loader
menu
© 2024 Eddyburg
Benedetto Vecchi
L'oriente è vicino
8 Settembre 2010
Capitalismo oggi
La funzione pastorale dello stato per garantire l'accumulazione originaria nei paesi asiatici. Un sentiero di lettura a partire dai lavori dell'economista indiano Kalyan Sanyal e dello studioso Michael Schuman. Il manifesto, 8 settembre 2010

Il nuovo millennio non sarà né americano né europeo. Una previsione che un piccolo esercito di studiosi di geopolitica e di economia era pronto a sottoscrivere da molti anni. A ingrossare le loro fila ci ha pensato la crisi dell'economia globale, facendo diventare questa previsione un luogo comune, buone per spiegare i successi di realtà nazionali o di città stato asiatiche come l'India, la Cina, Singapore, Malaysia, Indocina e Macao. Al di là della evidenza empirica che la crisi economica ha colpito più duramente gli Stati Uniti o il vecchio continente che non i paesi asiatici, il pensiero critico sta però ancora cercando di sviluppare una spiegazione plausibile del perché paesi considerati fino a dieci, venti anni «sottosviluppati» siano diventati la locomotiva che traina l'economia mondiale. Nelle pagine conclusive di Adam Smith a Pechino (Feltrinelli) Giovanni Arrighi invitava a non lasciarsi trascinare dai facili entusiasmi nell'indicare la Cina come lo Stato-nazione che rubava lo scettro agli Stati Uniti lo scettro di unica superpotenza politica e economica nel mondo. L'economista italiano ricordava, a ragione, che per diventare superpotenza un paese deve avere non sola la potenza militare conseguente al ruolo che esercita, ma di avere la capacità di condizionare le scelte e le decisioni prese tanto dai singoli stati nazionali che dalle istituzioni preposte alla governance della globalizzazione.

Dalla periferia al centro dell'impero

La Cina, scriveva Arrighi, non poteva essere considerata né un paese capitalista, ma neppure socialista. Semmai andavano riprese criticamente le tesi di Adam Smith sull'economia di mercato che contempla non una indistinta e sfuggente mano invisibile, ma un forte interventismo nei campi dei diritti civili, politici e nella legislazione del lavoro per garantire la prosperità economica, aiutando cosi molti paesi cosiddetti sottosviluppati a sfuggire al destino di ripercorrere il sentiero già battuto, e fallimentare, del cosiddetto neoliberismo o quello altrettanto fallimentare del socialismo reale.

L'economista italiano considerava il suo libro come l'inizio di una ricerca ancora tutta da svolgere e che la sua morte ha interrotto, proprio quando è iniziata una vivace discussione internazionale sulle implicazioni teoriche delle sue tesi. Tra i protagonisti della riflessione attorno alla «natura» dello sviluppo capitalistico che ha caratterizzato molti paesi asiatico c'è sicuramente Kalyan Sanyal, economista indiano che ha scritto un importante saggio - Ripensare lo sviluppo capitalistico, la casa Usher, pp. 254, euro 19,50 - che, oltre a dialogare con le tesi di Giovanni Arrighi, ripercorre criticamente il quarantennale dibattito in ambito marxista sul rapporto tra i paesi del centro e quelli alla periferia dell'economia capitalistica mondiale.

