Internazionale, 22-29 giugno 2018. Altre vittime dello sviluppo: le dighe, la pesca intensiva e i cambiamenti climatici stanno distruggendo il lago Tonle Sap mettendo a rischio la sopravvivenza dei suoi abitanti. (i.b.)
Andrea Frazzetta ha fotografato i villaggi galleggianti sulle rive del lago Tonle Sap. Dove la pesca intensiva e i cambiamenti climatici spingono gli abitanti a trasferirsi sulla terraferma.
È un tardo pomeriggio e Reth Roth scuote il figlio. “È ora di alzarsi!”, gli grida all’orecchio. Suo marito Cheng Chak è già vestito e sta radunando telefoni, sigarette, un fornelletto da campeggio. Il figlio dorme come un sasso, immobile, poi improvvisamente si alza in piedi. Il sole invade i lati aperti della casa, tagliando il pavimento nudo e spazioso. Il ragazzo batte le palpebre, confuso, poi comincia a preparare le provviste.
Dieci minuti dopo, e tre metri più in basso, gli uomini caricano una minuscola barca di legno con gas, acqua, reti e borse frigo. Roth corre giù con alcune bustine di caffè solubile: carburante per resistere fino all’alba. È l’inizio di dicembre, e il livello dell’acqua è già sceso molto sotto la casa. Padre e figlio spingeranno la barca oltre le ipomee galleggianti e i cumuli d’immondizia, poi avanzeranno attraverso i canali con l’acqua bassa fino a raggiungere il Tonle Sap, il gigantesco lago al centro della Cambogia. E infine, come ogni notte, pescheranno.
La pesca, in questo periodo di dicembre, va abbastanza bene. Riescono quasi sempre a tirare su una quarantina di chili, dice Roth. Rispetto all’anno scorso, quando c’è stata una siccità terribile, o a due anni fa, quando la situazione era già brutta, la pesca va meglio. Ma in confronto a “prima”, è molto, molto peggio.
Prima, si potevano pescare i pesci nei canali sporchi sotto casa, bastava lanciare una lenza dalla finestra. Prima, si poteva prendere un grosso pesce senza sforzo. Prima, dice Roth, “questa zona era tutta foresta”. La coppia e i cinque figli si sono trasferiti qui da una casa galleggiante meno di dieci anni fa. Ora Chong Kneas, venti chilometri a sud di Angkor Wat, si è riempita di decine, se non centinaia, di abitazioni.
La casa di Roth è circondata da un vasto tratto di terreno acquitrinoso, ma è un’anomalia. Nella maggior parte dei casi le abitazioni sono addossate l’una all’altra. Pali di legno vacillanti premono sulle fondamenta di cemento. Delle passerelle costruite con scarti di legno legati insieme passano sotto le case collegandole tra loro. Quando piove, sul terreno alluvionale si accumula l’immondizia. Quasi tutte le case sono minuscole, baracche pericolanti di legno e zinco arrugginito.
Eppure questo villaggio, situato ad appena quindici chilometri dalla città di Siem Reap, accanto alla punta settentrionale del lago, è il massimo per gli abitanti del Tonle Sap. Chi vive sulla terraferma può accedere a scuole, mercati e ospedali. Può usare la casa come garanzia per chiedere un prestito. Se la pesca va male, può trovare un altro lavoro, per esempio Chak guida un tuk tuk, Roth vende fiori di loto, cosa fondamentale, perché nessuno crede che questo stile di vita possa durare per un’altra generazione.
“Non voglio che i miei figli diventino pescatori come me”, mi ha detto nel marzo del 2017 Sles El, un pescatore cham di 38 anni che si era trasferito a Chong Kneas l’anno prima dopo aver sempre vissuto sull’acqua. “Spero solo che trovino un lavoro diverso”.
Quando il missionario domenicano Gabriel Quiroga de San Antonio posò lo sguardo per la prima volta sul lago Tonle Sap alla fine del cinquecento, fu così confuso dalla sua vastità che pensò di essere ancora sul Mekong.
La città di Angkor “magnificamente costruita”, con le mura fortificate dipietra, gli stemmi, le misteriose iscrizioni e i portici in stile romano, sorge “sulla spondadel Mekong, a 170 leghe dal mare”, scriveva Quiroga de San Antonio. “Il fiume tende a gonfiarsi e ad arretrare. La marea si fa sentire a più di 170 leghe da qui, le sue acque nutrono una gran quantità di pesci”.
