il manifesto, 3 marzo 2017
Del resto l’amministratore delegato di Consip, Marroni, dipendente dal ministro del Tesoro (Padoan gli ha appena confermato la fiducia) non si vede perché dovrebbe inventare le pressioni di un imprenditore toscano. Pressioni e richieste, possiamo immaginare, all’ordine del giorno. Meno normale che avvengano per conto di Renzi padre e dell’amico Verdini, proprio ieri condannato a 9 anni per bancarotta e frode.
Naturalmente non è il caso di imbastire processi a mezzo stampa. Anche perché è appena successo che il presidente del Pd campano, Stefano Graziano, accusato di intendersela con la camorra, sia stato scagionato dall’infamante accusa.
Quello che, invece, è politicamente importante, purtroppo è anche desolante e preoccupante. Si tratta di problema strutturale, la corruzione, che riguarda la destra e la sinistra. In Italia, come denunciava Berlinguer in una famosa intervista a Eugenio Scalfari nel 1976, la tangente origina «dall’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi». Un sistema di potere, di soldi e di partiti allora forti oggi morenti, che lasciano il campo a clan familiari.
In questo caso famiglie molto attive in Toscana con storiacce di banche fallite, di consulenze richieste a personaggi come Flavio Carboni, di grandi sintonie politiche con Verdini. E via elencando, compresi naturalmente i finanziatori della new-age renziana con elargizioni arrivate da chi è oggi in una cella di Regina Coeli, come l’imprenditore Alfredo Romeo. Un mondo salito alla ribalta del governo del paese.
Il Renzi padre smentisce tutto, il Renzi figlio va in tv a dire che ha fiducia nei magistrati, il ministro Lotti respinge al mittente i sospetti di coinvolgimento. Accusa e difesa si fronteggiano, ma in attesa di una sentenza, il Pd e l’ex presidente del consiglio sono travolti da una bufera politico-giudiziaria che coincide con l’avvio parecchio travagliato di un congresso e con la sfida delle primarie più “giudiziarie” della storia.
C’è un candidato, Renzi, che ha gravi problemi in famiglia. C’è il candidato Orlando che è anche ministro della giustizia. E c’è il candidato Emiliano che sarà sentito, lui magistrato, come testimone nell’inchiesta. E quando si gira lo sguardo al tesseramento del Pd campano lo spettacolo non è confortante.
Si lascia intravedere l’ipotesi di un ingorgo corruttivo che i magistrati tentano di dipanare mentre la politica annaspa. I legami potere-imprese, la ricca fauna di lobbisti e millantantori che fa da sfondo a un ristretto numero di contendenti i quali ambiscono a spartirsi tutta la torta del denaro pubblico, come raccontano alti funzionari infedeli che vuotano il sacco per sfuggire alla galera.
Ce n’è in abbondanza per dire che l’anomalia italiana fa sembrare lo scandalo Fillon che illumina le presidenziali francesi, una commediola di provincia.