«Per paradosso, le città più depresse ammortizzano più facilmente i nuovi venuti, assorbendoli verso il basso; dove più alti sono invece reddito e qualità dei servizi, più larga diventa la distanza con gli stranieri e più marcato il pericolo di una loro ghettizzazione».
Corriere della Sera, 11 giugno 2015 (m.p.r.)
La faglia s’allarga. Da politica, rischia di diventare territoriale e sociale, attestandosi lungo rancori sedimentati tra due Italie. Già così distanti per qualità di servizi e sanità, trasporti e infrastrutture, Nord e Sud s’allontanano ora sull’ultima e più cruda emergenza: i migranti. Che al Sud sbarcano (e in gran parte restano) e al Nord andranno sempre più verso ponti levatoi alzati.
La «rivolta» contro Roma e i suoi prefetti, avviata dal presidente Maroni e subito appoggiata dai presidenti Zaia e Toti — asse del nuovo centrodestra in Lombardia, Veneto e Liguria dopo il voto del 31 maggio — sta cambiando segno. Ha trovato sponda tra i sindaci (o candidati sindaci) «nordisti» del Pd. Felice Casson a Venezia, il nome più famoso. Ma anche Achille Variati a Vicenza, che stigmatizzava le manifestazioni della destra xenofoba fino a poco tempo fa. E ancora decine di primi cittadini «riluttanti» all’accoglienza, secondo l’ufficio immigrazione di quella Toscana che, nell’emergenza degli sbarchi del 2011, si distinse per generosità. Il linguaggio cambia («non siamo il Paese di Bengodi», tuona Variati), sfumando di giorno in giorno le differenze tra destra e sinistra di fronte a un’opinione pubblica inferocita.
Casson è sotto ballottaggio e dunque il suo monito, «Venezia ha già dato», può risentire dell’effetto pre-elettorale. Ma apparirebbe ormai piuttosto miope ridurre questo vento del Nord a mera tattica, ai calcoli di Matteo Salvini per mettere nell’angolo l’altro Matteo, Renzi. Come pure sembrerebbe puerile derubricarlo a un tentativo di Maroni di distogliere l’attenzione da una fastidiosa inchiesta milanese per presunti favori a una giovane collaboratrice. I toni inseguono un sentimento popolare. Perfino Debora Serracchiani, vice di Renzi nel Pd, parlando da presidente del Friuli ammonisce: «Si scordino che prendiamo nella nostra Regione gli immigrati che loro non vogliono».
Nei territori il malessere è forse più profondo di quanto percepito a lungo nei palazzi della politica (i bivacchi dei migranti alla stazione di Milano bastano a capirlo), chi deve cercare consenso non può più prescinderne. E non aiuta certo scoprire ora che l’Europa prende ancora tempo, che il famoso piano per ricollocare 24 mila profughi (con annesso principio di divisione in quote tra gli Stati europei) va slittando a settembre: che in sostanza siamo soli come sempre mentre l’estate incombe con nuovi sbarchi.
Nella solitudine i toni si alzano, accentuando fin troppo le connotazioni identitarie. In assenza di un’idea politica forte, o anche di un’idea qualsiasi che appaia risolutiva, l’identità più marcata diventa geografica. Sicché a Maroni che grida alla «ritorsione contro il Nord» s’oppone Angelino Alfano, evidentemente qui non solo nella veste di ministro degli Interni, che denuncia «l’odio contro il Sud». Un bello studio della Fondazione Moressa di Mestre sul «rischio banlieue » nelle nostre periferie ci ha offerto tempo fa una spiegazione sorprendente eppure ragionevole di questo diverso approccio tra le due Italie verso l’impatto dei migranti: il rischio massimo è a Bologna, il minimo a Reggio Calabria; per paradosso, le città più depresse ammortizzano più facilmente i nuovi venuti, assorbendoli verso il basso; dove più alti sono invece reddito e qualità dei servizi, più larga diventa la distanza con gli stranieri e più marcato il pericolo di una loro ghettizzazione.
I numeri da fronteggiare, per il momento, sono meno allarmanti di come vengono raccontati. Se il Guardian ipotizza mezzo milione di profughi pronti a imbarcarsi in Nord Africa, gli arrivi l’anno scorso furono 219 mila in tutta Europa (statisticamente, mezzo migrante ogni mille europei) e quest’anno siamo in linea, con 103 mila. Come insegna Trilussa, tuttavia, la statistica non sempre aiuta: nel 2014, 170 mila arrivi toccarono a noi. Torniamo dunque sempre al punto di partenza, la solitudine dell’Italia.
Non è difficile capire, però, che, proprio perché soli, dovremmo essere coesi, mettere fine alla gazzarra di questi giorni: il rischio che qualche testa bacata assalti un pullman che porta i migranti al Nord non è così teorico. Se poi saremo davvero, nel medio periodo, la prima linea di una biblica riallocazione dei popoli inseguiti da guerre e carestie, dovremo imparare qualcosa di nuovo: a stare assieme tra noi. Lungi dal cavalcare il disagio, la politica dovrebbe indicarcene la via. Per dare risposte — ferme o solidali che siano, ma serie — a chi viene da tanto lontano, è indispensabile cominciare a capirsi tra una valle bergamasca e una spiaggia siciliana.