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Chong Khneas: uno dei villaggi galleggianti
quando il fiume è in piena
Chong Khneas: uno dei villaggi galleggianti
quando il fiume è in secca
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Pulsazione annuale
Il lago Tonle Sap, che si estende sul territorio cambogiano come un 8 allungato, è il piùgrande bacino d’acqua dolce di tutto il sudest asiatico. Nella stagione secca è costeggiato da strade rosse e foreste. Quando arriva la pioggia, l’acqua inonda le pianure, le foreste e le risaie che lo circondano. Al culmine della stagione delle piogge, il Tonle Sap raggiunge un’estensione di 16mila chilometri quadrati, moltiplicando di sei volte le sue dimensioni. I pesci migrano e si riproducono, il riso germoglia.
Gli scienziati le chiamano pulsazioni di piena, i poeti le paragonano al battito cardiaco. Uno dei primi romanzi moderni la Cambogia s’intitola Le acque del Tonle Sap e molti proverbi alludono al movimento dell’acqua. Quando le piogge finiscono e il livello dell’acqua del Mekong cala, il lago si getta nel fiume Tonle Sap e poi nel Mekong. Nella stagione delle piogge le nevi sciolte che arrivano dal Tibet e i monsoni che si abbattono sulla Cambogia e più a monte gonfiano il Mekong. Allora il corso del fiume Tonle Sap s’inverte. L’unico fiume al mondo a fare una cosa simile, ogni anno, regolarmente. “Il doppio movimento del lago, la pulsazione annuale di questo cuore gigantesco legato alle migliaia di arterie del Mekong, è la vita dei pescatori”, rifletteva nel 1871 il tenente Jules Marcel
Brossard de Corbigny.
Il sistema ha funzionato così per secoli. Oggi le dighe, il cambiamento climatico e la pesca intensiva stanno rapidamente struggendo il Tonle Sap. I pesci scompaiono e si perdono fonti di sostentamento. Sul lago, un intero stile di vita sta morendo. Un tardo pomeriggio in un porto della provincia di Kampong Chhnang, e le barche rientrano lungo un piccolo canale fangoso che collega il lago alla terraferma. I battelli colorati, lunghi e sottili, affondano nell’acqua e sono alimentati da assordanti motori fuoribordo. Prima di toccare terra, gli uomini balzano giù e senza fermarsi cominciano a riempire sacchi di riso e cesti di bambù con il loro bottino. Scaricano un secchio dopo l’altro di molluschi, pesci testa di serpente, lattarini argentei grandi quanto un pollice. I bambini aspettano con il retino in mano per acchiappare quello che cade. Sulla riva sono in attesa decine di scatole di metallo con il coperchio traforato. Nel giro di pochi minuti il pesce viene pesato, si fanno i conti e uomini in stivali di gomma versano il contenuto dei secchi nelle loro vasche. Auto, furgoni e camion costeggiano il mercato improvvisato. Al calare della notte svaniscono – in corsa lungo le maggiori strade della Cambogia per consegnare la merce all’alba in tutto il paese e ancora più lontano. La stessa scena si ripete tutt’intorno al lago in decine di moli senza nome. I pescatori, le barche, il pesce, i compratori e i bambini con il retino: giorno dopo giorno, mese dopo mese, al ritmo di 500mila tonnellate all’anno.
Pesca illegale e dighe
In tutto il pianeta, solo una manciata di paesi – tutti molto più grandi della Cambogia – possono vantare maggiori risorse ittiche nelle acque interne. E nessuno conta sui laghi nella stessa misura della Cambogia. Il pesce sfama la nazione e rappresenta la principale fonte di proteine per l’80 per cento della popolazione. Sfama anche i vicini della Cambogia, che ne importano migliaia di tonnellate ogni anno. E sta scomparendo.
Solo il Rio delle Amazzoni ha più specie di pesce d’acqua dolce del Mekong, mentre il lago Tonle Sap è il terzo più ricco di specie del mondo. Ma in meno di vent’anni la pesca qui è radicalmente cambiata.
Uno dei problemi del cambiamento climatico sono gli eventi atmosferici estremi: piene più piene e secche più secche. Nei prossimi anni si prevede che siccità e alluvioni peggioreranno. Con l’aumentare del riscaldamento climatico, aumenterà anche la temperatura dell’acqua. E questi cambiamenti hanno un effetto devastante sul modo in cui i pesci migrano e si riproducono.
Chi vive sul lago denuncia la pesca illegale. Dove l’acqua è più profonda, i pescherecci illegali invadono le aree protette; più lontano, i pescatori usano reti con buchi minuscoli, l’elettricità, perino la dinamite. C’è corruzione, ci sono scoli chimici, c’è tanta gente che sgomita per poco pesce.
