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Angelo D'Orsi
L’infinita scoperta di Gramsci
10 Maggio 2011
Antonio Gramsci
Dalla newsletter di MicroMega (10 maggio2011) rirendiamo questo ampio saggio contenuto in un recente libro di Francesca Chiarotti

"In una situazione babelica di linguaggi e opzioni politiche, di fallimento di tutte le grandi fedi politiche e religiose, Gramsci forse viene riscoperto incessantemente perché ci insegna a non rinunciare alla lotta, proponendo una rivoluzione che sia un processo e non un atto, che nasca da un lungo lavorio di preparazione culturale e pedagogica". Proponiamo il saggio di Angelo d'Orsi contenuto nel volume "Operazione Gramsci. Alla conquista degli intellettuali nell'Italia del dopoguerra" di Francesca Chiarotto di recente pubblicazione per Bruno Mondadori.

Le “scoperte” di Gramsci si sono reiterate, a cicli, nella cultura italiana e, sia pure in proporzione ridotta, in molte culture straniere. Altrettanto numerosi gli usi, talora abusi, del suo pensiero e della sua stessa figura: fondatore del partito, militante antifascista, martire, santo laico. Il suo volto – come lo conosciamo da una delle pochissime immagini che ci sono state tramandate, intenso e fascinoso – è divenuto un’icona che, a guisa di un Che Guevara italiano, orna ormai magliette, borse, manifesti murali, persino cartoline pubblicitarie, che “vendono” prodotti talora del tutto estranei all’universo gramsciano. Spesso, come del resto accade per il “Che”, la diffusione dell’icona è inversamente proporzionale alla conoscenza del suo significato profondo, ma, trattandosi di uomini d’azione e insieme di teorici politici, vuole testimoniare adesione a una proposta politica (ancorché ben conosciuta) e condivisione di una testimonianza giudicata, a ragione, eroica.

L’immagine pubblica di Gramsci ha percorso, dopo la morte, un itinerario che si snoda tra epifanie e disparizioni, disinvolti utilizzi e aspri scontri, interni ed esterni a quel mondo della sinistra che, gramscianamente, avrebbe dovuto lottare unito, pur preservando le differenze programmatiche e non sottacendo le distanze ideologiche. Il che significa che anche la figura ascetica di Gramsci, quasi immediatamente, dopo la sua morte, e per certi versi anche prima, sacralizzata, venne usata a fini di battaglia politica: innanzi tutto da Palmiro Togliatti, che pure fu il primo sostenitore di tutte le iniziative volte a rendere noto «il pensiero di Antonio», ma che certo seppe, in una strategia culturale di eccezionale lucidità, mettere a frutto quel patrimonio ideale, per costruire un partito che fosse comunista, ma italiano, con tutti gli adattamenti che di volta in volta gli sviluppi politici inducevano o obbligavano. In fondo, l’originalità del comunismo italiano, e la sua “diversità” ha a che fare con Gramsci, prima che con Togliatti; e, al di là delle differenze tra i due, che emersero nella clamorosa rottura del 1926, mai più sanata, non v’è dubbio che il secondo seppe riannodare il filo spezzato. Naturalmente, mancava l’interlocutore, ma il rispetto e l’attenzione di Togliatti per il fratello maggiore, come venne considerato e talora chiamato Gramsci, sono fatti assodati.

La vicenda, dunque, delle edizioni e degli studi gramsciani, che si intreccia alla istituzionalizzazione, attraverso la Fondazione ad Antonio Gramsci intitolata, e alle mille iniziative volte a portare il nome di quel Sardo ben oltre i confini del partito, costituisce una traccia forte, e finora non sufficientemente seguita, della edificazione di un blocco intellettuale intorno al PCI: «la costruzione dell’egemonia», appunto. Ora, sebbene intorno a quel nome la battaglia ideologica, in forma residuale, continui (basti pensare alla recente ripresa tardiva di una insulsa diceria che vorrebbe un Gramsci convertito alla religione dei padri, in articulo mortis), [1] non v’è dubbio che, almeno nel mondo degli studi, mentre ancora qualche anatra starnazza sul Campidoglio, per avvertire il popolo e il senato della minaccia “comunista”, Gramsci sia diventato un tassello ineliminabile del mosaico del pensiero universale. E, altrettanto indubbiamente, questo fatto è certificato da una data: la pubblicazione dei Quaderni del carcere, nella nuova edizione critico-filologica, a cura di uno studioso che ha con quel lavoro legato per sempre il suo nome agli studi gramsciani, Valentino Gerratana.

