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Maurizio Giuffrè
Logiche gattopardesche nel «modello Barcellona»
24 Settembre 2011
Recensioni e segnalazioni
Gli interventi, che hanno trasformato la metropoli, si inquadrano in una linea di continuità con la gestione affaristica del territorio. Il manifesto, 24 settembre 2011

Per Barcellona è ormai finito il tempo dei Lápices de oro, i giovani architetti dalle «matite d'oro» che all'inizio degli anni Ottanta diedero man forte a Josep Antoni Acebillo, responsabile dei progetti urbani della città catalana, per riqualificarla iniziando da una nuova configurazione dei suoi spazi urbani. Nessuno sembra più interessarsi a quel periodo che, iniziato nel 1975 con la fine della dittatura giunse all'inaugurazione, nel 1986, delle XXV Olimpiadi.

In quel breve intervallo Barcellona si è trasformata nella città che conosciamo: l'impegno delle prime amministrazioni socialiste e l'abile regia di Oriol Bohigas - non solo architetto ma valente storico e critico - determinarono un cambiamento che per molti è stato assunto come modello di efficienza, qualità e pragmatismo. Nell'arco di circa quindici anni, attraverso una serie di processi di ristrutturazione, recupero e nuove edificazioni, riguardanti interi quartieri, isolati, ramblas, piazze e singoli edifici, dal centro alla periferia, il «modello Barcellona», accompagnato dallo slogan «la città ai cittadini», si è concretizzato non solo in una profonda modificazione degli spazi urbani, ma nel cambiamento della realtà sociale, nel suo passaggio da una economia prevalentemente industriale a una economia rivolta al terziario avanzato.

Ancora dopo la fine del grande appuntamento delle Olimpiadi, Barcellona ha visto proseguire, ancora per alcuni anni, il suo piano di rinnovamento urbano esteso all'intero territorio metropolitano soprattutto attraverso la realizzazione di una rete di infrastrutture (rondes) ritenuta fondamentale per soddisfare la sua vocazione di città dei servizi. Dopo il 1992, però, le cose sono cambiate: «La stabilità economica ha spesso vacillato - ha scritto l'urbanista Antonio Font - con cicli brevi e mutevoli e nel paese ha preso forma un processo preoccupante di regressione democratica».

Non era però immaginabile per l'economia spagnola e per la finanza internazionale un arresto dello sviluppo urbano e immobiliare della capitale catalana. Così ancora un grande evento le andò in soccorso: il Forum Universale delle Culture nel 2004. Una stagione ricca di progetti e speranze ebbe il suo epilogo nello show urbanism e nelle architetture egotiste del Forum. Il centro congressi - un enorme monolite triangolare degli architetti svizzeri Herzog & de Meuron: di certo la loro opera meno convincente - insieme ai grattacieli sparsi un po' dovunque definiscono bene le velleità e il cinico espandersi della città in un'area, l'estremo orientale di Poblenou, solo qualche decennio prima densa di fabbriche e di uno storico quartiere popolare.

Le vicende urbanistiche della metropoli catalana sono oggi l'oggetto del saggio di Chiara Ingrosso Barcellona. Architettura, città e società, 1975-2015 (Skira 2011, pp. 191, euro 32). Un racconto apprezzabile, perché restituisce le molte contraddizioni che soprattutto nell'ultimo decennio hanno segnato la rigenerazione urbana di questa città, anche se sarebbe stato doveroso un più aggiornato e meno scontato apparato iconografico e non avrebbe disturbato una più chiara presa di posizione dell'autrice nei confronti delle vicende narrate. Evidentemente la paura dello «spettro» dell'ideologia o del politicismo - per usare le parole di Andrea Cortellessa - si agita anche nell'editoria di architettura. Si è così scelto di lasciare la parola ai protagonisti e per questa ragione ogni capitolo è intervallato da una serie di «conversazioni»: con Bohigas, Acebillo e Manuel Delgado. In particolare il punto di vista di Delgado, antropologo e professore universitario, merita di essere riferito perché evidenzia sia le relazioni delle vicende urbanistiche di Barcellona - tutte dentro i meccanismi dell'economia globale - sia la loro continuità con la gestione affaristica dei suoli e dell'edificato.

Delgado non ha timore ad affermare che pur rappresentando una «specie di tabù», in Catalogna non si ebbe un'autentica «transizione politica» e che è la «logica gattopardesca» a governare la città dagli anni del governo franchista a oggi. E se Bohigas avverte che il cambiamento di indirizzo della qualità urbana avviene con la conclusione dei progetti per le Olimpiadi, Delgado, con più coraggio, afferma che l'«aggressività» manifestata nella riqualificazione di quartieri del centro storico come il Raval e la Ribera non l'avrebbe avuta neppure il sindaco franchista Porcioles: d'altronde i funzionari pubblici non cambiarono con la transizione. È con realismo dunque che l'antropologo catalano racconta le speranze deluse di chi pensava di migliorare le proprie condizioni di vita dopo la dittatura e si è ritrovato invece a vivere in una «città per la classe media» che non tutti possono abitare e dalla quale quindi sono espulsi. «Non si può concepire la città come un affare - afferma Delgado -, non puoi vendere l'idea che viviamo nel migliore negozio del mondo, perché io non voglio vivere in un negozio. Non sono contro i turisti, sono contrario al fatto che ci siano solo turisti».

Lo sfruttamento esteso alle aree soprattutto centrali e fronte mare a scopi turistici e commerciali continua a essere una delle componenti di cui si nutre la gentrificazione: termine con il quale si indica la sostituzione residenziale di vecchi abitanti in un quartiere. Barcellona è uno dei casi più rilevanti di questo fenomeno e Delgado l'ha come pochi studiato in qualità di responsabile del «Grupo de Investigación sobre Espacios Públicos».

Riabilitare un quartiere non può significare espellerne gli abitanti per consegnarlo, secondo le regole del marketing urbano, a una «rappresentazione». Questa non ammette l'esistenza di alcuna conflittualità sociale, ma tutto deve essere «igienizzato»: con i nuovi abitanti più agiati, nuovi commerci e attività. Ci domandiamo con Delgado se la multiforme «società urbana» saprà aspettare perché si affermi un diverso uso della città, anche se è vero che nell'attesa si «radicano la nostra speranza e il nostro ottimismo».

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