E poi ci sono le dighe. Sette nella parte superiore del Mekong in Cina e tre in costruzione nel tratto inferiore del Mekong in Laos. Altre decine sono previste lungo l’intero corso del fiume e dei suoi affluenti. Bloccando le vie di migrazione, si prevede che le riserve ittiche del basso Mekong possano diminuire drasticamente, secondo alcuni studi addirittura della metà.
Sessanta chilometri a sudest di Chong Kneas, in diagonale sul lago, sorge il villaggio galleggiante di Kampong Prak, nella provincia di Pursat. Nella stagione secca, le 63 case sono ancorate nell’acqua alta circa un metro, non lontane da una lingua di terra coperta di cespugli ed erba spugnosa. Nella stagione delle piogge il villaggio segue l’acqua verso l’entroterra, navigando attraverso quello che resta delle foreste alluvionali prima di fermarsi e aspettare che la marea scenda.
Il lago è circondato da centinaia di villaggi galleggianti. Alcune case sono ampie, con il pavimento e i tetti aguzzi. Ma nella maggior parte dei casi sono più modeste: battelli angusti con coperture ricurve o piccole piattaforme di legno legate a barili di petrolio, protette da zinco, paglia o bambù. La popolazione di queste comunità si è moltiplicata negli ultimi decenni, e i problemi sono molti. I rifiuti si accumulano, le eliche delle barche s’incagliano di continuo e una sottile patina di petrolio vela la superficie. L’acqua è usata per pulire il pesce, bere, lavare i piatti, fare i bisogni e lavarsi. I bambini e gli anziani si ammalano spesso. Tutti vogliono trasferirsi sulla terraferma.
Una scelta difficile
Abbiamo incontrato per la prima volta Mok Hien, 71 anni, nel 2016, quando il sudest asiatico stava attraversando la peggiore siccità di cui si è avuta traccia nella sua storia. A Kampong Prak l’acqua arrivava alle caviglie ed era coperta di alghe di un allarmante color verde acceso, c’erano incendi nelle foreste e il pescato si era ridotto a niente. Come molti altri sul lago, Hien doveva soldi a tutti: alla banca, a un vicino, a un usuraio. “È impossibile che le cose migliorino”, aveva previsto. “Andranno sempre peggio”. Quando siamo tornati, nel marzo del 2017, la situazione sembrava migliorata. Le barche punteggiavano il lago, mentre uomini e donne gettavano le reti nell’acqua alta ino al petto. Ma quasi tutti sapevano che era solo una breve tregua. “Non credo che sia meglio dell’anno scorso. I pesci sono ancora pochi e per lo più piccoli”, ha detto Hien.
Nell’acqua bassa un pescatore con l’aria stanca era seduto in una barca con due bambini allampanati. Vedovo e con cinque figli, Keo non ce la faceva a tirare avanti con il poco che riusciva a prendere. L’anno prima era così disperato che aveva pescato nell’area protetta. Lo avevano preso e gli avevano fatto una multa pari a più di cento dollari: una fortuna per un pescatore impoverito. Keo aveva chiesto un microprestito con il pretesto di comprare una nuova attrezzatura. Anche se il 2017 era stato migliore dell’anno prima, stava ancora pagando il debito alla banca e l’unico futuro che riusciva a immaginare era lontano dal lago. “Voglio mandare i miei figli a scuola e voglio che facciano un lavoro diverso”.
Gli abitanti di Kampong Prak hanno presentato una petizione al governo per trasferire l’intero villaggio sulla terraferma. Anche altri abitanti delle zone vicine hanno progetti simili. “Molti però non hanno soldi”, ha detto Ay Sok mentre, insieme alla figlia Chim Srey Mom, manovrava la sua barchetta bucata intorno a una chiazza di ipomee galleggianti vicino al villaggio di Kampong Luong. Dopo aver stretto la cinghia per anni, sono riuscite a risparmiare abbastanza per comprare un piccolo appezzamento di terra. Si sentono sollevate ad aver trovato una via d’uscita. “Non possiamo dire che siamo felici di andarcene, ma restare è difficile. La nostra casa è qui, ma qui non c’è lavoro”, spiega Srey Mom. Interviene sua madre, dicendo sommessamente: “Io ho vissuto qui, i miei genitori hanno vissuto qui, e anche mia figlia, di generazione in generazione”.
Ripreso e tradotto dal Mekong Review (Cambogia), da parte dell' Internazionale e pubblicato sul numero 1261, pp. 66-73.