Il momento in cui si collocò quell’avvenimento editoriale, la metà esatta del settimo decennio del XX secolo, oggi ci può apparire un momento di cerniera: si era ancora nel pieno di quelli che Mao Zedong aveva proclamato «I grandi anni Settanta», convinto che sarebbero stati gli anni della rivoluzione proletaria e socialista in Occidente, ma il cambiamento radicale, epocale, si stava già palesando come sogno più che come progetto, e, anzi, da quel sogno le classi operaie, gli studenti, una parte di ceto medio intellettuale, motori della rivolta del decennio precedente, si sarebbero di lì a poco risvegliati, e molti sarebbero precipitati nel ritiro dall’agorà, occupandosi solo del proprio “particolare”; altri, si sarebbero lasciati attirare dalle sciagurate chimere della lotta armata, entrando in clandestinità; e non mancava, chi, come sempre accade nella storia, si apprestava già allora a cambiare bandiera, e i teppisti sarebbero diventati uomini d’ordine, gli ortodossi del comunismo avrebbero conservato la struttura mentale rigida e l’intolleranza di derivazione bolscevico-staliniana, ma rovesciando completamente i propri valori ideali e orientamenti politici.

E Gramsci? In sintesi, il rivoluzionario veniva riletto, grazie alla seconda pubblicazione dei Quaderni, sub specie aeternitatis: in sostanza, dopo letture, e più o meno accorti utilizzi, fino ad allora prevalentemente e direttamente in chiave politica, sia in Italia, sia fuori, Gramsci cominciò a essere guardato nei termini, soprattutto, di un filosofo politico, ma anche di uno storico, di un critico letterario, di un interprete del mondo «vasto e terribile», per riprendere una notissima sua espressione, che ricorre più volte nella corrispondenza con i familiari. Anzi, in particolare, i Quaderni – proposti nella forma più o meno originaria in cui erano stati in parte scritti, in parte già riorganizzati dall’autore – sembravano cadere proprio nel cuore di una fase storica di trapasso, che, nondimeno, a taluni, appariva ancora aperta alle possibilità del socialismo. In Italia, il movimento degli studenti era ancora vivo, il PCI giungeva a esiti elettorali eccezionali, mentre la società aveva introdotto nei propri ordinamenti giuridici notevoli cambiamenti, il costume si era profondamente trasformato, come mostrò il referendum contro il divorzio voluto da una parte della Democrazia cristiana e appoggiato dalla Chiesa e clamorosamente sconfitto. Ma nel contempo, si cominciava a prendere atto, da parte di soggetti politici e intellettuali forse più attenti e realistici, di una nuova, incombente disfatta dell’ipotesi rivoluzionaria.

I testi gramsciani, che ritornavano come nuovi sul mercato delle idee, venivano finalmente colti, non a torto, quali frammenti di un’analisi lucida, ancorché venata di amarezza, della sconfitta del movimento rivoluzionario: si aggiunga che quelle analisi parevano in controluce evocare le successive sconfitte: quella del Vento del Nord, nel post-Resistenza in Italia, e l’altra, appunto, che stava cominciando a definirsi nella seconda metà degli anni settanta. Frammenti, dicevo: sul “frammentismo” gramsciano si erano già impiegati chilogrammi di carta stampata (se ne trova traccia nelle pagine che seguono), e il tema ritornò di attualità davanti alla nuova edizione dei Quaderni, che evitava gli accorpamenti più o meno giudiziosi, secondo linee tematiche variamente individuate, talora convincenti, talaltra meno; ma sempre, comunque, “traditrici” dello stato del testo: dunque, ciò che era stato forzosamente reso organico e compatto, ritornava alla dimensione originaria, nella sua natura di brogliaccio, sia pure nel corso del tempo reso, almeno in parte, più sistematico dallo stesso Gramsci, attraverso quella rielaborazione chiamata «Quaderni speciali». Eppure si scopriva, riprendendo alcune preziose intuizioni dei decenni precedenti, che il frammentismo non esprimeva soltanto la condizione provvisoria e disorganica di quei testi, ma traduceva la natura del pensiero del loro autore.

