Non è vero che lo tsunami di Natale sia stato la più grave calamità a memoria di uomo, perché nel 1970 in Bangladesh un ciclone uccise 500.000 persone mentre nel 1976 un terribile terremoto in Cina fece 600.000 morti. Però è stato il più mediatico di tutti. Ed è stato così evidente e seguito proprio perché ha colpito il fenomeno più diffuso e globale del mondo occidentale: il turismo. E oggi, a distanza di tempo, si possono cominciare a misurarne le conseguenze.
Il turismo rappresenta insieme il tempo libero delle società più “avanzate” del capitalismo che il settore economico trainante per molte realtà “sottosviluppate”, anzi sviluppate nella dipendenza al modello dominante di capitalismo global-finaziario. Per quasi tutti i paesi in questione il turismo rappresenta la prima o la seconda fonte di valuta, con il 10 %del Pil in Thailandia e addirittura il 33% delle Maldive.
In questo contesto, il turismo lega in modo indissolubile la parti più avanzate del capitalismo con le aree più arretrate come lo Sri Lanka, dove il 25% della popolazione vive sotto la soglia della povertà. Questo legame distrugge le economie agricole precedenti e soprattutto modifica radicalmente il territorio, trasformando in speculazione edilizia e alberghiera una sottile fascia di terra, che rimane così totalmente squilibrata rispetto al clima e al ciclo delle acque.
Queste realtà sociali e territoriali vengono risucchiate nei vortici di uno sviluppo tardo capitalista di cui il turismo è l’espressione più evidente. Di qui, rapida crescita edilizia e sfruttamento del territorio con gestione difficile dell’equilibrio bio-climatico.
In questo contesto il turismo è insieme fattore di reddito e di costruzione della dipendenza: per cui si accentua la globalizzazione ma si riduce la capacità della crescita autonoma di queste economie. Questo il primo motivo della diversità di questo evento, lo tsunami recente, rispetto a quelli precedenti, mentre il secondo motivo è che la dimensione del fenomeno è sovranazionale, anzi planetaria.
A confronto infatti con il terremoto in Cina o al ciclone in Bangladesh questo evento è strutturalmente globale, ed ha colpito le zone più popolose del globo. Tra i 300 e 400 milioni di persone vivono nelle zone in qualche modo interessate dal cataclisma e questo rende evidente la debolezza dello Stato-Nazione nel gestire e governare la “globalità”, dalla finanza al cataclisma. In questo evento drammatico risulta evidente come i fenomeni globali, come la finanza e la conseguente delocalizzazione manifatturiera, incidano pesantemente nella dinamica della dipendenza e della morfologia del capitalismo subalterno. E’ evidente come Reebok o Nike, che ora hanno quote elevate di produzione in Thailandia e in Indonesia, possono guardare ad altri mercati produttivi ed è altresì evidente come la geografia degli aiuti possa favorire nuove geografie della dipendenza. E’ comprensibile dunque la preoccupazione dell’India nel controllare gli aiuti sia per evitare spionaggio militare sia per governare i propri confini nazionali.
Qui si apre proprio una contraddizione violenta tra il ruolo degli stati nazionali e le complesse forme della dipendenza. Un intreccio di fenomeni sia climatici che relativi alla morfologia del capitalismo rendono esplicita la crisi dello stato nazione come garante dei confini e della sicurezza nazionale. A parte l’India, che correttamente pretende di gestire direttamente l’intervento sul suo territorio, risulta la crisi anche organizzativa degli stati nazionali.
Non solo, ma questa catastrofe è differente dalle altre appunto a causa dalle altre appunto a causa della presenza di turisti, epifania della nuova dipendenza, la dimensione sovranazionale obbliga a rendere operativa la questione degli interventi globali. Sicuramente, in questo contesto l’Onu è apparsa come un soggetto garante, però burocratico, per cui il movimento no global e la rete delle ong dovrebbero, come hanno cercato di fare, aprire il fronte degli interventi dal basso, magari di azione globale.
Si pone qui il vero problema, cioè l’essere apparentemente solo le multinazionali, ossia la forma-impresa, i soggetti che si arrogano il diritto di agire “globalmente”, definendo strategia della geopolitica della fabbrica nel mondo e quindi la sua morfologia sociale. In questo contesto appare debole lo stato nazionale, come conferma paradossalmente il comportamento dell’India, e ancor embrionale il movimento delle Ong.
C’è il comando capitalista, con le forma dell’impresa che vorrebbe essere l’unico paradigma del globale, ci sono le strutture burocratiche come l’Onu, ma manca un’azione dal basso che rappresenti anche dentro alle situazioni di crisi ed a livello globale i soggetti sociali. Lo scontro è proprio sul dispositivo di comando, di rappresentazione del globale, di chi è Gaia, il pianeta Terra? La forma impresa non può essere la sintesi del globale, perché perde e distrugge la geografia del sociale, ma qui sta la nostra debolezza.
Oggi ci sono forse solo le Ong che praticano dal basso in modo disorganico e pulviscolare un’azione che interagisce con il tessuto sociale. Si tratta di capire se la rete delle Ong possa tramutarsi in uno dei tanti controlli del capitale o essere un tassello del tessuto autonomo con cui si esprime e realizza l’autonomia dei soggetti sociali, capaci di leggere e tradurre la complessità di Gaia, del suo territorio e dei suoi problemi.
Attorno allo tsunami e alle sue conseguenze si apre dunque la geografia del “sottosviluppo”, delle migrazioni, della dipendenza e della necessità di una nuova internazionale non del turismo ma dei soggetti sociali che sappia accumulare sapere e identità anche partendo proprio dai cataclismi. Di che è Gaia? Non certo del capitale.