È esagerato farsi tornare in mente la Bolognina, l’ultimo congresso del Pci, le lacrime di Occhetto, il «resto nel gorgo» di Ingrao e la scissione di Cossutta. Ma quella che arriverà stanotte nel Pd sarà un’altra «ultima svolta». Con Renzi nei panni del «nuovista», Cuperlo in quelli del rinnovatore-conservatore, Civati che tenta la via di una sinistra di confine con i movimenti: no Tav, via Maestra, acqua pubblica. Stavolta non ci saranno scissioni, ma non si può escludere il rischio di quella che D’Alema definisce una «scissione silenziosa di militanti».
Qualche settimana fa del resto Mario Tronti — prestigioso padre dell’operaismo, presidente del Crs e oggi senatore del Pd — ha parlato di questo passaggio come l’eventualità per il Pd «dell’uscita definitiva dalla storia della sinistra italiana» e del rischio della sinistra di diventare «una minoranza neanche politica, ma intellettuale». Già un anno fa, alle primarie di coalizione, Eugenio Scalfari aveva parlato della «mutazione antropologica» del Pd nel caso avesse vinto Renzi. Quest’anno, di fronte alla quasi-certezza che Renzi sia segretario parla di un’« avventura» e «in politica le avventure possono giovare all’avventuriero ma quasi mai al paese che rappresentano».
È inutile girarci intorno, lo scontro di oggi - da una parte Renzi, dall’altra Cuperlo e Civati - non è sulle prime pagine dell’agenda che il nuovo segretario si troverà davanti - larghe intese, legge elettorale, ricontrattazione dei vincoli europei - sulle quali i tre si equivalgono nella sostanza, tranne Civati che romperebbe le larghe intese subito. Il nodo di oggi il cambio di natura di un Pd che fin qui ha guardato al centro ma si è trovato «a svolgere, quasi di malavoglia, una funzione di sinistra», per dirla con un formidabile saggio di Walter Tocci, schierato con Civati (Sulle orme del gambero, Donzelli), un vademecum per la lettura del fallimento della generazione che oggi passa la mano. E del partito che lascia in eredità, «da un lato leader mediatici e dall’altro notabili territoriali sono tenuti insieme da una sorta di patto di franchising, in cui i primi si occupano della cura del brand e i secondi dell’organizzazione del consenso». Il «partito in franchising» lo abbiamo visto ai congressi, segnati male dal voto aperto fino all’ultimo (voluto da Renzi), dalle lotte fra clan fino alle incursioni dei pm, com’è successo a Salerno.
Cuperlo nella sua storia ha avuto qualche incertezza sulla bontà delle primarie. Renzi ha costruito un muro di ghiaccio con la Cgil, che presta l’attuale segretario e centinaia di quadri al Pd, per non parlare dei voti (la segretaria dello Spi Carla Cantone è candidata nelle liste di Cuperlo). Cose che hanno a che vedere appunto con la natura del Pd. Non a caso ieri Cuperlo ha ripetuto che «è in gioco l’autonomia della sinistra». Un concetto che ieri a Empoli si è incarnato in una scena all’ultimo comizio di Renzi. È comparsa una vecchia bandiera del Pci, portata in piazza da un militante settantottenne che l’aveva ricevuta dal padre partigiano. L’ha voluta porgere - senza regalarla - a Renzi, giovane rampollo della genealogia centrista italiana. Il gesto aveva tutta la forza di un passaggio simbolico. Senza un affidamento definitivo, però.
Fuori dai simboli, le differenze fra i tre sono chiare: tutti chiedono la ricontrattazione dei vincoli europei. Cuperlo ha un classico profilo laburista (piano straordinario per l’occupazione), Renzi ha rispolverato i libri del giuslavorista Pietro Ichino, già suo suggeritore (poi passato con Monti), contratto unico a tutele progressive e cancellazione definitiva dell’art.18. Cuperlo e Civati sono contro le privatizzazioni, Renzi è più ’laico’ (il suo economista di riferimento Gutgeld propone la privatizzazione di Rai e Poste). Civati e Renzi sono contro il Tav, Cuperlo ha fra i suoi i sostenitori delle trivelle in Val di Susa. Sui diritti, Civatiè a favore dei matrimoni gay e per le adozioni, Cuperloè fermo ai matrimoni civili e Renzi alla «civil partnership».