Il cinquantesimo anniversario della morte di Alcide De Gasperi - avvenuta il19 agosto 1954 a Sella Val Sugana, il piccolo paese di montagna dove era solito trascorrere le ferie estive – è stata per la destra italiana l’occasione per una campagna di stampa volta a collocare lo statista trentino, in quanto paladino dell’anticomunismo, nel quadro della più rigida tradizione conservatrice, e quindi per presentare l’attuale maggioranza di governo come la sua naturale erede.
Più prudenti, naturalmente, sono stati gli storici di professione. Ma non a caso proprio nei giorni del cinquantenario da più parti si è tornati a parlare, ai margini del meeting di Comunione e Liberazione a Rimini, di “unità politica dei cattolici”, naturalmente da realizzarsi nell’ambito dello schieramento di centro-destra e come articolazione del Partito Popolare europeo. In particolare lo stesso Presidente del Consiglio, non contento di rivendicare in ogni occasione la sua personale amicizia con Bettino Craxi, si è riproposto in più di un caso come il vero continuatore dell’opera di De Gasperi, soprattutto nella costruzione della “diga” diretta a sbarrare la strada alla sempre perdurante minaccia del comunismo.
Chi ha vissuto i difficili anni, ormai lontani, dell’avvio della costruzione della democrazia postfascista e della promozione di un più moderno e avanzato sviluppo della società italiana ( e tanto più chi, come è il mio caso, ha avuto occasione di un diretto rapporto con De Gasperi) non può che respingere il volgare strumentalismo di questo rovesciamento della realtà dei fatti. Non si tratta – sia chiaro – di presentare De Gasperi come un uomo di sinistra (cosa che certamente egli non era), né di nascondere la sua avversione al comunismo, che era senza dubbio netta e dichiarata. Ma non si può dimenticare che il leader democristiano non solo fu, nell’immediato dopoguerra, il Presidente del Consiglio di un governo di unità antifascista in cui erano largamente rappresentati socialisti e comunisti; ma che dell’esperienza della lotta contro il fascismo e il nazismo e dei valori condivisi maturati negli anni della Resistenza egli trasse la convinzione che tutte le grandi forze popolari che avevano combattuto la dittatura dovevano essere protagoniste di un impegno comune per la definizione di un nuovo ordinamento istituzionale dello Stato.
Per questo operò – come del resto fecero, dall’altra parte dello schieramento politico Togliatti e Nenni – in modo che anche dopo la rottura del cosiddetto governo “tripartito” nella primavera del ‘47 e nonostante l’asprezza dello scontro che si determinò cosí nelle questioni interne come su quelle internazionali, continuasse però nell’Assemblea costituente la collaborazione fra i cattolici democratici (con un articolare impegno del gruppo di giovani intellettuali riuniti attorno a Dossetti) e le forze della sinistra di derivazione marxista, cosí da giungere al varo di una Costituzione concordemente accettata. Nacque cosí la Carta Costituzionale del 1948: che proprio per il modo in cui fu elaborata e per i valori cui si ispirava (una visione democratica e solidaristica, che era il punto di compromesso fra i cattolici democratici e i partiti della sinistra) ha rappresentato il quadro entro il quale è avvenuta la crescita democratica del paese e si è realizzato quel tanto di “Stato sociale” che è stato decisivo per un effettivo ammodernamento e per il progresso civile dell’Italia .
Ma c’è un secondo momento (generalmente meno ricordato, ma per molti aspetti anch’esso determinante) nel quale la scelta di De Gasperi fu fondamentale per respingere i rischi di una grave repressione della democrazia italiana. Fu, precisamente, nel 1952: quando, prendendo occasione dalla crescita nelle elezioni amministrative della destra monarchica e fascista, alimentata dalla protesta dei ceti più retrivi contro le misure sia pure parziali di riforma agraria e contro gli altri interventi dello Stato nell’economia, ripresero fiato quei settori del mondo cattolico e delle gerarchie vaticane che non avevano mai accettato con troppa convinzione una scelta democratica e soprattutto reclamavano – nello spirito della scomunica del ‘49 – più rigide misure anticomuniste.
L’occasione per questa offensiva di destra fu, in vista delle elezioni comunali a Roma che dovevano svolgersi nel ‘52, il timore che l’amministrazione della “Città eterna” passasse sotto il controllo di una maggioranza di sinistra. Fu perciò lanciata la proposta (la cosiddetta “operazione Sturzo”) di una lista di unità nazionale che includesse assieme alla DC e agli altri partiti di centro, anche monarchici, neofascisti, altri esponenti di destra. Era, chiaramente, un banco di prova per un ipotesi più generale di svolta a destra nelle elezioni politiche del 1953. L’ostilità di De Gasperi fece cadere la proposta per Roma; e creò uno sbarramento a destra (sia pure al prezzo, come dirò più avanti, dell’adozione di una legge maggioritaria) anche per le successive elezioni politiche. L’esperienza centrista era però alla fine: e quella vicenda di conseguenza segnò, per lo statista trentino, l’avvio di un declino personale, sanzionato dalla sconfitta della “legge truffa” nel voto del 7 giugno ‘53. Ma sul piano politico generale il risultato fu la sconfitta del tentativo di spostare a destra l’equilibrio complessivo del paese, e quindi un consolidamento della giovane democrazia italiana.
E’ su quest’ultima fase della parabola del centrismo che ho la possibilità di fornire, personalmente, qualche testimonianza diretta a proposito del dibattito interno alla DC (e in particolare sull’opera di De Gasperi): e ciò a causa del ruolo che dal 1953 ebbi occasione di svolgere fra i dirigenti in campo nazionale della sinistra giovanile democristiana. Mi riferisco, in questa testimonianza, soprattutto al rapporto con De Gasperi e al giudizio sulla sua politica. Ed è proprio dai problemi posti dalla sua scomparsa che mi pare opportuno partire.
