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Tommaso Rodano e Andrea Segre
L’Italia che sfrutta
22 Agosto 2016
Lavoro
«Basilicata, Calabria, Puglia: i braccianti spremuti per pochi euro all’ora e lasciati vivere in baracche, stalle e porcili». E il PD latita.
Articoli di T. Colluto e L. Musolino, T. Rodano e A.Segre

. Il Fatto Quotidiano, 22 agosto 2016 (p.d.)

L’ESTATE ETERNA

DEI NOSTRI SCHIAVI
di Tiziana Colluto e Lucio Musolino

Quest’estate, per adesso, sono mancati i morti di caldo: i martiri dell’uva, del pomodoro e dei cocomeri. Per il resto nei campi del Sud lo scenario è lo stesso della passata stagione, di quella prima e di quella prima ancora: il caporalato resta una forma di schiavitù tollerata. Tra Calabria e Basilicata, tra le vigne e i campi, tra le tendopoli, i porcili e le stalle si ripete ogni giorno, in silenzio, la stessa grande vergogna italiana.

Lecce: “Poco pomodoro, uguale poco lavoro”
Abdul va e viene tra le baracche, con un bicchiere in mano: “Una moneta, mi serve per tornare a casa”. Casa è la tendopoli di Rosarno, da cui il ghetto di Nardò, nel leccese, sembra lontano una distanza infinita quando si è senza un soldo: quest’anno, per molti, l’impiego tra i filari non c’è neanche a pagarlo ai caporali. Poco pomodoro, poco lavoro. Ahmed spunta da dietro un ulivo: “Io dormo qui da nove giorni e non mi hanno chiamato una volta. Il ‘capo nero’ è arrabbiato con me, perché gli ho detto che con questi prezzi solo lui mangia”.

I costi sono quelli fissi: 5 euro al giorno per il trasporto; 3 euro per il panino; 1,50 euro la cresta su ogni cassone che al lavoratore frutta appena 3,50 euro. Ma non c’è posto qui per la ribellione. Tra gli schiavi della terra, nulla è cambiato in Puglia. Solo il sole meno severo non ha reso anche questo l’anno di Mohamed, Zaccaria e Paola, i tre braccianti schiantati dal caldo e dalla fatica la scorsa estate.

L’ordinanza che impedisce di restare sui campi dalle 12 alle 16, voluta dal sindaco di Nardò, Pippi Mellone, ha un limite intrinseco: si applica solo al territorio neretino. Un metro più in là, a Copertino come nel resto della regione, è ancora far west. È mutato solo ciò che non si vede. Le prime file della catena di comando si sono inabissate: i caporali lasciano il lavoro sporco ai capisquadra, che si confondono con i braccianti, vivono nel ghetto con loro, li reclutano tramite Whatsapp, insieme raggiungono in auto le campagne. All ’apparenza, quasi un’autogestione. Nella realtà, è l’organizzazione ad essersi fatta sofisticata, liquida. Perché la controffensiva della magistratura qui è stata, paradossalmente, una lezione al contrario: dopo l’operazione Sabr, che quattro anni fa ha portato in carcere 16 persone tra imprenditori e intermediari, il cartello del caporalato ha imparato in fretta a non esporsi. E ora rischia anche di farla franca: troppo complicato far reggere in giudizio le accuse di riduzione in schiavitù e tratta di persone. “Se dovesse andare male il processo nato da quell’inchiesta – ammette il procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta – si dovrà ricominciare da capo”. Il ddl sul caporalato approvato in Senato tre settimane fa a chi è in trincea fa storcere il naso: “Per me, è una schifezza, – dice Motta – quella norma ha un errore di impostazione. Parte dalla necessità di punire l’intermediario e solo in casi particolari il datore di lavoro. Invece, la legge avrebbe dovuto colpire in primis chi utilizza i braccianti in condizioni di grave sfruttamento e poi, per concorso, gli altri”.

