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Spencer Welles
L'innocenza perduta dei «sapiens»
15 Dicembre 2011
Recensioni e segnalazioni
Benedetto Vecchi intervista l'autore del volume «Il seme di Pandora», per trarre dal’analis del passato più remoto motivi di speranza e responsabilità. Il manifesto, 14 dicembre 2011

La presenza umana sulla terra pone con forza la necessità di modificare un modello di sviluppo che distrugge risorse e determina la scomparsa di molte specie viventi. Allo stesso tempo lo sviluppo della genetica mette in rilievo la responsabilità degli scienziati nel loro lavoro di ricerca. Un'intervista con l'autore del volume «Il seme di Pandora», pubblicato da Codice edizioni

È dal 2005 che Spencer Wells lavora intensamente all'interno del «Genographic Project» con l'intento di definire una mappatura della diffusione della popolazione umana sulla terra fin dalla comparsa dell'«Homo Sapiens». Genetista e antropologo, Wells ha studiato con Richard Lewontin e con Luigi Luca Cavalli-Sforza. Con entrambi condivide l'idea che la comparsa dei «sapiens» è frutto di un'evoluzione durata centinaia di migliaia di anni, caratterizzata non solo da una capacità di adattamento all'habitat naturale, ma anche dagli incontri tra le diverse specie di ominidi che hanno vissuto sulla Terra. Autore che alterna la scrittura alla ricerca sul campo - è un «esploratore» della National Geographic - Spencer Wells è autore de Il viaggio dell'uomo (Longanesi) e del recente Il seme di Pandora pubblicato da Codice edizioni (pp. 241, euro 20), saggio che propone una sorta di società della parsimonia da contrapporre alla liberale ricchezza delle nazioni e attorno a cui ruota l'intervista.

Ne Il vaso di Pandora, lei si concentra sugli esiti della civilizzazione non sempre positivi per gli essere umani. Perché la civilizzazione ha questa ambivalenza di fondo?

Non nego che il processo di civilizzazione abbia avuto effetti positivi sulla vita umana. Ad esempio, il lavoro, attraverso le macchine e l'applicazione della scienza alle attività produttive, è sicuramente meno faticoso rispetto al passato. La scienza ha inoltre favorito la cura di malattie che falcidiavano le comunità umane. Il diritto, dal canto suo, ha reso più facile la convivenza. Lo stesso si può dire per la produzione culturale, uno dei fattori più importanti per migliorare il nostro stare in società. In una prospettiva antropologica, il processo di civilizzazione ha cioè favorito la crescita della popolazione e la nostra riproduzione in quanto specie.

In molti studi, la popolazione umana nel Neolitico è stata stimata in cinque milioni di uomini e donne. Stiamo parlando di circa diecimila anni fa. Erano tempi difficili per gli umani; e sono molti studiosi a definirli come il periodo nero della nostra presenza sulla Terra. Adesso siamo diventati sette miliardi. La crescita della popolazione non è tuttavia un fatto negativo. Ma se volgiamo lo sguardo sulle conseguenza di una presenza umana così diffusa sul pianete, il panorama è meno roseo. Ad esempio, il riscaldamento del pianeta è un effetto collaterale dalle conseguenza potenzialmente terribili per la presenza umana sul pianeta.. Lo stesso vale per l'estinzione di molte specie animali e vegetali provocate dal processo di civilizzazione. Per questo serve una riflessione sul fatto che la civilizzazione ha effetti sulla nostra biologia, che è noto si è evoluta in poche decine di migliaia di anni all'interno di una stretto rapporto con l'habitat naturale, ma anche con quello sociale. Questo per dire che siamo cambiati biologicamente da quando eravamo cacciatori nomadi e vivevamo in piccoli gruppi. Abbiamo sconfitto molte malattie, abbiamo plasmato la natura come meglio credevamo. Eppure, recentemente, si sono manifestati virus e malattie ritenute conseguenza proprio della civilizzazione. Uno degli aspetti con il quale la specie umana deve confrontarsi è dunque la gestione del il nostro legame biologico con l'habitat naturale e con l'habitat sociale. È una sfida culturale, forse la più importante che la specie umana dovrà affrontare in questo millennio.

