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Luciano Gallino
L’Italia fuori legge
21 Febbraio 2009
Scritti 2009
Aspetti di una situazione drammatica, che ha corroso la civiltà dell’Italia attraverso l’ideologia dei suoi abitanti. La Repubblica, 21 febbraio 2009.

Dall’ambiente al fisco. Dal lavoro alla criminalità Come un paese, fra violazioni e inadempienze, scende molti gradini nella scala della civiltà. Da vent’anni è noto che il 17 per cento del Pil è prodotto dall’economia sommersa Il triplo di ciò che accade nelle società sviluppate. Le strade che escono da Roma o da altre grandi città sono affiancate per chilometri da case costruite senza licenza

Si possono utilizzare diverse immagini allo scopo di definire il nocciolo del caso Italia. Tra le tante ho scelto l’immagine d’una società che con i suoi comportamenti collettivi si pone molto al di sotto della lex, la Legge con la maiuscola, quel sistema di rapporti tra individui e collettività che è considerato un elemento essenziale della condizione civile nell’età moderna ed ha il suo sommo nella Costituzione. Nella lunga scala che porta a una condizione civile la società italiana ha salito molti gradini, ma altri ne ha discesi. Al presente si colloca forse a uno dei livelli più bassi della sua storia, non foss’altro perché i rapporti che la legge dovrebbe regolare onde far procedere la società verso una ideale condizione civile diventano sempre più complessi.

Vi sono vari modi per restare al di sotto della lex, la legge in generale. Il primo consiste nella violazione in massa delle particolari leggi in vigore. Un secondo va visto nell’evitare di elaborare leggi che da generazioni sono pubblicamente riconosciute come indispensabili. Un terzo si materializza nella elaborazione di leggi incivili, nel senso che ostacolano, piuttosto che favorire, la salita della scala che porta una società a una condizione civile. Un ultimo modo consiste nel non attuare le leggi che ove lo fossero porterebbero espressamente in tale direzione, a partire da vari articoli della Costituzione concernenti il lavoro. Tratterò in breve dei primi tre, per soffermarmi poi più ampiamente sull’ultimo.

La violazione di leggi vigenti compiuta in massa dai cittadini abbraccia diversi capitoli. Tra i principali vanno collocati il controllo del territorio esercitato dalla criminalità organizzata; la devastazione del territorio stesso ad opera di comuni cittadini mediante costruzioni abusive; l’evasione fiscale, e la corruzione. Il monopolio dell’uso della forza spetta soltanto allo Stato, ricorda dottamente qualche ministro dopo ogni fatto di sangue. Tuttavia chiunque svolga una qualsiasi attività economica nel territorio a sud del 41° parallelo, si tratti d’un piccolo negozio o d’una grande impresa, d’un cantiere minimo per riparare un muro o di lavori autostradali, sa benissimo che si tratta come minimo di un duopolio, e che il secondo polo è assai più pervasivo, minaccioso e rapido nell’agire punitivamente che non il primo. Ora, la presenza d’un potere territoriale che si contrappone collocandosi, in termini di forza, quasi sullo stesso piano allo Stato era nota, discussa in Parlamento e oggetto di leggi, un buon secolo addietro. Domanda: la società, lo Stato, la politica non sanno, oppure bisogna concludere che non vogliono, riappropriarsi di un terzo del territorio nazionale?