La notizia della morte di De Gasperi mi giunse il 19 agosto 1954 a Roma proprio mentre stavo per partire per il Trentino dove, su suo invito, mi recavo per incontrarlo. L’invito mi era stato rivolto (come spiegherò meglio in seguito) nel corso di una breve conversazione svoltasi il 16 luglio, al termine della riunione di insediamento del nuovo Consiglio nazionale della DC, eletto 15 giorni prima dal Congresso del partito che si era svolto a Napoli alla fine di giugno. Di quell’organismo anch’io – benché giovanissimo: non avevo infatti 25 anni – ero stato eletto a far parte, in rappresentanza sia della nuova corrente della “sinistra di base”, da poco costituita, sia dell’ala sinistra del Movimento dei giovani democristiani.[1]
Al Congresso di Napoli del 1954 De Gasperi giungeva – come ho già accennato – nella condizione di chi ancora godeva di grandissima autorevolezza e prestigio, ma era, politicamente, un uomo sconfitto. L’esperimento centrista, al quale il leader democristiano aveva legato il suo nome, si era andato infatti progressivamente esaurendo nel corso del quinquennio fra il ‘48 e il ‘53, nonostante lo straordinario successo nelle elezioni del 18 aprile che avevano dato alla DC più del 48 per cento dei voti e la maggioranza assoluta in Parlamento. La maggioranza di centro era stata via via logorata da un lato dall’emergere, soprattutto nel Sud, di una consistente opposizione di destra che si raccoglieva attorno al partito monarchico e a quello neofascista; dall’altro lato (e anzi soprattutto) dalla ripresa della sinistra socialista e ancor più di quella comunista, che avevano saputo reagire con vigore alla sconfitta del ‘48, allargando l’iniziativa e consolidando la presa elettorale.
Appariva chiaro, in sostanza, che da una parte c’era una vecchia Italia, retriva e nostalgica, che si ribellava alle sia pur modeste riforme economiche (in particolare la riforma agraria stralcio) poste in atto dai governi di centro, e più in generale al nuovo costume democratico; e che, d’altronde, il cauto riformismo centrista e lo stesso sviluppo economico che pure si andava avviando non erano sufficienti a porre in difficoltà l’opposizione di sinistra, che anzi traeva nuova forza dalle acute tensioni sociali del momento e dalla capacità del PCI, sotto la direzione di Togliatti, di interpretare incisivamente le istanze di rinnovamento della società italiana.
Alla crisi della formula centrista, che si andava perciò delineando, De Gasperi aveva dapprima cercato di reagire respingendo con successo l’offensiva della destra integralista cattolica, guidata da Luigi Gedda[2], che proponeva (ho già parlato dell’“operazione Sturzo” per le elezioni comunali a Roma nella primavera del 1952) la formazione di un blocco nazionale anticomunista aperto a monarchici e neofascisti. Poi si era proposto di consolidare e rendere in qualche modo permanente l’alleanza tra dc, socialdemocratici, liberali e repubblicani attraverso l’adozione per le successive elezioni politiche di una legge maggioritaria – la famosa “legge truffa” – che avrebbe dato il 65 per cento dei seggi alla Camera ai “partiti apparentati” che avessero raggiunto il 50,01 per cento dei voti.
Quel tentativo fu però sconfitto nelle elezioni del 7 giugno 1953. Sia pure per poche decine di migliaia di voti, l’alleanza di centro rimase infatti al di sotto della maggioranza assoluta; e ciò non solo per il buon risultato ottenuto dalle opposizioni sia di destra che di sinistra, ma anche per il dissenso espresso – per ragioni di correttezza democratica – da gruppi qualificati di esponenti repubblicani o socialdemocratici (Parri, Calamandrei) e liberali (Corbino) che diedero vita a liste che furono definite “di disturbo” ma che raccolsero diverse centinaia di migliaia di voti.
Apro a questo proposito una parentesi. Vi e’ chi anche di recente ha messo in dubbio (fra gli altri lo stesso Presidente del Senato Marcello Pera) che De Gasperi all’indomani del 7 giugno abbia fatto bene a lasciare che fosse subito proclamato l’esito del voto, dando così per scontato che la nuova legge elettorale non era passata. Vi erano invece 900.000 voti contestati; si poteva perciò insistere per un nuovo conteggio, che avrebbe potuto portare allo “scatto della legge”, evitando così che si tornasse a un “proporzionalismo esagerato”. Chi sostiene (anche solo in forma dubitativa, come e’ il caso di Pera) questa posizione, non si rende ben conto dei pericoli che – nel clima di aspra tensione sociale e politica che si era determinato – un’eventuale contestazione del risultato del voto popolare avrebbe provocato. Allora fu opinione pressoché generale che De Gasperi si era al contrario attenuto a una regola di buona correttezza democratica. Nessuno, del resto, aveva dubitato che questo sarebbe stato il suo comportamento. Nel clima politico di oggi e’ forse giusto, invece, dargli atto di aver operato, in quella situazione, con molta prudenza e saggezza.