Le letture e riletture – che erano quasi per tutti letture ex novo – favorite da questa nuova «epifania gramsciana», come viene chiamata efficacemente nelle pagine che seguono, furono dunque influenzate dalla situazione politica complessiva, ossia, dall’affievolirsi delle istanze di cambiamento radicale, anche se non si affacciava allora lo spettro della controrivoluzione, come nell’Europa di mezzo secolo prima, quando lo scontro reazione-rivoluzione propagatosi come un incendio dopo il 1917, aveva visto la vittoria della prima, spesso con dolorosissime conseguenze; e nella stessa immensa “patria del socialismo”, l’Unione Sovietica, dove il gruppo dirigente passava di successo in successo nella lotta contro i “nemici interni”, in qualche modo realizzando i peggiori scenari ipotizzati dallo stesso Gramsci nella lettera del 1926, consegnata a Togliatti e mai recapitata. Scenari che negli anni seguenti, e prima ancora delle purghe su larga scala – che sopraggiunsero nell’anno stesso della morte, il 1937 – il detenuto avrebbe in parte compreso, in parte vagamente intuito, sulla base delle scarne e mutile informazioni che gli erano fatte giungere, clandestinamente, attraverso i canali della comunità carceraria, per il tramite di compagni, ma sovente osteggiati da altri militanti del partito.

Il fatto che la presentazione dei Quaderni, curati da Gerratana, organizzata dalla casa editrice Einaudi, avvenisse a Parigi, può da una parte essere significativa della presenza precoce di Gramsci Oltralpe, ma anche del ruolo della Francia nella guida dei movimenti di contestazione europea degli anni precedenti. Eppure, non ne conseguì un rilancio efficace degli studi gramsciani francesi (ma va segnalato in contemporanea la pubblicazione di un saggio tuttora insuperato nel suo specifico, su di un tema fondamentale come quello dello Stato), [2] né delle traduzioni, paradossalmente, se non in modo assai contenuto, considerando che l’edizione integrale dei Quaderni, avviata più tardi, impiegò un ventennio per giungere a conclusione;3 tuttavia Parigi, grazie a quella iniziativa, che mostrò immediatamente il valore generale dell’impresa editoriale, fu il centro propulsivo di un rilancio della presenza di Gramsci sulla scena culturale internazionale. Se fino ad allora era stata soltanto la sinistra, variamente comunista, a tradurre, studiare o semplicemente leggere Gramsci, da quel momento si realizzò un salto in avanti nella conoscenza e diffusione dell’opera gramsciana, con un significativo allargamento del parco dei lettori e degli studiosi. E altre letture, altre interpretazioni, soprattutto altre focalizzazioni emersero dall’universo del Gramsci “maturo”, restituito alla pur complessa e multiforme natura di quegli straordinari appunti di lavoro che erano i Quaderni, e che finalmente apparivano per ciò che erano, liberati dalla gabbia della tematizzazione imposta da Palmiro Togliatti e Felice Platone.

Che “l’operazione Quaderni”, dell’immediato dopoguerra – più in generale, “l’operazione Gramsci” –, sia stata cosa buona e saggia, è ampiamente dimostrato nelle pagine di questo libro; ma quel tipo di edizione, non tanto per i tagli e le “censure”, quanto proprio per gli accorpamenti delle sparse note gramsciane, si prestava meglio agli utilizzi politico-ideologici. Ora, con il 1975, grazie all’edizione Gerratana, i Quaderni, se non tutto Gramsci, potevano essere affrontati in un altro modo, che non solo si sottraesse al servo encomio e al codardo oltraggio, ma fosse in grado di far emergere insospettate valenze di quel pensiero, ampliandone gli echi, moltiplicandone le risonanze. Il che, puntualmente, avvenne, pur non cessando gli usi politici, che, in un senso o nell’altro, erano comunque facilitati dall’assenza della pubblicazione completa e scientificamente rigorosa di tutti gli scritti e dei carteggi gramsciani.

