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Bernardo Valli
L´Iran, Bush e il pantano iracheno
10 Febbraio 2007
Articoli del 2006
L'inquietante scenario mediorientale dopo la gestione americana "da autisti ubriachi". Da la Repubblica, 20 aprile 2006 (m.p.g.)

La questione iraniana è di per sé preoccupante. Anzi angosciante. Mahmud Ahmadinejad, il presidente eletto di Teheran, auspica la distruzione di un paese vicino (Israele), minaccia di sguinzagliare kamikaze nel mondo giudeo-cristiano che gli è ostile, e al tempo stesso annuncia (l´11 febbraio) di possedere la tecnologia necessaria per dotarsi di strumenti nucleari. Il deterrente di cui dispongono le potenze occidentali, in particolare gli Stati Uniti, può distogliere, ben inteso, i successori di Ruhollah Khomeyni dall´idea di poter usare un giorno le eventuali armi atomiche in loro possesso, o di fornirle a dei terroristi. Resta pur sempre inquietante la prospettiva di vedere tali ordigni di distruzione nelle mani di un regime di quel tipo (la cui credibilità è già inquinata dall´intenzione di violare il trattato di non proliferazione sottoscritto dall´Iran). Ma all´inquietudine alimentata dalla prospettiva di vedere l´Iran teocratico accedere al rango di potenza nucleare, se ne aggiunge un´altra: quella di vedere la (quasi) esclusiva responsabilità di risolvere la questione affidata a coloro che hanno gestito la vicenda irachena come degli «autisti ubriachi». (L´ espressione è di Thomas L. Friedman del New York Times). Stando a quanto ha scritto (sul New Yorker) Seymour Hersh, autore di affidabili inchieste giornalistiche, quegli « autisti ubriachi» starebbero considerando l´eventuale uso di armi atomiche tattiche per distruggere gli impianti sotterranei nucleari iraniani.

Fondata o non fondata, smentita o non smentita, la semplice ipotesi suscita sgomento. Altri commentatori americani, abitualmente cauti nell´esprimere opinioni, non escludono del tutto che l´amministrazione Bush, paralizzata, boccheggiante nel pantano Iraq, adotti un vecchio proverbio, secondo il quale se hai preso male una curva non devi schiacciare il freno, perché rischieresti di uscire di strada, meglio schiacciare l´acceleratore. Per Bush, significherebbe estendere l´avventura mediorientale all´Iran.

Visto attraverso il prisma iracheno il bilancio della politica americana in Medio Oriente risulta un lungo elenco di insuccessi. Sarebbe di cattivo gusto fare del sarcasmo mentre il terrorismo e il controterrorismo uccidono ogni giorno gente inerme. Ma non assomiglia a una beffa il ritrovarsi davanti agli stessi fantasmi tre anni dopo l´invasione? Un´invasione giustificata dalla necessità di neutralizzare le armi di distruzione di massa in mano a Saddam Hussein; rivelatesi inesistenti nella valle del Tigri e dell´Eufrate; ma adesso rispuntate come dannati, maledetti fantasmi nel vicino Iran. Quindi l´inseguimento rischia di ricominciare, sia pure sotto un´altra forma. Non ci sono più marine da mobilitare, ma negli arsenali non mancano le bombe.

Altro motivo della spedizione irachena era ed è la democrazia. La democrazia da seminare, come il grano o il granoturco, nel mondo musulmano che non ha conosciuto né la rivoluzione americana né quella francese. La messe, al primo raccolto, assomiglia tuttavia più a una guerra civile che a una democrazia. Le elezioni ci sono state, in gennaio e poi in dicembre del 2005. È stata persino approvata, con un referendum, la Costituzione federale. Ma gli iracheni non hanno votato per questo o quel programma politico. Le schede sono servite per dichiarare l´appartenenza al proprio gruppo etnico e confessionale. In una società senza uno Stato in grado di garantire la sicurezza non può nascere la democrazia.

Nell´Iraq in preda alla violenza, dove neppure l´esercito della Superpotenza occupante è in grado di mantenere l´ordine, uomini e donne si rifugiano nel clan, nella tribù, nell´etnia, nella religione, che diventano fortezze dalle quali difendersi o attaccare gli avversari. Quattro mesi dopo le ultime elezioni politiche, che hanno dato vita a un Parlamento paralizzato, non c´è ancora quello che doveva essere il primo governo costituzionale della Repubblica democratica irachena. Nessuno riesce a scalzare il vecchio, inefficiente primo ministro, Ibrahim al-Jaffari, benché egli non riesca a trovare una maggioranza nel nuovo Parlamento. Il panorama politico uscito dalle elezioni è frantumato in Sciiti, Sunniti e Curdi. Spesso divisi al loro interno in partiti, correnti e clan. Alle spalle dei quali si muove una miriade di milizie armate che formano come una cornice attorno alla guerra civile. Un mosaico che si compone e scompone, sotto lo sguardo smarrito degli americani impacciati sotto il peso di armi e di idee non adeguate all´Oriente che volevano convertire alla democrazia.