In ogni caso, il voto del 7 giugno 1953 segnò di fatto la fine dell’era degasperiana. Il governo che aveva portato alle elezioni ovviamente si dimise e il presidente Einaudi incaricò De Gasperi, come leader del maggior partito, di tentare la formazione di un nuovo governo. Considerando esaurita la formula centrista (pur avendo i quattro partiti di centro, a causa dei meccanismi elettorali, un’esigua maggioranza in Parlamento) De Gasperi si presentò alle Camere con un monocolore democristiano, cercando di raccogliere sul programma una maggioranza non precostituita; ma il tentativo fu battuto. DeGasperi lasciò allora definitivamente la Presidenza del Consiglio (il suo posto fu preso da Pella, con un governo palesemente aperto a destra) e di lí a poco fu rieletto segretario nazionale della DC.[3]
Ma anche nel partito la situazione era ormai avviata verso un radicale ricambio. La sconfitta del 7 giugno sollecitava la cosiddetta “seconda generazione” democristiana (costituita da quadri che si erano formati negli anni del fascismo e si erano affacciati alla politica nella Resistenza o subito dopo la Liberazione) a cercare strade nuove, per rinnovare il partito e dare ad esso una diversa prospettiva politica e di governo. Era una generazione che, ormai, aveva un ruolo dirigente nella maggioranza delle organizzazioni provinciali della DC; e che aveva il suo punto di riferimento nella corrente di “Iniziativa democratica”, che si era organizzata già sul finire del 1951 sulla base dell’incontro fra la maggioranza dei dossettiani, che non avevano seguito il loro leader nel ritiro dalla politica e nella scelta culturale e religiosa, e larga parte della corrente di centro – soprattutto i più giovani – che aveva sempre sostenuto De Gasperi ma avvertiva l’esigenza di un cambiamento. Non a caso i due massimi esponenti della nuova corrente erano Amintore Fanfani, cioè l’ex dossettiano che con il suo accordo con De Gasperi nella crisi di governo dell’estate ‘51 era stato una delle cause del ritiro di Dossetti[4]; e Mariano Rumor, un esponente della maggioranza degasperiana che però proveniva da un’esperienza aclista ed era apprezzato per la sua “sensibilità sociale”.
Perciò, mentre a livello governativo dopo il ritiro di De Gasperi di susseguivano il monocolore Pella, chiaramente orientato a destra, e il governo centrista di Scelba, sostenuto dalla ristrettissima maggioranza di centro presente alla Camera, nel partito sin dai primi mesi del 1954 si avviava la preparazione del nuovo Congresso nazionale – il quinto nella storia della DC – che avrebbe formalmente sancito l’ascesa al potere di una nuova classe dirigente.
Ho ritenuto opportuno richiamare in modo sintetico questa vicenda – per quanto generalmente ben conosciuta – allo scopo di ricostruire il clima politico in cui si aprì il Congresso che si svolse a Napoli, al Teatro San Carlo, dal 26 al 30 giugno 1954.
L’esito del Congresso era scontato: si sapeva ormai da qualche mese che esso avrebbe segnato l’affermazione di “Iniziativa democratica” e che alla segreteria sarebbe stato eletto Fanfani, col consenso (per la verità non troppo entusiasta) dello stesso De Gasperi. In questo ambito l’assise congressuale era praticamente chiamata a precisare solo due punti: quale sarebbe stata la maggioranza con cui la nuova corrente egemone avrebbe guidato il partito; e quale orientamento sarebbe prevalso fra le posizioni, non sempre e non del tutto concordi, che convivevano dentro “Iniziativa democratica”.
Per quel che mi riguarda non ero, a Napoli, al mio primo congresso nazionale. Avevo già infatti partecipato, pur avendo appena compiuto 23 anni, al precedente Congresso, quello che si era tenuto a Roma nell’autunno 1952. Ma, allora, ero un delegato alle prime armi, eletto dal Congresso provinciale di Bergamo – la città in cui vivevo – dove il gruppo che si qualificava come ex-dossettiano era nettamente in maggioranza. Al Congresso di Napoli giungevo, invece, avendo già compiuto un’esperienza politica nazionale. Innanzitutto da diversi mesi ero entrato a far parte, in rappresentanza della sinistra, del gruppo dirigente ristretto del Movimento nazionale dei giovani democristiani, e dagli inizi del 1954 mi ero perciò trasferito a Roma. Inoltre sin dalla formazione avevo aderito (assieme ad altri esponenti di sinistra della DC bergamasca, come Lucio Magri, Luigi Granelli, Carlo Leidi, Piero Asperti, per ricordare solo i nomi più noti) alla nuova corrente della “sinistra di base”, formata nell’autunno del’53 dall’incontro fra un gruppo di ex-dossettiani, delusi dal pragmatismo tatticistico e compromissorio di “Iniziativa democratica”, e numerosi quadri di base, prevalentemente lombardi e piemontesi, che provenivano dall’ancora vicina esperienza partigiana. Nella nuova corrente ero anzi divenuto uno dei dirigenti più attivi, assieme a Giovanni Galloni, a Lucio Magri, a Luigi Granelli e ad Alberto Marcora.
Il principale problema che in vista del Congresso di Napoli si poneva per la “sinistra di base” (che sin dall’inizio si era pronunciata per l’”apertura a sinistra”, innanzitutto verso il PSI ma senza escludere un diverso rapporto anche con i comunisti) era quello di cercar di condizionare efficacemente, sia pure partendo da una posizione indiscutibilmente minoritaria, il gruppo già considerato vincente di “Iniziativa democratica”. Per questo la proposta per il Congresso, ampiamente illustrata sin dalla primavera del ‘54 in diversi editoriali pubblicati da Giovanni Galloni sul quindicinale “La Base”, era quella di dar vita a una maggioranza congressuale che comprendesse tutte le sinistre: ossia, oltre ad “Iniziativa democratica” e alla stessa “Base”, anche il gruppo che faceva capo a Gronchi, quello dei sindacalisti che avevano come riferimento la CISL e le ACLI, la sinistra giovanile che era in netta maggioranza fra i giovani dc. Il metodo maggioritario che era in vigore per l’elezione del Consiglio nazionale (17 posti su 21 alla lista vincente, sia fra i parlamentari sia fra i non parlamentari) avrebbe dato all’insieme delle sinistre una nettissima maggioranza, ma nell’ambito della sinistra avrebbe assicurato un ruolo non marginale ai gruppi più avanzati.