Ma, ancora in mente dei l’Opera Omnia, in quella fase l’edizione integrale e critica dei Quaderni, giunta a conclusione dopo un paziente e generoso lavoro, fu una tappa fondamentale. Per la prima volta si poteva leggere quel che davvero Antonio Gramsci aveva scritto in carcere, senza le mediazioni togliattiane, sganciandosi da quel lavoro del primo dopoguerra che, con tutti i suoi meriti, aveva l’intento, principalmente, di fondare una pedagogia politica di massa. Fu una sorta di rivoluzione copernicana che costrinse a un benefico bagno nel testo, anche da parte di coloro che i Quaderni li avevano già letti e usati, e che ebbero l’impressione di trovarsi davanti a un altro testo, quasi un palinsesto, di straordinaria vivacità e forza, di enorme spessore, certo di gravi difficoltà, anche per la sua natura interrotta, provvisoria, talora rapsodica, non esente da contraddizioni e aporie... E, altro paradosso, se è vero che liberati dalla gabbia tematica i Quaderni erano restituiti alla polisemia di un cantiere aperto, d’altro canto anche la forma editoriale – in luogo dei sei volumi, apparsi separatamente, acquistabili uno per uno, come opere diverse, un blocco di oltre tremila pagine solo per comodità del lettore diviso in quattro tomi – dava al testo una sorta di omogeneità, ne faceva insomma un’“opera”. E su di essa, per tanti versi “nuova”, ci si pose allo studio, in modo nuovo: la filologia cominciò a essere una chiave importante, in parallelo, d’altronde, con l’acquisizione che stava imponendosi su scala sovranazionale, ancorché non ancora generalizzata, di Antonio Gramsci nell’empireo dei grandi del pensiero. I grandi si studiano, e si studiano con gli strumenti raffinati della critica e ricostruzione filologica del testo, dell’analisi filosofica, ma su quel preciso testo, dell’attenta contestualizzazione storica.

Grazie a questi nuovi approcci, Gramsci non soltanto fu, almeno in parte, sottratto alle dispute ideologiche, spesso di modesto valore, e agli utilizzi politici (almeno quelli più smaccati), ma altresì fu liberato da una interpretazione di fondo, che, con qualche non frequente eccezione, lo collocava nel solco della tradizione italiana, punto d’arrivo di linee continue che ne facevano uno storicista idealista, in buona sostanza. I due elementi erano andati di pari passo: notò nel 1977, assai criticamente, sull’“operazione Gramsci”, Arcangelo Leone de Castris, uno studioso marxista esterno (“a sinistra”) al Partito comunista, che nel momento in cui la cultura italiana del dopoguerra tentava «una sistemazione di quella operazione nella figura del “grande intellettuale”, culmine di una tradizione democratica nazionale e suo ripropositore, capovolgeva nella propria ideologia della continuità, di fatto funzionale a una concezione riduttiva della via italiana al socialismo, il vero centro teorico-politico dell’operazione gramsciana». [4]

Come dire un’operazione Gramsci, ossia su Gramsci, condotta da Togliatti e portata avanti dai suoi intellettuali organici dopo la morte del capo, contro l’operazione gramsciana, ossia di Gramsci. Quanto poi al centro dell’elaborazione propriamente di Gramsci, le opinioni dello studioso erano e rimangono discutibili, e forse attardate su moduli che ci appaiono oggi desueti. Ma il centro del discorso concerneva il fatto che Gramsci stesso si fosse battuto contro quella tradizione, e i suoi rappresentanti, specie nel presente politico.