Tre anni dopo l´invasione anglo-americana, l´Iraq sprofonda sempre più nella barbarie. Decine di innocenti, a volte centinaia, quando le esplosioni avvengono in un mercato o sul sagrato di una moschea, sono dilaniati dalle autobombe guidate da kamikaze. Continuano i rapimenti criminali o politici che fanno fuggire medici, avvocati, ingegneri, commercianti nei paesi vicini, in Giordania, in Siria, in Arabia Saudita. Si moltiplicano le bande armate, guidate da signori della guerra o da capi clan incaricati di difendere una tribù, un quartiere, una qualsiasi attività economica, dagli assassini che colpiscono per denaro o per conto di una comunità etnica o religiosa. Il sospetto si insinua dappertutto. In tutti gli ambienti.

Oltre agli attentati spettacolari, ogni giorno si trovano cadaveri nei quartieri misti di Bagdad, dove un tempo convivevano in pace sciiti e sunniti. Per spingere una comunità o una famiglia ad andarsene viene ucciso uno dei suoi componenti. È una violenza che fa in media una ventina di morti quotidiani ma che passa quasi inosservata nella metropoli. È una pulizia etnica silenziosa. È un veleno che alimenta quella che ancora viene chiamata una guerra civile «non dichiarata», perché i capi religiosi, sciiti e sunniti, nella loro ufficiale saggezza, si guardano bene dal proclamare nelle moschee. Non stupisce che molti rimpiangano la dittatura sanguinaria di Saddam Hussein, il tiranno di cui si celebra con fatica il processo, nella Zona Verde, quella bunkerizzata in cui si trovano ministri, deputati, diplomatici (in particolare quelli americani), e non pochi giornalisti stranieri. Ai tempi di Saddam le strade erano sicure e la donne non erano costrette a coprirsi i capelli con uno scialle nero. L´Iraq occupato dal più potente esercito occidentale è il Paese meno sicuro per un occidentale. C´è stato un momento, dopo lo scioglimento del regime di Saddam, in cui si poteva assaporare una insolita, promettente libertà di espressione.

Non era ancora la democrazia. Ma ne poteva essere il preludio. La violenza, l´insicurezza, l´odio hanno fatto abortire quel tentativo. Hanno polverizzato il ricordo delle prime emozionanti elezioni, quando uomini e donne andavano alle urne affrontando le minacce dei terroristi.

Quest´ultimi, provenienti da numerose contrade dell´Islam, si sono annidati nel Paese. Si sono alleati o si sono imposti all´insurrezione armata dei sunniti, i quali rimpiangono i tempi in cui, pur essendo minoritari, loro, i sunniti, governavano il Paese. Il prisma iracheno non rivela soltanto il fallimento dell´impresa americana in Mesopotamia, aiuta anche a decifrare la crisi iraniana. La presenza militare in Iraq riduce la capacità dissuasiva di Bush nei confronti di Ahmadinejad, e delle sue ambizioni nucleari. Il regime sciita di Teheran esercita una forte influenza sulla comunità sciita irachena, che è stata l´alleata, non solo obiettiva, della coalizione guidata dagli Stati Uniti. Le ripetute elezioni non hanno dato alla luce una democrazia, ma hanno condotto al legittimo riconoscimento della maggioranza sciita (55 per cento della popolazione), a lungo frustrata dallo strapotere sunnita. Da qui una complicità, sia pur tormentata, tra la comunità riabilitata e le forze della coalizione. L´esercito iracheno che si batte a fianco degli americani contro l´insurrezione armata, è composto da curdi, ma soprattutto da sciiti.

Al tempo stesso il più importante partito (sciita) del Paese, il Consiglio supremo per la Rivoluzione islamica in Iraq (Sciri), è stato fondato in Iran ai tempi di Khomeini, e la sua milizia ha combattuto a fianco degli iraniani nella guerra 1980-´88. Conflitto che ha opposto l´Iraq all´Iran, e ha fatto, si dice, un milione di morti. Lo stesso percorso ha seguito l´altro grande partito sciita (Dawa), del quale è uno dei massimi esponenti Ibrahim al Jaffari, il primo ministro di cui gli americani non riescono o non possono liberarsi. L´obbedienza degli sciiti iracheni ai dirigenti scitti di Teheran non è assoluta. Il nazionalismo talvolta prevale sul rapporto religioso. Ma resta che l´Iran, oggi principale nemico degli Stati Uniti in Medio Oriente, ha buoni alleati, se non addirittura dei complici, nella comunità grazie alla quale gli Stati Uniti riescono a galleggiare sul fallimento iracheno. Una grande zattera non troppo sicura.

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