La proposta non andò però a buon termine non solo per le resistenze “esclusiviste” di “Iniziativa democratica”, ma perché Gronchi, che già pensava alle ormai prossime elezioni presidenziali, preferiva mantenere un buon rapporto con i notabili del centro-destra della DC (la cosiddetta “Concentrazione”) e considerava invece Fanfani un suo avversario; e perché la pattuglia dei sindacalisti considerava più conveniente limitarsi a un ruolo di “gruppo di pressione”, conquistando la minoranza. Per la “sinistra di base” – che si era costituita da poco, aveva una base consistente quasi solo in Lombardia e si poneva l’obiettivo di affermare in congresso un proprio ruolo nazionale – era quindi una strada pressoché obbligata quella di un’intesa con “Iniziativa democratica”: facendo pesare, in tale intesa, il fatto che il suo apporto, benché minoritario, sarebbe stato probabilmente determinante – come in effetti fu – per respingere la proposta, annunciata da Gronchi, di una pregiudiziale per modificare in senso proporzionalista il metodo di elezione del nuovo Consiglio Nazionale. Pesava inoltre, in questa scelta, un disaccordo di sostanza fra la “base”, che in coerenza con le origini dossettiane intendeva qualificarsi come “sinistra politica”, e il carattere di “sinistra sociale” che era invece sottolineato sia da Gronchi sia dai sindacalisti.
L’accordo congressuale con “Iniziativa democratica” fu siglato definitivamente a Napoli, a Congresso già aperto,in un incontro abbastanza ristretto (nel corso di un pranzo, fra la seduta del mattino e quella del pomeriggio) al quale per la “sinistra di base” partecipai anch’io, insieme con Galloni, Marcora e Ripamonti, mentre per “Iniziativa democratica” c’erano Fanfani, Rumor, Colombo e altri esponenti del vertice della corrente. Era presente, come massimo responsabile dei Gruppi giovanili, anche Franco Maria Malfatti. Fu concordata una lista comune, nella quale fui incluso. Come risultato di quell’intesa, la “sinistra di base” riuscì a far eleggere nel nuovo Consiglio nazionale quattro suoi esponenti, ossia Galloni, Ripamonti ed io, più Leandro Rampa che fu eletto quale rappresentante dei delegati della Lombardia. Nelle votazioni ottenni un buon risultato, giungendo, in base alle preferenze, al nono posto fra i 21 non parlamentari eletti. Si trattava, per me, di un piccolo successo personale: era infatti la prima volta che un giovane con meno di 25 anni veniva eletto nel Consiglio Nazionale della DC, che era allora un organo di vertice, con poco più di 60 membri.
Dell’andamento del Congresso di Napoli, e in particolare del ruolo che vi svolse De Gasperi, ricordo bene l’impressione che mi fece la sua relazione di apertura:un’impressione sostanzialmente negativa, come fu quella della gran parte dei delegati di sinistra. Era il discorso che fu detto “dei notabiliari”: nel quale De Gasperi si dilungò in un’analisi dell’articolazione della società italiana, nella quale sottolineava il ruolo che avevano e l’influenza che esercitavano molteplici figure “notabili” (medici, farmacisti, avvocati, ingegneri e geometri, giornalisti, maestri e professori, sacerdoti, ceti imprenditoriali ecc.) nonché le organizzazioni economiche, culturali, sociali sia del mondo cattolico sia d’altro orientamento. Il corollario di questa analisi era che le decisioni politiche spettavano, certamente, agli organi di partito: ma che nell’elaborazione degli indirizzi e delle proposte conveniva “consultare anche l’esperienza, la tecnica, la cultura” e prendere contatto con “le rappresentanze degli interessi generali o locali”.
Parve a me, come a molti altri, un discorso proiettato verso il passato: che sollecitava a dedicare particolare attenzione agli interessi corporativi o categoriali e agli orientamenti di un vecchio mondo che era invece da superare. Solo più tardi mi resi conto che il significato politico dell’impostazione data da De Gasperi alla sua relazione era assai più complesso. Certo, l’orientamento era conservatore: ma il segno fondamentale era la preoccupazione, che in quel discorso De Gasperi esprimeva, per la tendenza di Fanfani e del gruppo dirigente di “Iniziativa democratica” (ad eccezione di pochi, fra i quali Moro) di concepire come scopo fondamentale del loro impegno politico il rafforzamento dell’organizzazione del partito e, a questo fine, l’occupazione di posizioni di potere nello Stato, nel sottogoverno, nella società.
Era in sostanza un richiamo – contro l’efficientismo totalizzante di Fanfani – all’esigenza di una più prudente linea di mediazione verso i molteplici aspetti della realtà sociale: e in questo era inclusa anche la sollecitazione a tener conto dell’esistenza, nel complesso della società italiana, di una pluralità di orientamenti ideali e politici, che non erano semplicemente assorbibili o contrastabili.
Questo punto, da noi sottovalutato, non sfuggì invece a Togliatti, che lo rimarcò anche successivamente nel suo ampio saggio “Per un giudizio equanime sull’opera di Alcide De Gasperi” pubblicato in più puntate su “Rinascita”, fra l’ottobre 1955 e il giugno ‘56[5]. Al leader comunista, tuttavia, non solo sembrò di ispirazione conservatrice il richiamo al ruolo fondamentale dei “notabili”; ma gli parve che vi fosse una “contraddizione non risolta” fra l’aspirazione a rappresentare nella sua interezza il “mondo” o il “blocco” dei cattolici, e l’ammonimento al partito di “non ridursi” a tale blocco. Questa contraddizione, in effetti, era intrinseca al centrismo degasperiano e contava molto nel determinare lo sbocco moderato della sua politica.
