Intervista di Giorgio Salvetti alla sociologa Chiara Saraceno: «Una cosa è certa, non è la rigidità o il costo del lavoro che creano disoccupazione, ormai lo dice anche l’Ocse che ha sempre sostenuto la flessibilità. Il problema vero è che non c’è domanda e le aziende italiane non hanno investito in ricerca e hanno perso competitività. Questo non fa che generare e perpetuare la crisi». il manifesto,
3 maggio 2014, con postille
L’Italia è un paese molto disuguale a più livelli. E’ questo il quadro tracciato dalla sociologa Chiara Saraceno dopo l’ennesima conferma arrivata dai dati del Censis.
E’ sempre più chiaro: la crisi non colpisce tutti allo stesso modo ma si abbatte con maggiore forza sui più deboli.
I dati del Censis sono simili a quelli della Banca d’Italia sul bilancio delle famiglie. Per la Banca d’Italia il 10% delle famiglie più abbienti possiede il 46% della ricchezza netta del totale delle famiglie italiane. Nei primi anni delle crisi c’era stata l’impressione che a pagare di più fosse chi aveva rendita investita dato che si trattava di una crisi finanziaria. Ma queste persone in realtà hanno presto recuperato mentre sono crollati i redditi da lavoro.
L’Ocse conferma che nel 1981 l’1% dei redditi più alti raggiungeva il 6,9% del totale dei redditi degli italiani mentre nel 2012 la percentuale è salita al 9,4%. E la ricchezza dell’1% più abbiente sarebbe addirittura salita al 16% del totale, si tratta di una tendenza che si è registrata in tutto il mondo. A che punto è l’Italia?
In Francia e in Spagna ad esempio è andata diversamente, la crisi non ha accentuato le differenze come è avvenuto in Italia. Il nostro è un paese molto disuguale. Oltre alle differenze di ricchezza e reddito c’è una grande differenza territoriale. E a sua volte nelle zone più povere del sud il divario tra ricchi e disagiati è ancora maggiore. Si tratta quasi di un indicatore di sottosviluppo. Per non parlare di tutte le altre differenze: tra donne e uomini, tra giovani e meno giovani, tra chi ha figli e chi non ne ha, tra garantiti e non garantiti. E in ognuna di queste categorie schematiche a loro volta si intrecciano tutte le possibili disparità. I giovani senza lavoro non sono tutti uguali, c’è chi ha alle spalle una famiglia di un tipo chi di un altro, chi è al sud e chi è al nord e così via.
Come si può uscire da questo combinato disposto di ingiustizie che si intrecciano?
Il problema dell’Italia è la scarsa mobilità sociale. Da noi l’origine familiare è ancora molto predittiva del futuro sia educativo che lavorativo di un ragazzo. Tutto è fermo, bloccato, piove sempre sul bagnato. Nessuno riesce a fare la propria parte per correggere questa situazione. Non ci riesce la scuola colpita dai tagli, non ci riesce il welfare e non ci riescono le imprese troppo spesso sedute sulla rincorsa a salari sempre più bassi.
Ma le disuguaglianze sono causa o effetto della crisi?
La tesi che siano all’origine della crisi è sempre più condivisibile, specie dove queste differenze sono, appunto, bloccate e permanenti. In Italia non solo i ricchi sono sempre più ricchi, ma sono sempre le stesse persone.
I mitici 80 euro di Renzi possono cambiare le cose?
Non sono certo risolutivi anche se io non ci sputo sopra. Faccio solo notare che sostengono il reddito dei lavoratori poveri, non dei poveri, e che non tengono conto del fatto che magari in una famiglia dove tre persone lavorano e guadagnano meno di 1.500 euro arrivano 240 euro in più, e in una monoreddito con un solo stipendio poco sopra i 1.500 euro non arriva nulla. In questo senso anche questa manovra non è centrata sulla vera povertà e produce iniquità.
Porterà almeno una crescita dei consumi come dice il Censis?
Mi sembrano dati ottimistici, faccio notare che ultimamente è leggermente cresciuto il risparmio. Significa che chi ha un minimo di margine, anche a costo di tagli, risparmia perché non crede più nella famosa luce alla fine del tunnel.
Il dl Poletti peggiorerà le cose?
Diciamoci la verità, purtroppo regola una situazione di fatto del mercato del lavoro italiano. L’imprenditore che non vuole assumere riesce sempre a non farlo. Ma una cosa è certa, non è la rigidità o il costo del lavoro che creano disoccupazione, ormai lo dice anche l’Ocse che ha sempre sostenuto la flessibilità. Il problema vero è che non c’è domanda e le aziende italiane non hanno investito in ricerca e hanno perso competitività.
Postilla
Chi sa qualcosa della storia d'Italia sa che il "disinteresse" per la ricerca e l'innovazione da parte della grande industria "moderna e avanzata", e la conseguente perdita di compretitività nacque quando i grandi gruppi capitalistici italiani, a partire dalla Fiat della famiglia Agnelli, diventarono particolarmente interessati al lucro che si poteva ottenere investendo nelle attività finanziarie e immobiliare anziché in quelle industriali. Quando cioè legislatori e anministratori pubblici consentirono loro di sfruttare i pascoli della rendita anziché gli impervi sentieri del profitto.