Tra il convegno del quarantennale della morte (1977) e quello del cinquantennale di dieci anni dopo, furono forniti tutti gli indizi che i tempi stavano cambiando. Dall’apogeo si passò lentamente all’ipogeo: tutti gramsciani negli anni settanta, nessun gramsciano negli ottanta... Nel convegno del 1977 si affrontarono in particolare temi teorici, segno di una piena assunzione di Gramsci nel mondo del pensiero: un mondo dal quale da un lato taluni studiosi, retrivi e misoneisti, intendevano tenerlo lontano, mentre dall’altro alcuni esponenti della generazione più giovane, molto gauchiste, influenzata dall’antico avversario in seno al Partito comunista, Amadeo Bordiga, o da altre correnti marxiste, cercavano di inchiodarvelo come un marchio d’infamia (quasi una riproposizione, senza troppo sforzo immaginativo, delle accuse bordighiane rivolte già al giovane socialista sotto la Mole, di essere a capo di un gruppo, quello de “L’Ordine Nuovo”, «culturalista»). Ciononostante, era precisamente l’inventore o il reinventore di parole chiave del lessico politico, e in specie dell’egemonia, che ormai si era imposto sulla scena internazionale, a livello di mondo accademico: ma nemo propheta in Patria.

Dunque, in Italia, dopo quell’importante raduno del quarantennale, che quasi coincise perfettamente con l’ascesa al potere nel Partito socialista di Bettino Craxi, animato da un furor anticomunista, mentre fuori dei confini appunto Gramsci era oggetto di un processo di universalizzazione, qui veniva di nuovo ripiegato ad usum di cordate politico-intellettuali di modesto respiro, ma di notevole risonanza mediatica. L’intenzione era quella di portare il PCI a Canossa, e Gramsci diventava una sorta di uomo dello schermo: si criticava lui, per sollecitare il partito da lui fondato (pur con intenti polemici, a dispetto della sua dubbia verità, era rimasta dominante, diventando senso comune, l’attribuzione di “paternità”; Gramsci era “il fondatore” del PCI) ad abbracciare la “via democratica”. In particolare la rivista teorica del PSI, “Mondo Operaio”, si distinse in questa campagna, che, naturalmente, ebbe spunti interessanti, in un mare di interventi ideologici, che rivisti oggi appaiono irrimediabilmente datati. Forse, più datati persino del Gramsci “bolscevico” della prima metà degli anni venti.

Quanto alle letture collocate “a sinistra”, emergeva, non di rado, un’altra criticità, che era in parte scientifica, in parte, di nuovo, politica: ossia una svalutazione del Gramsci giovanile, parallela e contraria a quella condotta in seno all’intellettualità comunista ortodossa, e una nuova centratura sui Quaderni, che solo in anni assai recenti si è tentato, da parte di qualcuno, di rompere.

La cosa era comunque comprensibile, in quanto, letti nella loro versione (quasi) integrale, e sub specie voluminis, i Quaderni, insomma, diventati “opera”, accrescevano enormemente la loro forza di suggestione; al di là delle interpretazioni non c’è dubbio che in questo procedimento Gramsci fosse esaminato, da parte di una cerchia di studiosi per certi versi differente da quella passata, anche per ovvie ragioni biologiche, con occhi nuovi, e soprattutto anche con strumenti più raffinati. Non era la nouvelle histoire gramscienne, ma si poteva infine prestare la dovuta attenzione alla filologia, senza il rischio di essere accusati di pedanteria: inediti accostamenti, talora impensate affinità, conferme e modificazioni, si affacciavano nel paniere degli studi dedicati al Sardo. Se ne ricavavano preziose tessere di un mosaico che nel corso degli anni seguenti sarebbe diventato via via monumentale, in termini di quantità e di qualità, con una intensificazione fuori d’Italia a partire dal finire degli anni ottanta, e in Italia, dalla metà dei novanta. I concetti chiave del lessico gramsciano – da “Egemonia” a “Guerra di posizione”, da “Rivoluzione passiva” alla parola magica e forse davvero centrale “Intellettuali” – emersero come stelle luminose di un dizionario generale della teoria politica, ma anche della sociologia, della critica letteraria, della storiografia. E quant’altro. Già, perché si faceva strada un po’ alla volta la realtà di un pensiero multiverso, a volte quasi inafferrabile per la sua stessa ricchezza.