Trecento chilometri più a nord, nel foggiano, c’è lo stesso scenario. Una città di baracche di plastica e cartone. Un inferno esasperato: sono quasi 2mila i migranti nel “Gran ghetto di Rignano”, sotto sequestro dopo l’incendio che lo ha devastato, il 23 marzo. Lo smantellamento del campo, promesso a più riprese dal governatore Emiliano, tiene tutti in ansia: “Per me va bene – dice Amadou – perché qui siamo senza acqua né luce e le persone vengono sfruttate, ma devono darci un’alternativa vera”. Hanno proposto una tendopoli a San Severo, è lontana 30 chilometri. “Lo sgombero ora è impensabile. Avverrà in inverno, quando gli stanziali sono meno di 200”, assicura Stefano Fumarulo, dirigente della Sezione Politiche per le migrazioni della Regione Puglia. I progetti di ospitalità in un campo container adeguato sono destinati, anche quest’anno, ad essere rimandati al prossimo. Forse: i 4 milioni di euro che si attendevano dal governo, dopo la firma del protocollo di lotta al caporalato di fine maggio, non sono arrivati. Fermi anche i 500mila euro stanziati da Bari per incentivi all’ospitalità e gli altrettanti per il trasporto: le aziende non si sono fatte avanti. E degli 800mila euro impegnati tre anni fa per rafforzare i controlli, ne sono stati spesi appena 48mila. Nella lotta al caporalato, neanche i soldi, quelli pubblici, fanno la loro parte. “Il tema vero è l’avviamento al lavoro e qui va sempre peggio – spiega Giuseppe Deleonardis, segretario generale Flai Cgil Puglia. A Lecce, a fronte di 200 iscritti nelle liste di prenotazione da cui le imprese possono attingere, lo scorso anno ci sono state 80 assunzioni, quest’anno appena 40. A Foggia, su 800 iscrizioni, zero contratti ”. Meglio pescare gli schiavi nell’economia illegale.

Le stalle di Cosenza e le tende di Gioia Tauro
San Ferdinando, Calabria. Siamo nell’area industriale a ridosso del porto di Gioia Tauro. “Non ho visto nessun cambiamento rispetto a quando è morto il fratello Sekine Traore. Nessuno ci ha dato una mano”. Sono passati due mesi dal giorno in cui un colpo di pistola, sparato da un carabiniere intervenuto a sedare una rissa, ha ucciso un ragazzo del Mali all’interno della baraccopoli dei braccianti. I “fantasmi neri” non hanno voglia di parlare. Qualcuno lo fa ma non vuole dire il suo nome. È un ragazzo del Ghana. Vive col figlio nell’indegna tendopoli di Rosarno. “Presto – anche lei – dovrà essere smantellata. Lì, di fronte, costruiranno quella nuova”.

Decisione della prefettura. La Regione ha stanziato 300mila euro per acquistare le tende e far vivere maniera dignitosa i migranti stagionali che in Calabria raccolgono le arance. All’epoca, il governatore Mario Oliverio aveva parlato di “ghetto”. Sono trascorsi oltre sei mesi ma quel ghetto è sempre lì.

In questi giorni la Protezione civile sta gestendo l’appalto per l’acquisto di 44 nuove tende che ospiteranno 440 migranti. Pochi: d’inverno la tendopoli di San Ferdinando esplode con oltre mille stagionali, protagonisti già nel gennaio 2010 di una violenta rivolta. I progetti di accoglienza diffusa previsti nel protocollo tra prefettura e Regione non sono mai partiti, i migranti che non troveranno posto nella tendopoli saranno costretti a costruire nuove baracche.

“Adesso siamo solo 200, – spiega uno di loro – molti sono andati a Foggia e in Campania per la raccolta dei pomodori, ma torneranno”. Il Comune di San Ferdinando è sciolto per mafia. Un funzionario riconosce: “Nella nuova tendopoli i posti sono troppo pochi”. E come si fa? “Me lo domando pure io. – risponde. Succederà la rivoluzione. Con quale criterio assegneranno le tende? E gli altri migranti che faranno? La baraccopoli bis?”.

Altrove la situazione è ancora più tragica. Nella piana di Sibari, un’inchiesta della guardia di finanza (che ha denunciato 49 persone) ha svelato gli intrecci tra la ‘ndrangheta e un caporale pachistano, che in un anno è riuscito a guadagnare circa 250mila euro, in parte finiti nelle casse della cosca locale. Era il dominus a cui si rivolgevano gli imprenditori agricoli per recuperare manodopera illegale. Sequestrava i documenti dei lavoratori e li costringeva a vivere in condizioni oltre il limite: le loro “case”erano stalle e porcili. Dormitori sommersi dalla paglia e dall’immondizia. Esseri umani trattati letteralmente come bestie.