A parte la relazione di De Gasperi, il Congresso di Napoli ebbe come momento saliente il dibattito e il voto sulla pregiudiziale di Gronchi a favore della proporzionale nell’elezione degli organismi dirigenti. La pregiudiziale fu battuta, ma con uno scarto di voti (594.000 contro e 534.000 a favore) abbastanza ristretto. Risultò così confermato che “Iniziativa democratica” disponeva di una considerevole maggioranza relativa: ma che per raggiungere la maggioranza assoluta erano necessari i voti della “sinistra di base” e della sinistra giovanile. Ciò diede alla “sinistra di base” e alla parte più avanzata del Movimento giovanile una indubbia autorevolezza politica: come fu confermato, nelle votazioni, dal primo posto fra i non parlamentari ottenuto dal delegato giovanile nazionale Malfatti (per altro sempre più orientato verso un accorso anche sostanziale con Fanfani) e dal terzo posto di Giovanni Galloni, nonché della mia elezione al nono posto, di Camillo Ripamonti al tredicesimo e di Leandro Rampa come rappresentante della Lombardia. Ma il risultato politico fu che “Iniziativa democratica” poté, in questo modo,assicurarsi una netta maggioranza politica nel nuovo Consiglio Nazionale: e ciò favorì il prevalere della linea decisionistica e della tendenza all’occupazione del potere tipica di Fanfani. Il che portò molto presto la nuova sinistra (e in particolare la sua parte più avanzata, della quale io facevo parte) a scontrarsi duramente con la nuova segreteria.
Il 16 luglio 1954 si riuniva a Roma per la prima volta, a Piazza del Gesù, il nuovo Consiglio nazionale della DC che era stato eletto dal Congresso di Napoli. Con quel Congresso si era chiusa anche formalmente – come ho detto - l’era degasperiana. Era perciò scontato che il Consiglio avrebbe eletto Fanfani alla segreteria del partito (con Mariano Rumor come vice-segretario); mentre a De Gasperi sarebbe stato affidato l’incarico – prestigioso, ma privo di poteri effettivi – di Presidente.
Anch’io – come ho detto – ero stato eletto nel nuovo Consiglio nazionale, che era un organo molto ristretto, di poco più di 60 membri. Mi ero iscritto alla DC nel 1950: provenivo da posizioni di sinistra cattolica e dopo molte incertezze mi ero deciso a optare per un impegno di partito soprattutto per il richiamo esercitato dalle posizioni di Dossetti e della sua corrente, che avevo conosciuto principalmente attraverso la lettura di “Cronache sociali”. Dopo il ritiro di Dossetti dalla politica, avvenuto alla fine dell’estate del 1951, mi ero impegnato nella sinistra del Movimento giovanile dc; ma avevo anche aderito sin dall’inizio alla nuova corrente della “sinistra di base”, che si era costituito col convegno di Belgirate dell’autunno 1953.
La differenza di linea politica tra la “sinistra di base” e “Iniziativa democratica” era sostanziale. Un punto era comune, ossia il ripudio dell’apertura a destra, verso monarchici e neofascisti, che la destra cattolica aveva cercato di imporre (la già ricordata “operazione Sturzo”) in occasione delle elezioni comunali a Roma della primavera 1952. Ma “Iniziativa” pensava di reagire alla crisi del centrismo, diventata palese con le elezioni del 7 giugno 1953, soprattutto rafforzando l’organizzazione di partito e allargando la sua influenza nella società tramite l’occupazione di posizioni di potere. La “Base” riteneva invece necessaria una soluzione politica, ossia “l’apertura a sinistra”, da realizzarsi attraverso un’intesa di governo con il Partito socialista e riaprendo il dialogo anche con il PCI (i due partiti, del resto, erano allora legati, ancora, dal patto di unità d’azione).
Quando si riunì il Consiglio nazionale del 16 luglio, non avevo ancora avuto l’occasione di conoscere personalmente De Gasperi. Lo avevo infatti solo incontrato in riunioni di partito piuttosto affollate. Il 16 luglio, nel palazzo di Piazza del Gesù, presi posto in una delle prime file della sala delle riunioni. Ero vestito – poiché eravamo in piena estate – non in giacca e cravatta come pressoché tutti gli altri consiglieri, ma in una tenuta estiva più giovanile, con pantaloni beige e una camicia azzurra. Fosse anche per questo abbigliamento, poco consueto per quella sede, De Gasperi – che era seduto alla presidenza in quanto segretario uscente – notò subito la mia presenza e fu particolarmente colpito dalla mia giovane età. Chiese perciò a Mariano Rumor, che stava al suo fianco e che mi riferì la cosa durante un intervallo della riunione, chi fossi, quanti anni avessi, da quale parte politica fossi stato eletto membro del Consiglio. L’intero episodio fu poi raccontato più estesamente da Corrado Corghi, membro del Consiglio come rappresentante dell’Emilia, in un saggio intitolato “Nel tramonto di De Gasperi”, pubblicato sul numero di settembre-ottobre 1981 della rivista “Vita sociale”.[6]
Al termine della riunione del Consiglio nazionale l’anziano leader, che era molto affaticato, volle parlarmi brevemente, per conoscermi personalmente e per rivolgermi in modo diretto l’invito ad andarlo a trovare in Val Sugana, in modo da avere un colloquio più disteso e approfondito. Restammo d’accordo che mi sarei recato a Sella nell’ultima decade d’agosto. Debbo dire che l’invito non mi sorprese e neppure mi parve il segno di quel comportamento paternalistico che molto spesso gli uomini famosi, giunti all’età senile, amano assumere nei confronti dei più giovani. Sapevo infatti – ne avevamo anzi specificamente discusso negli organi dirigenti del Movimento giovanile, per le conseguenze politiche che quell’orientamento poteva avere – che dopo la sconfitta del 7 giugno e la caduta del suo ultimo governo, De Gasperi aveva in più occasioni sottolineato, tornando a dirigere la segreteria del partito, il suo interesse per i nuovi orientamenti che venivano emergendo fra i giovani democristiani: sia quelli che continuavano ad operare nei Gruppi giovanili della DC, sia quelli che – come Bartolo Ciccardini e Gianni Baget Bozzo – si erano collegati al gruppo di Felice Balbo per dar vita a una rivista con più spiccate ambizioni culturali (ma con esiti in verità piuttosto inconcludenti ed anche sconcertanti) come “Terza Generazione”.
