Se ai cittadini si sostituiscono i consumatori finisce per prevalere il plebiscito del mercato». una sintesi da Moscacieca di Gustavo Zagrebelsky (Laterza), da la Repubblica, 21 ottobre 2015
Oppure, si potrebbe usare propriamente la parola per indicare l’insieme di coloro che hanno da essere governati e delle loro istituzioni: governabilità d’insieme. Della parola, tuttavia, si abusa certamente quando la si usa per indicare unilateralmente il bisogno di efficaci strumenti di governo (nel senso del memorandum della banca d’affari J.P. Morgan): è come se il governo stesso, cui spetta governare, potesse dirsi, esso stesso, più o meno governabile, più o meno docile.
Tutte le volte che si usano male le parole, si fa confusione e ci si inganna vicendevolmente. Qualche volta, inconsapevolmente, si tradisce un retro-pensiero che si vorrebbe rimanesse nascosto e che, invece, fa capolino tra le parole. Se l’attitudine a essere governati si riferisce alla società, ben si comprende a chi spetti il compito di governarla; ma, se la si attribuisce alla macchina di governo, allora la domanda che sorge, non maliziosa ma realistica, è: governabile, sì, ma da chi? Docile, sì, ma nei confronti di chi?
Nei regimi democratici, la governabilità, nel senso improprio detto sopra, cioè nel senso della forza che legittima l’azione del governo, deve dipendere dalla libera partecipazione politica e dal coinvolgimento attivo dei cittadini, dal confronto e dalla discussione su cui si forma l’ humus delle decisioni politiche, dal consenso che si manifesta innanzitutto con il voto e dalla fiducia che viene riposta in coloro che se ne faranno interpreti operativi. Quale che sia la definizione di democrazia, immancabile è, dunque, il voto che esprime la volontà di autonome scelte.
Primo fra tutti, il diritto di andare a votare. A modellare una società in senso democratico, non basta però che i diritti siano riconosciuti. Occorre che siano esercitati. Che cosa contano, se non se ne fa uso? È forse libera una società in cui alla scienza, all’arte, all’insegnamento, alla stampa, ecc., è riconosciuto il diritto di essere liberi, se poi gli scienziati, gli artisti, gli insegnanti, i giornalisti rinunciano a farne uso? Lo stesso è per il diritto di voto. È forse democratica una società in cui tutti i cittadini hanno il diritto di votare, ma non ne fanno uso? È democratica una società in cui la maggioranza rinuncia ad esercitare il proprio diritto di voto? Non sono costretti a rinunciare da leggi antidemocratiche; lo fanno volontariamente. Ma è forse questo meno grave? Al contrario, è più grave, poiché la rinuncia volontaria all’esercizio del primo e basilare diritto democratico sta a significare che la frustrazione della democrazia è stata interiorizzata, è entrata nel midollo della società.
Occorre interrogarsi su questa manifestazione di stanchezza della democrazia e, innanzitutto, sul fatto ch’essa non sembra fare problema, porre domande. È un dato accettato, tanto in alto quanto in basso.
In basso, cioè tra i cittadini, non deriva più (soltanto) dal sentimento antipolitico e antiparlamentare che è sempre pre- sente in ogni società e nella nostra in misura cospicua, alimentato dall’incredibile diffusione della corruzione pubblica che viene alla luce. Deriva da una convinzione assai più profonda e difficilmente scalzabile. Non si dice più (soltanto): sono tutti uguali perché tutti disonesti, ma: sono tutti uguali perché l’uno uguale all’altro nell’inutilità e nell’inconcludenza. In breve: è la fiducia nella politica che sta progressivamente riducendosi, poiché si avverte, consapevolmente o inconsapevolmente, che “la cosa” è come sfuggita di mano.
In alto, alla voragine dell’astensione, dopo ogni tornata elettorale, si dedica qualche espressione di rammarico, unita alla promessa di riallacciare il filo che si è spezzato. Ma è pura retorica che si ferma alle parole. Né si saprebbe come fare, perché il distacco dei grandi numeri dalla politica, che è un dato allarmante alla luce di qualunque concezione anche solo “minima” della democrazia, è perfettamente conforme allo spirito della vigente costituzione materiale che ha nel governo tecnico-esecutivo la sua colonna portante: il “governo governabile”. Le elezioni, da linfa della democrazia, si sono trasformate in potenziali intralci. Dunque, meno si vota e meglio è. Del resto, non è stato detto da qualcuno, facendo il verso alla celebre definizione di nazione di Ernest Renan, che i governi europei, scalzati dagli “esperti monetari”, hanno fatto prevalere il “permanente plebiscito dei mercati mondiali” sul “plebiscito delle urne” (così Hans Tietmeyer, presidente della Bundesbank, nel 1998)?
In effetti, se ai cittadini si sostituiscono i produttori e i consumatori, i creditori e i debitori, i venditori e i compratori, il plebiscito del mercato risulta essere la democrazia nella sua forma più coerente.
Una volta che le sorgenti sociali della governabilità si siano inaridite, la governabilità, intesa impropriamente come capacità di governo, da problema di democrazia politica si trasforma in questione di ingegneria costituzionale al servizio dell’efficienza dei mercati, i quali hanno bisogno di costituzioni reattive alla loro continua instabilità, di decisioni pronte, assolute e cieche, cioè di interventi esecutivi.
Una volta si sapeva e si diceva che l’ingegneria costituzionale non esiste in quanto tale; che non si deve far finta che abbia a che fare solo con questioni di efficienza. Ogni questione di natura propriamente costituzionale è sempre una questione di allocazione di potere. Oggi, quella verità vale pur sempre, ma la si nasconde negli interminabili convegni, tavole rotonde, pubblicazioni, dichiarazioni che sembrano tutti rivolti a una idea vuota di “vita costituzionale buona”, per l’appunto l’idea di “governabilità”, ed invece mirano a nuove e interessate allocazioni di potere.
IL LIBRO Anticipiamo u. L’autore dialogherà con Adriano Prosperi sabato alle 16.30 al Teatro Politeama di Poggibonsi e sarà a Milano a BookCity domenica alle 12.30 al Museo Nazionale della Scienza