L'umano, ecco il punto ancora di nuovo e sempre. L'umano differente, incommensurabile, irriducibile; «lo smisurato che non si lascia misurare», così lo chiama Ingrao, che c'è in ciascuno e in ciascuna, e in ciascuno e ciascuna eccede l'essere sociale dell'operaio che fa l'operaio, del politico che fa il politico, dell'uomo di legge che giudica altri uomini con la legge. «L'indicibile di noi stessi e della relazione con l'altro che non possiamo mai afferrare fino in fondo». La domanda sull'essere che si è aperta all'inizio del 900 con Freud e Joyce, questo è il messaggio a cui il novantenne Pietro tiene di più, non deve lasciarsi chiudere con la fine del 900: «Ecco la mia paura, che mi venga tolto non tanto il pane, e nemmeno la Costituzione, ma questa idea dell'umano che ho imparato in questo secolo. Vi prego, non permettete che questa domanda venga cancellata». L'inciso su Berlusconi - «per questo, vi parrà strano, sono spaventato quando lo vedo» - non va preso alla lettera, ma non è nemmeno accidentale. Allude a un mutamento dell'epoca che non è solo politico, ma della politica tocca la base antropologica, il il presupposto e il limite: l'umano appunto. Che ne sarà della politica, se dell'umano tutto diventa misurabile, contabile, spendibile, visibile, mediatizzato? Che ne sarà degli stati e dei governi, dei partiti e dei movimenti, se lasciamo che si chiuda quella domanda sulla soggettività che ha fatto grande il secolo della grande politica? Ci tiene il novantenne Pietro, breve ed ellittico come poche altre volte di fronte ai tremila amici che lo festeggiano, a ribadire la sua propria differenza incommensurabile e irriducibile: «vedete, sono stato immerso nella politica a tempo pieno e tutto intero, eppure non sono stato e non sono solo quello». Perché la domanda più vera sulla politica «è quella sul limite della politica»: l'umano che la eccede, il linguaggio poetico che dice quello che la razionalità politica non sa, il montaggio cinematografico delle immagini che mostra l'associazione diretta fra le cose e il movimento senza guidatore della vita. Quello che dalla politica resta fuori, ma senza cui la politica non è nulla, diventa piccola e vuota, sorda e muta. Per la semplice ragione che quando quell'eccedenza non c'è o è tacitata, non c'è nemmeno decisione politica, o passione se preferite, o obbligazione. Qualcosa a un certo punto cambiò negli anni Trenta, racconta Ingrao, e non fu propriamente una scelta; fu un passo, una spinta, un'azione, di fronte a quello che stava per accadere. Non era e non è questione di scelte morali ben ponderate. «Non sono mai stato in sintonia con l'eticismo - scrive Ingrao a Goffredo Bettini nel '78, quando lascia il Parlamento e decide di tornare a fare ricerca con il Crs -. Credo nella corporeità e nella passioni vitali. Dire `non ci sto' di fronte al nazismo e al fascismo non fu la risposta a un dover essere; fu la spinta fisica e emotiva di qualcosa dentro che resisteva». La stessa spinta, lo stesso scatto, che oggi Ingrao vorrebbe vedere di fronte alla Costituzione stracciata, e non vede, perché forse «il paese non capisce la soglia a cui siamo».
Anni Trenta, anni Quaranta e poi oggi. Il Novecento, «secolo grande e tragico» come Ingrao ama definirlo, passa nelle parole sue e in quelle per lui di Walter Veltroni e Luciana Castellina, nelle citazioni di Montale e Ungheretti di Gianni D'Elia e in quelle dei neorealisti di Ettore Scola; ma passa accorciato, davvero un secolo breve. Castellina sfiora il `68, Ingrao gli errori che nel `78 era già chiaro che avrebbero portato alla sconfitta, ma degli ultimi decenni resta poco; lo snodo decisivo sta prima. Perché nell'età anziana il passato si accorcia e prende altre proporzioni? O perché è lo snodo di oggi a riportare allo snodo di allora? Non c'è il nazismo e non c'è il fascismo, no. Ma il rischio di un destino triste delle democrazie sì. Una soglia, appunto. Dove di nuovo, come negli anni Trenta, non c'è scelta e c'è lotta: «la politica è obbligata».
«Assaporando un po' di tempo non vissuto», come dice Veltroni per descrivere il piacere di dialogare con i nostri novantenni più amati, ci troviamo messi di fronte a questa contrazione del tempo. C'è da imparare? Certo che sì. Da un padre e da un compagno, da «un padre compagno», come lo chiama Gad Lerner. Eppure, che strano, «noi non abbiamo avuto maestri», racconta Ingrao ancora con la memoria agli anni Trenta: «i maestri erano in esilio, in carcere, lontani, cacciati. Avevamo venti o trent'anni, ci misurammo con quello che stava per accadere». Senza maestri ma con passione, messaggio duro da recepire nell'epoca del disincanto piena di maestri e svuotata di passioni. Lui intanto, il maestro, ripete ancora una volta l'incanto dell'oratore che ha appena finito di descrivere nella bella intervista sul cinema filmata da Mario Sesti: «Tu sali su un palco, hai di fronte la piazza piena di gente, comincia il rito del comizio, applausi, saluti, bandiere, un po' una sceneggiata, calcoli i tempi e le pause e ti chiedi se riuscirai davvero a comunicare qualcosa a quelle centinaia e migliaia di persone che non conosci; ma se a un certo punto puoi fermarti, bere un bicchiere d'acqua o soffiarti il naso e la piazza sta ferma, allora hai la certezza che un filo si è creato fra te e loro». Un filo si è creato, un'altra volta, fra PietroIngrao e i suoi tremila amici venuti a festeggiarlo. «Altre domande? siamo qui», sprona lui incontentabile alla fine del film-intervista di Sesti. Sì, abbiamo ancora altre domande.