La mappatura del Genoma Umano è da annoverare tra i più importanti successi scientifici degli ultimi decenni. Anche in questo caso, tuttavia, lei sottolinea con decisione il possibile lato oscuro delle applicazioni derivanti dalla mappatura del Dna umano....

Non so se ci troviamo di fronte a un lato oscuro delle possibili applicazioni delle scoperte fatte all'interno dell'Human Genoma Project, che va ricordato ha mobilitato moltissimi laboratori di ricerca e moltissimi scienziati di grande valore in una prospettiva multidisciplinare che ha consentito una discussione molto ricca sul concetto di responsabilità della scienza. Da parte mia sono convinto che dobbiamo concentrarsi nell'analisi sulle conseguenze sociali, etiche, biologiche delle possibili applicazioni di tali scoperte. Pensiamo alla genetica e all'embriologia. Sono due campi che hanno conosciuto un forte sviluppo negli ultimi trent'anni, al punto che siamo a un passo dal poter scegliere, selezionare i geni dei nostri figli. Questo è un bene, perché potremmo evitare disfunzioni patologiche. Ma dobbiamo altresì riflettere anche sulle implicazioni etiche di alcune ricerche. Nel libro parlo diffusamente del «caso» di Charlie Withaker, un dodicenne affetto da un tipo specifico di anemia che è stato curato usando le cellule staminali del fratello concepito in vitro. A quel tempo, l'opinione pubblica inglese si è divisa tra favorevoli e contrari. Quel che per me è interessante è il fatto che abbiamo un effetto positivo di una «manipolazione» genetica e, al tempo stesso, ci siamo trovati di fronte a vicenda che ha posto nuovamente con forza il tema dell'eugenetica e della selezione genetica della specie umana. Argomento che ha precedenti storici terribili.

Ci troviamo cioè di fronte a situazioni che rendono attuale un discorso sulla responsabilità dei ricercatori nei confronti della società. E allo stesso tempo rendono attuale una domanda rispetto alla possibile selezione genetica: che diritto abbiamo noi di fare questo? Quesito che vale per molte altre scoperte scientifiche e la loro applicazione tecnologica. Da qui il nodo da sciogliere su come comportarci di fronte a implicazioni che possono condizionare moltissimo, se non sovvertire il nostro modo di vivere in una società.

Nel suo libro, l'evoluzione occupa molte pagine. Eppure la teoria dell'evoluzione è rigettata da posizioni spesso definite creazioniste...

Per me, come scienziato, l'evoluzione è un fatto che possiamo confermare continuamente attraverso esperimenti condotti nei laboratori dove si studia la genetica. La resistenza degli antibiotici, ad esempio, può essere studiata solamente attraverso il processo evolutivo che hanno caratterizzato alcuni virus. Penso sempre con delizia e stupore a come l'evoluzione della nostra specie e di altre specie viventi dia luogo a una straordinaria varietà di specie che condivide con noi il pianeta. Ci sono alcune farfalle che hanno una forma aerodinamica che incanta per potenza e bellezza.. Poi ci sono microorganismi che riescono a vivere sia in ambienti con elevate temperature che a profondità marine pazzesche. Per non citare le affascinanti varietà di felini che popolano l'Africa. Sono solo pochi esempi di come l'evoluzione abbia ancora il potere di stupirci per ciò che ha prodotto e per ciò che potrà produrre in futuro, vista la capacità di innovazione e adattamento che caratterizzano le specie viventi. Ci sono volute milioni di generazioni per arrivare alla attuale situazione. Non dovremmo spaventarci di tale diversità, ma sentirci confortati dalla sua esistenza.