Nello stesso tempo, paradossalmente, il cambio di decennio comportò, di sicuro in Italia, un lento inabissarsi di quel pensiero, prova che l’assunzione di Gramsci nell’empireo non lo aveva emendato dalla “colpa originaria”: il comunismo. Così, dopo un paio di decenni in crescendo, tra le edizioni di testi e la pubblicazione di studi (spesso, è vero, disinvolti sul piano della filologia e sbrigativi su quello della contestualizzazione), dopo una massa di interpretazioni le più varie, che talora contenevano grossolane semplificazioni e talaltra gravi impoverimenti del suo pensiero, mentre ritornavano gli attacchi ideologici (non più di parte cattolica, ma perlopiù, come ricordato, provenienti dall’area intellettuale di riferimento della nuova segreteria del Partito socialista), venne, accanto e dopo, il tempo della rimozione, e dell’oblio. Antonio Gramsci, in patria, insomma, diventava un “cane morto”. Era un altro paradosso, in quanto, contemporaneamente, sull’onda lunga dell’edizione critico-cronologica dei Quaderni, il pensatore (ma anche il rivoluzionario) veniva scoperto fuori d’Italia, in sedi diverse, e con differenti modalità. Vale la pena di ricordare, in margine, che intanto si era avviata, ma riservata al mondo degli studi, una discussione sui criteri dell’edizione Gerratana, con proposte interessanti, di varia radicalità, di una sua emendazione: insomma, la stessa pubblicazione della nuova edizione dei Quaderni diede il via al proprio superamento, in particolare grazie alle suggestioni di uno studioso proveniente da altri ambiti di ricerca come Gianni Francioni; ma il fatto stesso che un filologo settecentista si dedicasse a Gramsci, e ai complessi problemi di ricostruzione del testo, era la prova che quell’autore non era più etichettabile nei termini di giornalista socialista, o di dirigente di partito che si era anche dilettato di pensare la politica. [5]

Ma appunto a tale verità fuori d’Italia si giunse prima, anche se nei decenni antecedenti non pochi erano stati coloro che avevano colto lucidamente la “classicità” di Gramsci. In sostanza, mentre fuori dei patrii confini il nome di Gramsci cominciava a circolare con insistenza, negli ambienti culturali nostrani Gramsci era quasi ritornato a essere lo sconosciuto che era avanti la “scoperta” del 1947, grazie alle Lettere e al premio Viareggio che le aveva, inopinatamente, lanciate sulla scena nazionale. [6] L’inabissarsi della figura, del nome e del pensiero di Gramsci fu impressionante, nell’Italia degli anni ottanta, dominati politicamente dallo pseudoriformismo “decisionistico” del craxismo, e culturalmente da quello che fu chiamato, su scala sovranazionale, “l’edonismo reaganiano”, con un forte ripiegamento sul privato, una esibita volontà di primeggiare, individualisticamente, nella dimensione esistenziale in cui il lato pubblico, politico, veniva cancellato. L’agorà, in ogni sua possibile versione, era dimenticata a vantaggio del salotto di casa, o, peggio, della discoteca, o della birreria, dove nondimeno il discorso pubblico, politico, era del tutto rimosso. Il divertimento, nella sua forma spesso più becera, prendeva il posto dell’impegno. Come avrebbe potuto trovare posto una figura quale quella – rigorosa al punto da apparire rigorista, “calvinista” – di Antonio Gramsci, in quell’universo?

E anche a sinistra, nello scenario che si cominciava a delineare di fuga dal marxismo, e dal suo corrispettivo politico, il comunismo, Gramsci non godé di buona stampa. Basti, come esempio, il convegno organizzato nella “sua” Torino, sul finire del 1988, dal locale Istituto a lui intitolato. Qui si colsero i frutti dell’ambigua interpretazione data da Bobbio al convegno di vent’anni prima, e si dimostrarono non errate le preoccupazioni per le «pericolose conseguenze che essa implicava». [7] Ormai, mentre la cosiddetta “nuova destra”, alla ricerca di parentele nobili, cominciava a guardare al pensiero di Gramsci come a un punto di riferimento, in un patchwork confuso, ma degno di attenzione, bizzarramente le letture che emersero al convegno torinese sembravano andare nella stessa direzione, consegnando quel rivoluzionario, inchiodato da etichette che volevano essere squalificanti, come armonico, gerarchico, produttivista, tendenzialmente totalitario, proprio al paniere ideologico di una destra “colta”. [8]