In particolare De Gasperi (che era stato fortemente sostenuto da “Per l’Azione”, la rivista dei giovani dc, già nel suo scontro del 1952 con Gedda e con la destra cattolica) dopo il suo ritorno alla segreteria della DC, aveva affermato la necessità di dare ai giovani “maggiore respiro nel partito, cosa che Gonella non aveva capito ne’ attuato”[7]. Anche per questo aveva voluto, già prima del Congresso di Napoli, l’elezione di Franco Maria Malfatti nella segreteria del partito; e sostenne anche con un contributo finanziario personale, fino alla morte, la rivista “Terza Generazione”, della quale leggeva e annotava ogni numero, non mancando di esprimere qualche riserva sul linguaggio troppo astruso e quasi da iniziati, ma apprezzando l’impegno di studio e di ricerca.
Era, in sostanza, come se, dopo l’esaurimento del centrismo, lo statista trentino avvertisse che un capitolo di storia si era chiuso; e che, ancor prima di ricercare un ricambio con nuove alleanza di governo, occorresse approfondire l’analisi della realtà e non chiudere la porte – di qui l’attenzione per i giovani – verso nuovi orizzonti. Anche per questo ero curioso di vedere su quali basi avrebbe impostato l’incontro al quale mi aveva invitato a Sella di Val Sugana. Tanto più fui perciò colpito dall’improvvisa notizia della morte. Mi parve come un segno premonitore: l’annuncio del venir meno di un punto di equilibrio rispetto alla segreteria Fanfani e quindi un’anticipazione delle crescenti difficoltà che avrebbero incontrato, per proseguire il loro impegno all’interno della Democrazia cristiana, quei giovani che – come me – erano impegnati su una linea di ricerca per un sostanziale rinnovamento – in collaborazione con altre forze e in particolare con socialisti e comunisti – dello Stato e della società italiana.
Il 20 agosto, all’indomani della morte di De Gasperi, mi telefonò Mariano Rumor – che in quanto vicesegretario aveva anche assunto la direzione del settimanale ufficiale del partito, “La Discussione” – per chiedermi di scrivere a tamburo battente un articolo di sintesi che tracciasse un bilancio del ruolo svolto dallo statista trentino sia come dirigente politico sia come responsabile del governo. Sarebbe stato, mi disse, l’articolo che avrebbe qualificato quel numero della rivista: ed infatti così fu, perché venne pubblicato al centro della pria pagina col titolo “Nella storia d’Italia”. In pratica, fu quello il primo e ultimo gesto di fiducia nei miei confronti compiuto dalla nuova segreteria dc.
Ho riletto nei giorni passati quel mio lontano articolo, ricavandone un’impressione abbastanza soddisfacente: soprattutto perché gli altri interventi – assai numerosi – raccolti in quel numero del settimanale avevano in generale un carattere puramente agiografico o insistevano tutt’al più sul ruolo che le politiche di De Gasperi svolto avevano come barriera contro la minaccia del comunismo. Invece nel mio articolo l’accento era posto, in particolare, sul contributo che lo statista trentino aveva dato, prima, alla costruzione della nuova Italia democratica e al varo della Costituzione, avviando verso questo sbocco, con l’alleanza tripartita, “l’ondata resistenziale; e poi, dopo la rottura del’47 e la vittoria del 18 aprile, “alla sopravvivenza e allo sviluppo della democrazia italiana”, opponendosi alla costituzione di un indistinto “blocco anticomunista” e impedendo così “che lo Stato italiano tornasse a configurarsi come Stato reazionario di classe”. Sottolineavo, anche, che l’ormai avviata “disgregazione delle forze di destra monarchica e fascista” confermava le solide fondamenta che la politica di De Gasperi aveva gettato nel paese, facendo della “formula dell’unita’ politica dei cattolici” una “formula di sostegno dell’ordinamento democratico”; e concludevo che solo difendendo e consolidando “il patrimonio democratico che “De Gasperi ha fissato nel nuovo ordinamento repubblicano dello Stato, solo salvaguardando gli istituti di libertà e democrazia e’ possibile avviare su una linea di organico sviluppo la società italiana”.
In sostanza, le argomentazioni che sviluppavo in quel primo articolo di bilancio dell’opera di De Gasperi pubblicato su “La discussione”, riprendevano l’analisi che il Movimento giovanile democristiano era venuto elaborando nella sua stagione politicamente più felice, ossia fra il ‘52 e il ‘54: quando la rivista “Per l’Azione” – sia pure con molte ingenuità giovanili – divenne in qualche modo l’erede, dopo il ritiro di Dossetti, delle speranze alimentate dal dossettismo e al tempo stesso fu il canale attraverso il quale circolò, nel mondo dei giovani dc, il pensiero di Franco Rodano, conosciuto tramite gli articoli che apparivano sulla rivista “Lo Spettatore italiano”. Intrecciando queste due linee di tendenza, “Per l’Azione” fu, soprattutto a cavallo del 1953, una rivista particolarmente vivace. In sostanza essa analizzava e sottolineava, sulla scia dell’insegnamento di Dossetti, la grave crisi morale e sociale del paese (e in particolare della cattolicità italiana), che richiedeva un profondo impegno di rinnovamento a partire dal piano culturale e ideale; al tempo stesso sosteneva con fermezza (e al riguardo acquistava rilievo l’influsso di Franco Rodano) che condizione indispensabile per quest’opera di rinnovamento era comunque la difesa risoluta delle istituzioni democratiche dall’insidia dell’integralismo e dell’eversione di destra. A tal fine occorreva, contro l’insidia che veniva dalla destra cattolica, appoggiare con decisione – questa era la linea della rivista – la politica di De Gasperi ed operare per riaprire un positivo confronto, nel comune obiettivo di evitare uno spostamento a destra, con socialisti e comunisti. Queste tesi furono esposte da “Per l’Azione” in articoli il cui titolo era di per sé illuminante, come “Alcide De Gasperi o dello Stato in Italia”, oppure “Difendere lo Stato per la rivoluzione”.
