Geografo fra gli storici, storico fra i geografi, si diceva di Lucio Gambi, lo studioso ravennate che ha rivoluzionato la disciplina geografica in Italia, togliendole lo strato di polvere che l’appiattiva a scolastico inventario di monti, fiumi, confini e capitali. Le innovazioni di Gambi, scomparso due anni fa, sono raccontate in due volumi. Il primo è pubblicato dall’Istituto per i beni culturali dell’Emilia Romagna, a cura di Maria Pia Guermandi e Giuseppina Tonet, e raccoglie scritti di Gambi (La cognizione del paesaggio, Bononia University Press, pagg. 341, euro 23), oltre agli interventi di Ezio Raimondi, Franco Farinelli, Marina Foschi e Sergio Venturi. Il secondo è un numero quasi monografico della rivista del Mulino Quaderni storici, a cura di Massimo Quaini e con saggi di Giuseppe Dematteis, Claudio Greppi, Arturo Lanzani, Floriana Galluccio, Maria Luisa Sturani, Giorgio Mangani, Roberta Cevasco e Vittorio Tigrino (pagg. 319, euro 30).
In entrambi i volumi domina il tema della svolta impressa da Gambi, che ha ribaltato le impostazioni prevalenti fino almeno agli anni Settanta, quando chi faceva geografia di fatto descriveva e misurava oggetti fermi nel tempo, dati una volta per sempre. Questioni di geografia risale a un periodo ancora precedente, alla metà degli anni Sessanta, e già interrogava la cittadella dei geografi sulla difficoltà di procedere come si era sempre fatto. Ma il saggio che impone a un pubblico più vasto il modo di procedere di Gambi è I valori storici dei quadri ambientali, che nel 1972 apre il primo volume della Storia d’Italia Einaudi. Un geografo fra gli storici, appunto. E non in una posizione marginale, ma quasi a dettare un metodo di indagine in uno dei luoghi di massimo rilievo della storiografia italiana, un metodo fondato sull’intreccio dei linguaggi, dei codici scientifici, sul fascinoso incastro fra l’asse diacronico della storia e quello sincronico della geografia, un incastro che produce pagine di distesa e bellissima narrazione.
Pescando a campione, ecco la descrizione delle modifiche introdotte nei paesaggi italiani dalla combinazione di eventi climatici, di morfologia del terreno e dalla scelta da parte degli uomini di quali colture piantare. Gambi spiega sulla base di questi tre fattori, per esempio, l’incremento degli oliveti in Toscana nei primi secoli del Medioevo, una coltivazione che non si riscontra prima di allora. Ma storia e geografia si incrociano anche nell’analisi sulla deforestazione di vaste zone della penisola avvenuta negli ultimi cinque o sei secoli. O nell’indagine di un altro fenomeno impetuoso che dal Settecento in poi ha investito la pianura padana nella sua parte veneta e friulana, emiliana e romagnola: l’estensione delle colture cereali, che spinge Gambi a coniare la felice espressione di "steppa a cereali", una steppa creata eliminando la foresta a latifoglie e riducendo le superfici di pantano, un’operazione che a sua volta «non può non aver influenzato il clima in termini più continentali». E storia e geografia ricorrono nello studio dedicato a La casa dei contadini, dove l’uso delle fonti ricorda Emilio Sereni, e dove quei prodotti di umile edilizia sono concepiti come un bene culturale bisognoso di tutela.
La scrittura di Gambi è curata, vagamente e ironicamente antiquata, fluida e nitida, come a voler movimentare, insieme agli argomenti, le acque di una scienza che si limitava alla cartografia e alla sua interpretazione. Sia Raimondi che Farinelli, nel volume a cura di Guermandi e Tonet, sottolineano il peso avuto da Gambi nel ribaltare lo statuto della disciplina. Per esempio, come sottolinea Raimondi (che ora dirige l’Istituto per i beni culturali alla cui fondazione contribuì Gambi, restandone direttore per un anno), nella concezione del paesaggio, non più elemento originario, tutto naturale e visto come sfondo dell’agire umano, bensì «entità condivisa tra natura e cultura, il risultato di un’operazione che chiedeva, anche da parte dell’analista, strumenti altrettanto adeguati». Per Raimondi sono poi fondamentali i richiami di Gambi agli illuministi (Beccaria, Verri, Filangieri e Genovesi) e a Carlo Cattaneo. E, a proposito di riferimenti politico-culturali, Farinelli ricorda come la rivoluzione disciplinare coincida in Gambi con i suoi atteggiamenti antiaccademici, con la sua sensibilità nei confronti delle migliori istanze studentesche nel ‘68, sfociata nella fondazione di "Geografia democratica", e come questa attitudine fosse il naturale prosieguo della militanza nelle file di Giustizia e Libertà durante la lotta di Liberazione.
Nell’introduzione al numero di Quaderni storici, Massimo Quaini segnala quanto le innovazioni avviate da Gambi siano contemporanee a quelle introdotte in altre discipline, ne condividano spesso la radicalità, e come, tornando alla lezione di Cattaneo, il geografo ravennate tenda a costruire la scienza non a partire dagli statuti disciplinari, quanto dai problemi. Anzi, scrive Gambi (citato da Quaini), la scienza «consiste solo in problemi: e l’unica ragione del lavoro culturale sono i problemi che investono di volta in volta diverse aree di scienza, poiché la scienza, per Cattaneo, è utilità sociale e non ha valore quando seziona o divide i problemi in tronchi, con diverse designazioni».