L’edizione Gerratana ebbe anche l’effetto, certo non positivo, di oscurare gli scritti precarcerari, che ritornarono a essere ciò che in passato erano stati in un’opinione diffusa, alla quale si erano opposti in pochi: una sorta di preparazione della “vera” elaborazione teorica, quella in prigione, per i sostenitori della “continuità”; un immaturo prodotto della giovinezza, poi superato, in direzione piuttosto diversa, nell’età “matura”. Effetto bizzarro, in quanto proprio in quell’ottavo decennio del secolo, ancora Einaudi aveva dato il via a una nuova edizione degli scritti precarcerari (antecedenti dunque al novembre del 1926), che aveva arricchito notevolmente il quadro della biografia intellettuale e politica gramsciana, fornendo ulteriore materiali per studi e approfondimenti. Si trattava di un’edizione che faceva compiere importanti passi avanti, specie in termini di attribuzione: se per i Quaderni il problema fondamentale era quello della datazione, per gli articoli, quasi sempre non firmati, rimaneva quello del riconoscimento di paternità, che, con il trascorrere degli anni, diventava via via più incerto, con il mancare di molti dei protagonisti di quella stagione, la cui testimonianza era stata in passato uno dei criteri per l’attribuzione dei testi alla penna di Gramsci.

Anche in questa tornata editoriale un ruolo importante fu svolto da Gerratana; ma accanto a lui, oltre al redattore einaudiano Sergio Caprioglio, che aveva collaborato con Elsa Fubini alla curatela delle lettere, per la seconda edizione, assai arricchita, del 1965, [9] emergeva uno studioso della generazione successiva, Antonio A. Santucci, che si sarebbe spento prematuramente nel 2006, non senza aver dato contributi significativi agli studi gramsciani. [10] Peraltro, poco prima, era mancato Caprioglio: due perdite gravi per la comunità dei gramsciologi, che ancora non aveva superato la perdita di Gerratana, avvenuta nel 2000. L’edizione degli scritti precarcerari degli anni ottanta fu, nell’insieme, pregevole, malgrado errori e lacune: col senno di poi, si può parlare di un passo verso l’edizione completa degli scritti, che sarebbe stata avviata un quindicennio più tardi; in ogni caso si trattò di un lavoro che contribuì a una conoscenza assai più ricca della biografia di Antonio Gramsci nella Torino che da città fredda e ostile, come gli si era presentata nell’autunno del 1911, andò trasformandosi un po’ alla volta nella “sua” città. [11]

Gli anni ottanta si chiusero con una serie di eventi che sembrarono di nuovo riaprire i giochi, anche se gli impulsi a una Gramsci-Renaissance, onda lunga dell’edizione Gerratana, provennero da fuori d’Italia. Non ci fu “il convegno” per il cinquantesimo della morte (1987), ma una serie di iniziative che mostrarono il divario tra gli ambienti culturali italiani che ricuperavano in modo lento e ritardato una vera ricezione del pensiero del Sardo, e una comunità di studi internazionale che si apriva a Gramsci con attenzione e, talora, persino con autentico entusiasmo: era l’entusiasmo della scoperta, ancora una volta. Era un Gramsci nuovo quello che in una lettura trasversale e multidisciplinare, si palesava, tra manipoli di studiosi europei, americani e un po’ alla volta anche di altri continenti (Asia e Australia): era il Gramsci pensatore critico della modernità, marxista innovatore, comunista capace di riflettere senza ideologismi sul fallimento della rivoluzione in Occidente. Due raduni internazionali, in particolare, dotati di questi caratteri, segnarono tappe significative in tale direzione. [12]