In effetti, sia pure con molta enfasi e qualche forzatura, si trattava di una linea interpretativa che coglieva aspetti essenziali (anche se non i soli, come hanno messo in luce le ricerche storiografiche più recenti) della politica di De Gasperi: ossia il suo impegno per ancorare i cattolici italiani, attraverso la formula dell’unita’ dei cattolici e la costituzione di un partito quale la Democrazia cristiana, a una scelta politica democratica, sia pure di stampo moderato. Era la linea che il leader dc aveva sostenuto già nel ‘44-’45, riuscendo a farla prevalere rispetto alle suggestioni che spingevano autorevoli ambienti vaticani a preferire un più indistinto blocco conservatore non caratterizzato esplicitamente per l’ispirazione cristiana (nel quale, ovviamente, avrebbero trovato spazio anche forze di destra nostalgiche di vecchi assetti politici e sociali); e che aveva poi difeso nei primi anni cinquanta, contro l’offensiva culminata nell’ “operazione Sturzo”. Sottolineare questi aspetti dell’opera di De Gasperi non significava, ovviamente, presentarlo – del tutto impropriamente – come un uomo di sinistra: ma piuttosto mettere in evidenza che il prevalere di un linea liberal-democratica, quale quella da lui sostenuta, non era affatto scontato, e che non era scontato, soprattutto, il rapporto di “convivenza conflittuale” che si era stabilita con la sinistra socialista e comunista e che costituiva l’asse portante del nuovo ordinamento democratico del Paese.
Nell’articolo sulla “Discussione” non affrontavo, invece, il problema di un giudizio sulla politica economica e sociale che aveva caratterizzato il ciclo degasperiano. Su questo terreno, infatti, il giudizio mio e della “sinistra di base”, come quello a suo tempo espresso da Dossetti, era del tutto negativo: ci sembrava infatti che il consenso necessario per il varo della Costituzione e per il consolidamento delle istituzioni democratiche fosse stato bilanciato da De Gasperi con un appoggio ai “poteri forti” della destra economica e quindi con una politica di sostanziale immobilismo sociale, solo qua e là attenuata da un più che timido riformismo. Ci parevano invece necessarie, per aprire al paese un nuovo sviluppo, riforme economiche e sociali ben più incisive. Era questo il punto che ci separava, del resto, anche dalla segreteria Fanfani: proprio su questi temi, oltre che quelli della pace e de riarmo, sarei presto giunto – assieme agli altri esponenti giovanili che condividevano queste valutazioni, come Magri, Baduel, Leidi, Boiardi, per citare solo i nomi più noti – a un duro scontro con il nuovo gruppo dirigente del partito, sino a uscire dalla DC già nel 1955, per dar vita all’esperienza della rivista “Il dibattito politico”.
In effetti, che De Gasperi fosse, sul terreno economico e sociale, orientato in senso moderato, e’ assolutamente fuori di dubbio. Ma è proprio vero che la sua politica si qualificasse su questo terreno essenzialmente come “immobilistica” , secondo il giudizio allora dato così dalla sinistra interna della DC come dalla sinistra socialista e comunista?
Se si considerano le cose a distanza, ormai, di diversi decenni, vi sono due aspetti che vanno, a me pare, nettamente distinti. Da un lato è indubbio che la scelta da lui compiuta nel ‘47 per il “quarto partito”(cioè per le forze dell’economia, il cui appoggio egli considerava indispensabile per la ricostruzione e lo sviluppo del paese) significò un’opzione per l’ordinamento capitalistico, confermata del resto anche della collocazione e dalle alleanze internazionale. Ma questa scelta significò affatto totale adesione a una politica liberistica e privatista: al contrario gli strumenti dell’intervento pubblico (anche col concorso delle idee e degli uomini della corrente dossettiana) furono ampiamente utilizzati da De Gasperi: sia per misure di temperamento delle contraddizioni sociali e di vera e propria riforma (la riforma agraria stralcio, l’azione degli enti riforma) sia per dare basi più robuste e autonome per lo sviluppo dell’economia italiana (l’ammodernamento dell’industria siderurgica, la creazione della Cassa per il Mezzogiorno, il ruolo svolto per la creazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio, l’appoggio dato a Mattei per il rilancio dell’AGIP, la concessione del monopolio per la ricerca del gas in Val Padana, l’istituzione dell’ENI).
In sostanza De Gasperi fu tutt’altro che un rigido liberista[8] e un privatista: e tanto più dopo i guasti prodotti, negli ultimi anni, dall’adozione di una politica di sfrenato liberismo e d’indiscriminate privatizzazioni (guasti che oggi si pagano col preoccupante regresso economico dell’Italia) è giusto riconoscere che la politica di intervento pubblico nell’economia praticata dai governi presieduti dallo statista trentino ebbe un ruolo di rilievo nell’ammodernamento delle strutture economiche del paese e nell’avvio di quel processo di ristrutturazione e di sviluppo che già nella seconda metà degli anni cinquanta avrebbe portato al cosiddetto “miracolo italiano”. Certo, quella politica ebbe un chiaro segno di classe, a favore dell’impresa e della borghesia imprenditrice, e comportò parecchi costi, almeno per tutto il decennio, a carico dei ceti popolari, soprattutto del Sud. Fu, infatti, l’epoca della grande emigrazione, verso il Nord e verso l’estero. Ma la sinistra commise un grave errore di valutazione (dovuto a un limite ideologico che il marxismo novecentesco non ha mai superato: ossia a convinzione che il capitalismo, per i suoi vizi intrinseci, non avesse la possibilità di promuovere il pieno sviluppo delle forze produttive) interpretando quel che stava accadendo come restaurazione e immobilismo e non vedendo la dinamica che, invece, si era posta in atto. Di qui il brusco risveglio, dopo il 1955, di fronte alle sconfitte sindacali nelle fabbriche determinate, il larga misura, dai processi di ristrutturazione o di riorganizzazione produttiva.