Lei descrive la nascita dell'«Homo Sapiens» come una grande avventura caratterizzata anche dalla combinazione di geni di ominidi differenti. In altri termini lei dice che la combinazione di geni è un fattore importante dell'evoluzione. Non è così per il concetto di razza, da lei ritenuto un fattore tutto sommato irrilevante. La razza è dunque una convenzione sociale...

Molti ricercatori sociali sostengono che le razze sono una costruzione sociale e non, come invece affermano alcuni biologi e genetisti, l'esito di varianti genetiche che hanno come unici effetti di «superficie» il colore della pelle o la forma degli occhi. Potrei dire che entrambe le posizioni colgono degli elementi, ma entrambe non tengono conto della complessità, della sedimentazione sociale e culturale che la razza ha avuto. Scientificamente è chiaro che non ci sono significative differenze genetiche tra le diverse «razze» umane. E quelle che pure ci sono sono il frutto di una evoluzione intervenuta in 60mila anni, all'interno degli incontri, delle migrazioni, dei rapporti che i sapiens hanno avuto con l'habitat naturale e quello sociale che via via era costruito. Questo fattore dell'incontro, della combinazione tra gruppi umani differenti è stato ampiamente documentato dal «Genographic Project» a cui partecipo. Proprio in quell'ambito abbiamo verificato che gli esseri umani hanno lo stessa base genetica per il novantanove percento. Il resto produce uomini e donne con vari colori della pelle e altre piccole differenze che sono sempre di «superficie». Il mistero da svelare riguarda invece il problema delle disciminazioni razziali e dalle rappresentazioni sociali negative che colpiscono alcuni gruppi umani che hanno il colore della pelle diverso dal roseo e perché hanno una forma di occhi differente da quelle che caratterizzano gli europei o i bianchi statunitensi.

Infatti lei che scrive che gli esseri umani devono sviluppare un'altra cultura...

Si, ma non mi riferivo al razzismo. Piuttosto serve un'altra cultura per affrontare un argomento fondamentale per la sopravvivenza della specie umana, ma che spesso viene messo ai margini della discussione pubblica. Viviamo in un mondo che ha visto una crescita ininterrotta per quasi 60mila anni. Nel Neolitico la terra era molto diversa da quella attuale. Da allora molte specie si sono estinte e le società in cui viviamo sono caratterizzate da uno sviluppo industriale ad alto consumo di energia. Quando scrivo che dobbiamo sviluppare una nuova cultura, parto dal presupposto che tale modello di sviluppo non è più sostenibile nel medio e lungo periodo. Per questo sostengo che dobbiamo apprendere a vivere come una specie che abita un pianeta molto affollato e dove le risorse sono limitate.

Frugalità, parsimonia. Sono due delle parole chiave che lei usa per analizzare criticamente l'attuale distribuzione della ricchezza. Ma se la soluzione alla crisi di un modello di sviluppo basato su un alto consumo di energia e di distruzione delle risorse può risultare una narrazione mitologica o un sogno ad occhi aperti...

Il consumo dissoluto del pianeta che abbiamo compiuto è da archiviare, ponendo limiti al consumo delle risorse e alla distruzione dell'habitat naturale. Questo comporta una profonda trasformazione delle nostre abitudini . Abbiamo diecimila anni alle spalle, che rispetto alla storia della Terra è solo un piccolo episodio della vita sul nostro pianeta. Tuttavia sono stati diecimila anni in cui abbiamo modificato i nostri standard, non ponendoci tuttavia il problema di come garantire la sopravvivenza non solo della specie umana ma del pianeta. La frugalità, la parsimonia sono quindi solo strumenti che possono aiutare lo sviluppo di società più inclusive di quelle attuali. Solo così possiamo garantire un futuro ai nostri figli e ai loro figli. Sono moderatamente ottimista per il futuro. Questo non significa sottovalutare le conseguenze a breve termine della crisi attuale. Anzi solo una piena comprensione dei problema che abbiamo ci può aiutare a prendere la giusta strada.

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