Il ponte di Calatrava colpisce ancora. Dopo una storia infinita di costi ballerini (lievitati da 2 a 23 milioni di euro), di varianti in corso d’opera, di costosissime manutenzioni, il quarto ponte sul Canal Grande è diventato il passaporto per un nuovo intruso nel cuore di Venezia: l’indecente alberghetto in vetro, ferro e cemento già in costruzione a un passo dal ponte. Per soprammercato, un garage a due piani, sotterraneo come a Venezia proprio non si fa. Dopo un contenzioso durato cinquant’anni, il proprietario dell’albergo Santa Chiara (su piazzale Roma) ha ottenuto il permesso di edificare in cambio di una piccola area verde che serviva per la base del nuovo ponte. Unponte di debole Costituzione:così lo ha chiamato la storica veneziana Nelli-Elena Vanzan Marchini, in un prezioso libretto della collanaOcchi aperti su Venezia (editore Corte del Fontego).
Calatrava è un celebrato architetto, che però ha calato sul Canal Grande un ponte pensato senza alcun rapporto, né stilistico né statico, con le caratteristiche del luogo: unsignature bridge chepotrebbe stare a Brasilia o a Shanghai. Ma Venezia non è una città qualsiasi: bello o brutto che sia, il ponte è inadatto alla città, al punto che la Corte dei Conti ha chiesto a Calatrava e ai responsabili del progetto 3,4 milioni di danni «in quanto l’opera è affetta da una patologia cronica caratterizzata dalla necessità di un costante monitoraggio e dal continuo ricorso a interventi non riconducibili alla ordinaria manutenzione».Riconosciamo in questa vicenda un virus che appesta le nostre città: il pregiudizio che una firma prestigiosa basti a giustificare qualsiasi inserzione di nuove architetture nelle città storiche (così Benetton ricorre a un grande architetto, Rem Koolhaas, per legittimare un’operazione speculativa sul cinquecentesco Fondaco dei Tedeschi:Repubblica,13 febbraio).
Viene in mente l’amara riflessione di Giancarlo De Carlo sul “fenomeno della copertura professionale” di grandi architetti, assoldati per coprire col loro nome guasti d’ogni sorta. Nessun luogo al mondo è più sensibile di Venezia a tali manovre. Occhi aperti su Venezia, dunque, ma anche sull’Italia: perché quel che si è messo in movimento è una sorta di missile a tre stadi. Prima fase, si manda avanti, come un rompighiaccio, il progetto di una qualche Grande Firma. Se, in nome della fama dell’archistar di turno, si riesce a farlo passare in barba alla storia e alla legalità, si può passare alla Fase Due: qualsiasi architetto, anche se ignoto ai più, potrà seminare per Venezia le sue piccole o grandi infamie. Segue, inevitabile, la Fase Tre: se tutto questo può accadere nel centro storico più delicato e più famoso del mondo, a maggior ragione le altre città italiane potranno popolarsi di intrusi in nome della modernità. È sotto quest’insegna, infatti, che una casta di costruttori senza fantasia, dopo aver deturpato le città italiane con architetture di pessima qua-lità, ha ora l’arroganza di proporre l’invasione dei centri storici. Ma anziché desertificare quel che resta delle nostre città, perché non usare le vere o presunte architetture di qualità per riscattare lo squallore delle nostre deformi periferie?
Venezia è oggi il laboratorio e la cartina di tornasole di un processo nazionale di accelerato degrado della tutela dei centri storici. Il peggiore insulto degli ultimi mesi alla città, l’improvvisato grattacielo che Pierre Cardin vorrebbe innalzare a Marghera, non hanemmenopro forma lacopertura di un’archistar: il progetto è la tesi di laurea di un nipote dello stilista, sostenuta a Padova nel 2011 (Corriere del Veneto,28 agosto): quanto basta per assicurarsi l’entusiasmo del ministro dell’ambiente Clini, che nello sgangherato palazzaccio vede a colpo sicuro l’alba di un Nuovo Rinascimento, e garantisce (dice lui) il pieno appoggio del governo. Pazienza se, coi suoi 250 metri di altezza, il mausoleo Cardin sfregerà per sempre loskylinedi Venezia, e violerà di oltre 110 metri l’altezza massima consentita nelle vicinanze dell’aeroporto (Repubblica,31 luglio).
L’impropria espansione dell’albergo di Piazzale Roma può parere al confronto una piccola cosa, ma non è così. Sarebbe (anzi è, perché la costruzione è in corso) il primo nuovo edificio sulle sponde del Canal Grande da un secolo a questa parte, un precedente pericolosissimo per nuove intrusioni. Quanto al garage interrato, non è quel che ci si aspetta a Venezia; e se poi, come alcuni temono, dovesse accrescere l’instabilità del vicinissimo ponte di Calatrava? Gian Antonio Stella ha raccontato da par suo la catena di garbugli e cavilli con cui questo progetto, anche qui senza bisogno di archistar, ha preso forma (Corriere della Sera,22 settembre). Ma davvero la sorte di Venezia e della sua bellezza dev’essere decisa da cavilli burocratici, e non dalla fedeltà ai principi della tutela e all’immagine della città? Chi può mai prendere una decisione come questa in barba al buon senso? Circola in merito una strana leggenda: responsabile unica e ultima della decisione sarebbe la Commissione di Salvaguardia, istituita con la legge speciale su Venezia del 1973. Questo pletorico organismo, presieduto dal presidente della Regione, è composto da venti membri, prevalentemente di nomina politica (4 della Regione, uno della Provincia, 3 del Comune, 2 dei comuni di gronda...), e si presta dunque al consueto scaricabarile. Non giova alla trasparenza il fatto che il progettista dell’alberghetto-intruso sia Antonio Gatto, membro della Salvaguardia in rappresentanza del Comune.
Ma la Commissione non è l’ultima istanza, dato che ne fanno parte due soprintendenti, quello ai monumenti e quello alle gallerie, e la legge prevede espressamente che, quando vi sia il parere contrario di uno dei due soprintendenti, “le determinazioni della Commissione sono sospese e il presidente della Regione, entro venti giorni, rimette gli atti al parere del Consiglio superiore dei Beni culturali” (artt. 5 e 6). La domanda è dunque: ammesso che (si spera) il progettista sia almeno uscito dalla stanza quando la Commissione, il 27 luglio 2010, approvava il suo progetto, i Soprintendenti hanno espresso, come dovrebbero, parere negativo? E il presidente della Regione? Il ministro Ornaghi, ora che con soli dieci mesi di ritardo si è dimesso da rettore della Cattolica, troverà il tempo di rompere il suo ostinato mutismo per dirci quel che pensa in proposito? Vorrà convocare il Consiglio superiore, da lui nominato da poco, peraltro con netta prevalenza di psicologi, politologi e altri inesperti? Quali che siano i cavilli amministrativi, l’intruso va scacciato dal Canal Grande. Ma un vantaggio in questa storia c’è: sarà facile capire chi ha più a cuore Venezia, se il ministero dei Beni culturali, la Regione o il Comune: sarà chi per primo avvierà le procedure di demolizione, prima che sia troppo tardi.