto sostenendo che sia in sé una soluzione; piuttosto, esibisce parecchie qualità, mese dopo mese, che molti indicano come scarse nella società attuale: comunità, strade a misura d’uomo, stili di vita più fisicamente attivi, un trasporto non inquinante, e altro. È abbastanza comune che i professori di urbanistica portino i propri studenti a visitare i migliori quartieri in una data città o cittadina, nel tentativo di dimostrare come si “dovrebbe” fare. Perché non portarli ad una Critical Mass, per mostrare la manifestazione di un ordine collettivo condiviso, ma che probabilmente non hanno mai sperimentato? Anziché opporsi violentemente e reprimere qualunque visione alternativa della città, i funzionari pubblici e i privati cittadini, soprattutto gli urbanisti, i politici, gli studiosi di cose urbane, dovrebbero guardare a Critical Mass, magari partecipare, come ha fatto Potter. Potrebbe essere un’esperienza che aiuta a trasformare altre parti d’America in posti “strambi” come Portland, o come dice James Kunstler “posti a cui valga la pena di voler bene”.