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Michael Walzer
L’Occidente salvato dalla lotta di classe
1 Maggio 2014
Articoli del 2014
Quanti più diritti si estendono ai non-cittadini tanto più la parola “cittadinanza” perde significato. Stiamo vivendo il processo di svalutazione della cittadinanza per il bene dell’umanità. La Repubblica, 1 maggio 2014

Quanti più diritti si estendono ai non-cittadini tanto più la parola “cittadinanza” perde significato. Stiamo vivendo il processo di svalutazione della cittadinanza per il bene dell’umanità.

La Repubblica, 1 maggio 2014

Che cosa accade quando le nazioni diventano eterogenee? Che cosa accade quando la migrazione su vasta scala di profughi disperati e di uomini e donne alla ricerca di una vita migliore, immigrati legali e illegali — che cosa accade quando queste persone danno vita a popolazioni multi-culturali? Una risposta alla migrazione e alla diversità è un nuovo fermento a favore dell’inclusione e dei diritti umani, diritti che non dipendono da un’appartenenza politica di lunga data e da ricordi condivisi — il trionfo, potremmo dire, dei “diritti dell’uomo” della Rivoluzione francese sui “diritti del cittadino”. Vediamo il trionfo quanto mai chiaramente nell’estensione di molti diritti del cittadino ai residenti stranieri e altri non-cittadini, inclusi gli immigrati illegali. Questa è opera della sinistra liberale (che io appoggio), ma è strana, perché quanti più diritti si estendono ai non-cittadini tanto più la parola “cittadinanza” perde significato. Stiamo vivendo il processo di svalutazione della cittadinanza per il bene dell’umanità. Questa potrebbe anche essere la cosa giusta da fare, ma lascia la sinistra priva del modello di cittadino virtuoso, attivista, che decide per sé. E diventa sempre più difficile sostenere una cultura civica comune.
I paesi rivestiranno un significato minore per i loro abitanti, perché molti di loro non vi risiederanno da lungo tempo; le tombe dei loro antenati saranno altrove; il terreno sul quale vivranno non sarà per loro suolo sacro, e i loro visti non evocheranno ricordi storici e personali. In queste condizioni di eterogeneità, pluralismo culturale e individualismo radicale, che cosa accadrà, che cosa è accaduto alla solidarietà che sta sotto e che sostiene il welfare state? Se non ci sentiamo intimamente connessi agli altri abitanti del nostro paese, se non abbiamo in comune storia, religione e così via, se pensiamo a noi stessi come a una “serie” sartriana di individui scollegati tra loro — se tutto ciò è vero, chi mai sosterrà politicamente il welfare state o sarà disposto a pagare le tasse di cui esso necessita? Chi investirà tempo ed energie in discussioni politiche o in un’azione politica?

Al contempo, intrinsecamente collegato con ciò che ho appena descritto, c’è un nuovo globalismo; non è proprio la stessa cosa dell’internazionalismo della vecchia sinistra, ma dovremmo considerarlo la versione del XXI secolo dell’internazionalismo, evidente in organizzazioni come Medici senza Frontiere, Human Rights Watch, e Amnesty International. Gli aiuti umanitari per le persone in difficoltà in tutto il pianeta sono molto popolari oggi. Se ci sono meno cittadini impegnati nel nostro paese, abbiamo però molti più cittadini impegnati nel mondo; attivisti all’estero. Questi impegni globali non sembrano poter rendere possibile una vibrante politica liberale/di sinistra in patria, e non penso che questa sia una mera coincidenza. Di fatto, è più facile, tenuto conto delle condizioni che ho descritto, difendere i diritti umani nei paesi di altri popoli che unirsi alla lotta contro l’ineguaglianza negli Stati Uniti (o l’Italia, o la Germania, o il Regno Unito).

Anzi, la nuova battaglia per i diritti umani è stata accompagnata da una smobilitazione politica in patria. Ogni società umana produce gerarchie di ricchezze e potere e oggi questa produzione si attua non all’interno delle società, ma in modo trasversale a esse, nella società globale, dove le banche internazionali e le multinazionali operano con modalità tali da assicurare grandi ricchezze a pochi e determinare periodiche crisi per molti. Ai vecchi tempi, nello stato di cittadini attivi o potenzialmente attivi, questa tendenza persistente verso un ordinamento gerarchico era talvolta interrotta dalle ribellioni delle classi subordinate — agitazioni di cittadini precedentemente passivi che confluivano in movimenti sociali potenti e che davano vita a regimi socialdemocratici, welfare state, e disordini o perturbazioni nelle vecchie gerarchie.

L’idea dell’uno per cento e del novantanove per cento, lo slogan del movimento Occupy, non è un esempio di analisi di classe. È un appello populista, e potrebbe essere politicamente utile. Ma dovremmo usare prudenza nei confronti del populismo (proprio come dovremmo essere cauti nei confronti dell’anarchismo), perché non è una politica sostenibile, non cambia il mondo, ed è accessibile tanto alla destra quanto alla sinistra. Il lavoro di creazione di un movimento deve essere molto più concentrato. Deve essere opera di persone che sono per lo più in difficoltà, e deve derivare dal riconoscimento da parte loro delle proprie esigenze. Se deve esserci un movimento di classe di persone colpite o minacciate dal capitalismo neo-liberale, deve essere un movimento con obiettivi concreti e un programma specifico. Non so come dar vita a un movimento concentrato di questo tipo, ma è possibile prepararsi per la sua comparsa a livello intellettuale e di organizzazione.

Dobbiamo anche essere pronti a far fronte al pericolo che si nasconde lungo il nostro cammino, il pericolo che nelle nostre società diverse ed eterogenee il movimento che auspichiamo sia preceduto da una politica nazionalista e xenofoba nei confronti delle minoranze, degli immigrati, dei rifugiati. Questo è un altro motivo per il quale la gente di sinistra non dovrebbe mai prendere alla leggera il populismo. Ci occorre una democrazia sociale rinvigorita e militante, che parli la lingua di classe, i cui leader siano preparati, quando verrà il momento della ribellione, a unirsi, a organizzare, a esercitare pressioni sui ribelli verso una politica di solidarietà, di aiuto reciproco e di cooperazione transfrontaliera.
Jürgen Habermas ha scritto in modo ispirato dell’«abietto spettacolo della società capitalistica mondiale frammentata lungo le linee nazionali». Ma è nei nostri stessi frammenti, nei nostri stessi stati-nazione, che dobbiamo iniziare. Questo, a ogni modo, è ciò che credo: che se recupereremo la cittadinanza a casa nostra, scopriremo che il mondo non è tanto distante.
( Traduzione di Anna Bissanti)

Il testo qui pubblicato, ripreso da la Repubblica, è un estratto al centro di uno dei tre incontri che terrà tra Roma e Milano dal 6 all’8 maggio, promossi da Reset (rivista diretta da Giancarlo Bosetti), Luiss, Fondazione Feltrinelli e Centro Studi Americani. Info su www.reset.it

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