Kalyan Sanyal dichiara sin dalle prime pagine la sua insoddisfazione rispetto alle analisi di Immanuel Wallerstein, Andre Gunder Frank e Samir Amin, i quali hanno in passato sostenuto che i paesi usciti dal lungo inverno colonialista avrebbero colmato la distanza con i paesi industrialmente sviluppati per uscirà dalle condizioni di minorità e di arretratezza economica che li connotava. Per Sanyal, invece, non esiste una unica traiettoria per giungere alla agognata meta di una società industrialmente sviluppata, sebbene plasmata sul modello europeo o statunitense. Anzi, proprio, la storia recente indiana, e per estensione di quella cinese, indica che è possibile abbinare uno sviluppo capitalistico a forme politiche e sociali radicalmente differenti rispetto a quelle europee o statunitensi. Dunque le concezioni che vedono un'uscita obbligata dal sottosviluppo sono errate. Con passione e una nutrita rassegna della più che quarantennale bibliografia sullo sviluppo capitalistico, l'economista indiano si propone l'obiettivo di sviluppare una critica dell'economia postcoloniale che caratterizza società che mantengono caratteristiche dei paesi cosiddetti sviluppati sviluppate - una ampia percentuale della popolazione che vive in condizioni di povertà e un numero limitato di lavoratori salariati - e una capacità di sviluppare settori produttivi fortemente integrati nell'economia globale capitalista. Per fare questo, Sanyal riprende gli scritti di Karl Marx sull'accumulazione originaria cercando di fonderli con l'analisi di Michel Foucault sulla «governamentalità».

È noto che Marx ha variamente inteso l'accumulazione originaria, considerato lo sviluppo capitalistico all'interno di una cancellazione degli elementi precapitalistici da parte di rapporti sociali congeniali a un regime economico fondato sul lavoro salariato. L'accumulazione originaria era cioè propedeutica affinché si compisse il passaggio dal capitale mercantile alla riproduzione allargata del capitalismo fondata sul lavoro salariato.

L'indispensabile povertà

Periodo feroce, violento, quello dell'accumulazione originaria, come d'altronde gli storici hanno documentato, ma comunque limitato nel tempo. Per Sanyal, invece, l'accumulazione originaria è un dispositivo sempre vigente. Nell'economia politica postcoloniale gli elementi precapitalistici devono essere mantenuti perché «funzionali» alla forma specifica di capitalismo affermatasi nei paesi cosiddetti sottosviluppati come l'India. In parte perché lo sviluppo economico non riesce a garantire la piena occupazione. Da qui la persistenza di una diffusa povertà in quei paesi. Ma anche perché l'economia «informale» - piccolo artigianato, piccolo commercio, produzione di merci senza far ricorso al lavoro salariato - svolge un ruolo politico, cioè di stabilità delle società. È questo mantenimento politico di un ampio settore economico e sociale non coinvolto nello sviluppo capitalistico che garantisce lo sviluppo capitalistico nei settori «di punta» dell'economia mondiale. Da qui, il ruolo fondamentale dei movimenti sociali contro la povertà e delle forme di produzione non capitalistica visti dall'economista indiano come critica immanente dell'economia politica postcoloniale. E sulla prima parte il consenso è d'obbligo, sulla seconda parte della sua proposta politica ci sarebbe molto da discutere.

Il saggio di Kalyan Sanyal mostra la sua capacità interpretativa proprio sottolineando il ruolo «pastorale» dello stato nei paesi usciti dal colonialismo e diventati nodi fondamentali nelle rete produttive globali che avvolgono il pianeta. Ma a differenza di quando hanno sostenuto, ad esempio, Toni Negri e Michael Hardt nel saggio Impero nel capitalismo globale l'esterno continua a sussistere perché funzionale proprio allo sviluppo capitalistico.

Dalla terra alla conoscenza

L'analisi di Sanyal non è però convincente laddove non affronta il fatto che l'accumulazione originaria si basa anche sull'estensione dell'istituto della proprietà privata e del lavoro salariato a tutti gli aspetti della vita sociale. E si può tranquillamente affermare che il dispositivo dell'accumulazione originaria è vigente anche nei paesi europei o negli Stati Uniti, proprio perché le enclosures o il lavoro salariato viene esteso a settori finora «esterne» dalla produzione capitalistica. L'affermazione del regime della proprietà privata alla conoscenza, al sapere e la diffusione di forme di lavoro salariato a questi settori possono essere meglio comprese proprio usando l'accumulazione originaria non come momento transitorio ma come suo elemento costante dello sviluppo capitalistico. Il saggio di Sanyal rivela la sua capacità analitica nell'evidenziare il ruolo «pastorale» dello stato nello sviluppo economico di molti paesi asiatici, europei e statunitensi, nonostante la retorica neoliberista consideri lo stato un residuo passivo del lungo secolo novecentesco. Retorica che torna ne Il miracolo, un saggio scritto dall'economista statunitense Micahel Schuman (Marco Tropea, pp. 413, euro 23).