In Basilicata la storia non è diversa. La linea di chi amministra è una sola: smantellare le baracche. Per il resto, nessuno ha chiaro come contrastare il caporalato. A Boreano, una frazione di Venosa, in provincia di Potenza, l’accampamento dei braccianti è stato distrutto e i migranti trasferiti nei centri di accoglienza gestiti dalla Croce Rossa. “I lavoratori non vogliono andare lì perché sono zone molto scomode e senza alcun servizio. – spiega Giulia Bari, responsabile di Medu (Medici per i diritti umani). Non hanno i letti, dormono sulle brandine da campeggio e per mangiare hanno dei fornetti elettrici appoggiati sui tavoli di plastica. Non essendoci una rete di trasporto che colleghi i centri ai campi, saranno sempre i caporali a organizzare le squadre per andare a lavorare”. E poi ci sono le “liste di prenotazione”. I migranti che vogliono accedere al centro di accoglienza devono iscriversi: “La scelta di chi lavora è tutta nelle mani del caporale. È lui che comunica i nomi dei prescelti al datore di lavoro. Il caporale, insomma, fa le squadre”.

Il vecchio campo è smantellato, avanti il prossimo. “Vedrai – spiega Vincenzo Esposito, della Flai-Cgil – da qui a 20 giorni costruiscono una nuova baraccopoli altrove. Bisogna sottrarre questi lavoratori ai caporali, il resto serve a poco”.

“UNA BATTAGLIA DI
LAVORO E DIRITTI MA
LA SINISTRA NON C'E'”
di Tommaso Rodano e Andrea Segre

“Le condizioni pesantissime dei braccianti sono il punto di convergenza di due grandi assenze di diritti nella nostra società: quelli di chi lavora e quelli dei migranti economici”. Andrea Segre ha dedicato agli uni e agli altri – lavoratori e migranti – buona parte del suo impegno nella sua precoce e brillante carriera di regista. “Lo Stato”, aggiunge, “ha dimostrato di essere totalmente incapace di intervenire nel mercato del lavoro”.

Lei ha girato il documentario “Il sangue verde” a Rosarno nel 2010. Sei anni dopo non è cambiato nulla.
È tutto immobile, non solo a Rosarno. Sono stato a Vittoria, in provincia di Ragusa, dove c’è uno dei più grandi mercati agricoli d’Europa di piccoli pomodori, i datterini. Un’enorme spianata disseminata di serre, dove lavorano tra i 3 e i 6 mila braccianti. Molte donne, soprattutto tunisine e romene. D’inverno vivono, lavorano e dormono dentro le serre. Sono stato accompagnato dagli operatori della Caritas, pensavano fossimo della parrocchia. È l’unico modo per frequentare questi posti: se uno parla di diritti fa una brutta fine.

Nessun controllo?
Nulla. Nessuno dei sindacati, né delle amministrazioni pubbliche ha la legittimità di entrare lì dentro. In un luogo che produce ortaggi per un mercato enorme, che genera contrattazioni milionarie e coinvolge la grande distribuzione. Un’economia gigantesca che non ha bisogno di diritti: tra il mercato e i braccianti non c’è nessun filtro, nessuna mediazione.

Il Senato ha approvato un ddl contro lo sfruttamento agricolo. Secondo il procuratore di Lecce è una legge che punisce solo i caporali e non le aziende agricole. È d’accordo con il suo giudizio?
Sì. Quella norma è un controsenso. I caporali, come gli scafisti, ovviamente non sono dei santi. Ma colpire gli “utilizzatori finali” della catena di sfruttamento non è sufficiente per risolvere questi fenomeni. È un paradosso, un’ipocrisia: lo Stato fa una legge per fermare chi sfrutta un’assenza dello Stato stesso.

Come si possono portare queste persone fuori dalla schiavitù?
I diritti nell’agricoltura italiana sono stati ottenuti nel momento in cui i braccianti si sono auto organizzati. I lavoratori stranieri ancora non riescono a farlo, o gli viene impedito. E i sindacati italiani sono molto indietro nella loro tutela. A tentare di rappresentarli restano le associazioni sul territorio, a Nardò, come a Rosarno e in Campania. A Caserta il 20 giugno sono scesi in piazza 6 mila braccianti africani. Un numero enorme, ma chi lo sa? Sembra non se ne sia accorto nessuno.

Una rimozione collettiva.
A vigilare su Vittoria, per migliaia di braccianti, ci sono solo tre ispettori del lavoro. Tre. Lo Stato dia un segno di vita. Lo dico come provocazione: assuma 2mila ispettori del lavoro africani.

Si parla di diritti, lavoro, civiltà. Dov’è la sinistra italiana?
La risposta è semplice: il bracciante non porta voti. Una volta un senatore del Pd mi ha detto: “Noi non siamo una ong”. Lo considerano un argomento umanitario, invece è una questione di diritti civili e sociali. Soltanto il diritto di voto può resituire a queste persone la possibilità di essere rappresentate.

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