Ma questo è un discorso che va molto al di là di quel che qui mi proponevo. Ossia sottolineare che l’intervento pubblico in campo sociale ed economico - sia a fini di temperamento dei conflitti sociali sia allo scopo, soprattutto, di creare le condizioni per lo sviluppo – fu una caratteristica essenziale della politica dei governi presieduti da De Gasperi. Anche questo fatto differenzia sostanzialmente quella politica da quelle, del tutto regressiva, posta in atto dall’attuale governo di centro-destra.
[1] Alcune delle informazioni, particolarmente quelle di carattere più strettamente biografiche, contenute in questo scritto, sono state parzialmente anticipate, in forma più succinta, in due articoli pubblicati sul Manifesto del 12 maggio e sull’Unità del 18 agosto scorsi.
[2] Va ricordato che Gedda era allora particolarmente forte non solo perché disponeva di autorevoli appoggi in Vaticano (in certa misura dello stesso Pontefice), ma perché aveva guidato i Comitati Civici, che avevano avuto un peso determinante nella campagna elettorale del 18 aprile ’48 e perché era Presidente dell’Azione Cattolica, che aveva allora molti più iscritti della democrazia cristiana.
[3] Il ritorno d De Gasperi alla segreteria della DC, in sostituzione di Gonella, avvenne nel Consiglio nazionale del 26-29 settembre 1953. E’ da notare che in quell’occasione, mentre Gonella espresse un pieno appoggio a Pella, De Gasperi manifestò non poche riserve verso le scelte sia di politica interna sia di politica internazionale (la questione di Trieste, in particolare) del nuovo Presidente del Consiglio.
[4] In occasione di quella crisi Dossetti, che era vicesegretario del partito, cercò di forzare la situazione chiedendo una svolta nella politica economica del governo, e a tale scopo la sostituzione di Pella, che era deciso fautore di una politica di stampo liberista, con un ministro della corrente di “Cronache Sociale”. Ma mentre questo scontro politico era in corso, Fanfani avviò una trattativa riservata con De Gasperi, in base alla quale entrarono ne governo sia lui sia Vanoni, ma restava anche Pella e non veniva data alcuna seria garanzia di nuove scelte in materia economica. Dossetti vide in quella vicenda una conferma della convinzione, che era in lui maturata, circa l’impossibilità di ottenere dalla DC una politica più avanzata e riformatrice. Ciò lo indusse ad accelerare la decisione del ritiro dalla politica, che fu da lui annunciato in due convegni tenuti al castello di Rossena, sull’Appennino emiliano, fra l’agosto e il settembre 1951.
[5] Palmiro Togliatti – Per un giudizio equanime sull’opera di Alcide De Gasperi in “Rinascita” num. 10, 11, 12 del 1955 e num. 3, 5, 6 del 1956. Questo lungo saggio di Togliatti non riscosse particolare interesse né all’epoca né dopo. Ciò dipese probabilmente per due fattori: per il suo carattere eminentemente dottrinario, poco accattivante; e perché ormai venivano alla ribalta altri avvenimenti. Fra l’altro è degli inizi del ’56 il famoso rapporto Krusciov all’VIII Congresso del PCUS sugli errori e sui crimini di Stalin. Riletto a distanza di quasi 50 anni quel saggio presenta invece notevole interesse. Non solo per l’analisi minuziosa che Togliatti compie sia degli scritti di De Gasperi intorno al pensiero sociale cattolico sia delle sue fonti. Ma anche per le valutazioni più strettamente politiche. Al riguardo, pur esprimendo un giudizio nettamente negativo sull’anticomunismo di De Gasperi e sulle conseguenze antipopolari della sua politica (fra i due uomini, fra l’altro, c’era un’evidente antipatia) Togliatti sottolinea a più riprese il sincero antifascismo del leader democristiano: e gli dà atto, anche, di aver dimostrato “di voler restar fedele alle regole democratiche” respingendo in più di un’occasione la proposta di misure eccezionali anticomuniste. Più pesante è il giudizio nella politica economica di De Gasperi: accettando la logica dei due tempi (prima il risanamento e poi le riforme) avrebbe in sostanza giustificato e teorizzato una scelta di immobilismo.
[6]Racconta infatti Corghi “De Gasperi mi aveva invitato a costituire col più giovane consigliere Giuseppe Chiarante e col rappresentante della Valle d’Aosta il seggio elettorale per l’elezione dei membri della Direzione. Mentre si scrutinavano le schede …. De Gasperi dopo avermi fatto notare la giovane età di Chiarante (che portava una maglietta estiva distinguendosi nettamente anche per l’abbigliamento dagli altri consiglieri) mi chiede: Che ne pensi se incontrassi questi giovani consiglieri? … Vedi penso sia cosa utile che il vecchio presidente racconti la sua storia, ma non qui, a Roma: a Sella sotto i pini. Bisogna parlare insieme, perché la storia continua, giovani e vecchi come me, insieme”. Più sinteticamente, la sorpresa di De Gasperi perché “parecchi consiglieri, giovanissimi, gli erano sconosciuti” e la sua decisione di conoscerli individualmente dopo un periodo di riposo estivo, sono ricordati anche da Giulio Andreotti nel libro “De Gasperi e il suo tempo”, edito da Mondatori nel 1974.
[7] Corrado Corghi, ibidem
[8] Anche Togliatti, nel saggio già citato, sottolinea che a differenza di Sturzo, che rientrava dall’esilio negli Stati Uniti riportando “dal nuovo continente un orientamento nettamente liberistico e di piena fiducia nel regime capitalistico”, De Gasperi si presenta sulla scena politica, nel ’44-45, con posizioni che non escludono “misure di socializzazione”. Più limpida e più avanzata gli pare però la posizione di Dossetti e del gruppo di “Cronache Sociali”.