In una malcelata apologia dei regimi politici autoritari come quello malaysiano, di Singapore o nell'ammirazione di imprenditori giapponesi, coreani, Schuman sottolinea che la scelta del libero mercato è stata fondamentale per fermare la possibilità che in tutti i paesi del sud-est asiatico si affermassero regimi filo-sovietici o filo-cinesi. Certo, a prezzo di politiche antisindacali, di repressioni ferocissime (la messa morte di centinaia di migliaia di comunisti in Indonesia occupa lo spazio di due righe) e di assenza di libertà, ma l'economista statunitense ripropone sempre il mantra che alla fine la democrazia trionfa sempre quando l'economia è prospera e le imprese hanno mano libera.

La Cina, l'India, l'Indonesia, il Giappone, la Corea del Sud presentano però un'anomalia che Schuman non riesce però a cancellare man mano che la sua ricostruzione storica procede. Sono tutti paesi dove il libero mercato ha avuto nello Stato un robusto e indiscutibile supporter. Da questo punto di vista è interessante mettere a confronto questo libro con quello della giornalista cino-americana Leslie T. Chung Operaie (Adelphi, pp. euro 24. Ne ha scritto su queste pagine Nicoletta Pesaro il 14 Luglio 2010). E se Schuman ritiene che la Cina è entrata nel club che conta solo perché qualche illuminato di PeChino ha deciso di lasciati liberi gli spiriti animali del mercato, la giornalista fa parlare le protagoniste del suo reportage - una specie di «NoLogo» politically correct - dove l'ombra dello stato si allunga su tutto ciò che le imprese decidono di fare, creando le condizione sociali, giuridiche e politiche di uno sviluppo capitalistico, tanto veloce quando pervasivo.

In nome della modernizzazione

Le operaie di Leslie T. Chung vogliono affrancarsi dalla vita di villaggio, vogliono costruire una vita confacente a desideri, bisogni che la società «socialista» considerava tabù: ma la loro individualizzata «pratica dell'obiettivo» non sarebbe però pensabile senza il decisivo apporto «pastorale» dello stato socialista. Per quanto interessante, il saggio di Michael Schuman sceglie sempre di aggirare gli scogli che la retorica del libero mercato non ha contemplato nella sua vision totalizzante della vita in società. E i nodi investono sempre la forma specifica di un capitalismo che ha saputo adattarsi a situazioni locali, facendo diventare punti di forza ciò che inizialmente poteva presentarsi come debolezza.

La presenza di una povertà diffusa è indispensabile per consentire il decollo di settori produttivi fondamentali nell'economia mondiale. Il distretto di Bangalore non sarebbe mai diventato uno dei centri nevralgici dell'high-tech se lo stato indiano non avesse considerato l'istruzione come un obiettivo strategico dell'India dopo l'indipendenza, aprendo così le porte delle università a milioni di indiani. Allo stesso tempo, la persistenza dell'economia di sussistenza è stata fondamentale perché lo sviluppo capitalistico non può più garantire la piena occupazione. E gli esempi potrebbero continuare a lungo.

In altri termini, l'analisi delle società asiatiche costringe il pensiero critico a riprendere sentieri interrotti, come il rapporto spesso conflittuale tra diritti sociali e sviluppo capitalistico; la democrazia come potenza degli eguali e non come rappresentazione degli interessi di una generica società civile. La nozione, infine, di lavoro salariato, che non coincide con la sua forma contrattuale europea o statunitense. L'Asia che emerge in questi anni di globalizzazione pone di nuovo nell'agenda il nodo, certo ancora da sciogliere, di come superare quel regno della necessità che ci consegna a una radicale assenza di libertà.

ARTICOLI CORRELATI
12 Luglio 2019

© 2024 Eddyburg