Quanto all’evasione fiscale come pratica collettiva: da vent’anni è noto che circa il 17 per cento del Pil italiano è prodotto dall’economia sommersa. Che esiste anche in altri paesi, ma la quota ad essa imputabile da noi è almeno tripla tra le società sviluppate. Nell’economia sommersa lavorano circa due milioni di persone fisiche in posizione totalmente irregolare, più un milione di "unità di lavoro" statistiche formate da tre milioni di persone che svolgono un secondo lavoro non dichiarato. Il 17 per cento del Pil vale oggi 270-280 miliardi. L’evasione fiscale e contributiva è stimabile in circa 90 miliardi sottratti ogni anno a scuola, sanità, previdenza, infrastrutture. In realtà l’ammontare dell’evasione è assai superiore, perché ad essa andrebbe aggiunta la quota dovuta al 50 per cento delle società di capitali che ogni anno dichiara di non avere avuto utili; alle banche e alle imprese che hanno centinaia di sussidiarie in paradisi fiscali create per sfuggire al fisco; alla manipolazione da parte delle medesime dei cosiddetti prezzi di trasferimento tra società facenti capo alla stessa holding; alle legioni di professionisti, commercianti e artigiani che dichiarano per intero il fatturato della loro microimpresa, e però redditi personali trascurabili. In qualunque altro paese dell’eurozona, per non parlare degli Stati Uniti, forse la metà dei contribuenti italiani sarebbe sotto processo per frode fiscale. (...)

La devastazione economica e civile operata sul territorio dalla criminalità organizzata è visibile - stragi a parte - soltanto a chi deve a piegarsi ad essa. È invece visibile a tutti la devastazione fisica e paesaggistica del territorio operata dall’abusivismo edilizio, cui collaborano efficacemente milioni di cittadini e migliaia di imprese. Non v’è quasi regione, tratto di costa, o valle alpina che siano stati risparmiati. Le strade che escono da Roma come da altre grandi città sono affiancate per decine di chilometri, in ogni direzione, da case abusive. Sul totale Italia, si presume siano centinaia di migliaia le costruzioni fuori legge che sono state condonate; altre sono in paziente attesa. Tutto ciò ad onta del fatto che i pubblici poteri non abbiano mancato di far sentire la loro forza: negli ultimi anni, infatti, circa l’1 per cento delle costruzioni abusive è stato demolito.

La devastazione compiuta dagli abusi del costruire è stata accentuata ed estesa dall’assenza di leggi ad hoc: ossia leggi sulla pianificazione territoriale e sulla la gestione idrogeologica del territorio. Chiunque percorra la penisola non può che giungere ad una conclusione: gli italiani hanno collettivamente fatto del loro paese il più brutto d’Europa. Lo hanno anche reso il più pericoloso per quanto riguarda inondazioni, allagamenti, incendi, frane e ogni genere di crolli. (...)

Tra i dispositivi di legge che, ove fossero attuati, farebbero invece salire la società italiana verso una condizione più civile vi sono gli articoli della Costituzione compresi nel Titolo III. Gran parte della legislazione italiana sul lavoro degli ultimi decenni li ha ignorati, se non anzi formalmente violati. La sola proliferazione dei contratti atipici, ormai una quarantina, appare in contrasto con ciascun articolo del predetto titolo. Si prenda l’art. 36: «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge». La riduzione del reddito conseguente all’alternanza di periodi di occupazione e disoccupazione nel corso dell’anno, propria dei lavori atipici, e fatta drammaticamente risaltare dalla crisi in corso, contrasta con il primo comma di detto articolo, così come la direttiva della Commissione Europea, recepita dai governi italiani, la quale non stabilisce, ma lascia intendere che la giornata lavorativa possa essere allungata sino a 13 ore. Oppure si veda l’art. 41: «L’iniziativa economica privata� non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana»; il sistematico venir meno delle sicurezze dell’occupazione, del reddito, della previdenza e delle altre, connaturato alla diffusione delle occupazioni precarie, è in palese conflitto con tale articolo. O si legga ancora l’art. 46: «Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende». Tale forma di collaborazione dei lavoratori alla gestione delle aziende è in realtà oggi resa impossibile, in forme pur minime, dalla frammentazione dei processi produttivi, e dalla concomitante moltiplicazione delle tipologie di contratto e di categoria d’appartenenza che si oggi ritrova in ogni azienda. Resta da chiedersi quando mai l’attuazione delle indicazioni programmatiche del titolo III della Costituzione troverà posto nell’agenda della politica italiana.

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