La cultura italiana, dal canto suo, si lasciò lentamente trascinare al seguito, in modo spesso riluttante, talora opponendo resistenza, in varia forma, come rivelò il convegno di Torino di fine 1988. L’anno dopo, il fatidico 1989, a Formia si tenne un raduno internazionale, nell’oggetto e nei soggetti partecipanti; [13] e l’anno prima, lo statunitense John Cammett (mancato nel 2008), in vista proprio di quell’evento, aveva realizzato la prima Bibliografia gramsciana: stampata, in edizione provvisoria, poi ampliata per l’edizione definitiva – ossia provvisoriamente tale – pubblicata per il centenario della nascita (1991). [14] Fu così che, grazie a questo fino ad allora sconosciuto studioso, già militante sindacale, che aveva lavorato da solo, e in modo dilettantesco – nel senso migliore – si scoprì che su Gramsci avevano scritto (articoli, saggi, monografie, voci di enciclopedie) centinaia e centinaia di studiosi, di militanti politici, di opinion makers, in oltre trenta lingue del mondo: si trattava di oltre settemila titoli. Fu un piccolo, salutare choc, che contribuì a produrre, anche per un effetto d’imitazione, una nuova ondata di studi, edizioni, ricerche.

Le edizioni in lingue diverse dall’italiano cominciarono a susseguirsi; e non si trattava più di antologie, ma di ambiziosi tentativi di traduzioni integrali. Negli Stati Uniti nacque la International Gramsci Society (IGS), che presto diede vita a una importante Sezione italiana. E mentre si cominciava alacremente a lavorare all’edizione integrale inglese dei Quaderni, a cura di Joseph Buttigieg, fondatore dell’IGS, il nome di Gramsci si diffondeva soprattutto in America Latina, mentre in Europa la ripresa di interesse fu più lenta, specie in Francia dove era partita per prima l’attenzione a questo italiano, con grandi contese politiche tra gramsciani e gramscisti... Ciò non toglie che in numerose realtà nazionali Gramsci fosse ormai diventato un personaggio di rilievo in seno al dibattito politico e culturale; lo si incominciava a citare anche al di fuori dei contesti scientifici, quasi ad avvalorare un destino di usi politici, ennesimo paradosso: la pratica degli utilizzi a fini di parte o di partito del pensiero gramsciano, cessata in Italia si diffondeva fuori, contemporanea e parallela alla nascita di autentici filoni di studio; questi, proprio come, del resto, gli usi politici erano, in effetti, legati essenzialmente alle principali categorie teoriche dei Quaderni che l’edizione Gerratana stava in qualche modo “liberando”, facendole emergere in piena luce. Insomma, il lessico di Gramsci su cui finalmente si poneva l’attenzione che meritava, si prestava a un doppio uso: strumento di analisi della realtà storico-politica (e non solo, essendo ben presenti in quell’ipertesto gramsciano concetti provenienti da altre discipline), da un lato, e di intervento nella prassi, dall’altro. Ma sempre fuori d’Italia. Doppiato il capo del 1989, nei primi anni novanta, quando nelle università italiane si può dire che nessuno (o quasi nessuno) tenesse corsi su Gramsci, il cui nome era ormai ritornato a essere ignorato o pressoché ignoto agli studenti, e negletto dalla quasi totalità del corpo docente, in Giappone, per fare un esempio, era uno degli autori politici più studiati; così pure, per riferirsi a tutt’altra temperie culturale, nei paesi arabi. [15]

Ma, come ho accennato, di nuovo gli orientamenti culturali stavano, sia pur lentamente, cambiando. Il 1989-1991 (ossia il biennio “rivoluzionario” che, con l’improvviso crollo del “socialismo reale”, aveva sconvolto il mondo, alimentando speranze poi rivelatesi perlopiù ingannevoli e fallaci) [16] aveva d’improvviso fatto emergere dalle macerie del Muro di Berlino, che aveva, nel suo crollo, travolto larga parte della letteratura marxista, proprio il fantasma di Gramsci, accanto a quello di Marx: se questo si presentava come il grande profeta critico della globalizzazione, anticipando le interpretazioni pessimistiche sulla globalizzazione della miseria, Gramsci appariva come il pensoso analista della sconfitta dell’ipotesi rivoluzionaria, ma altresì il pacato e profondo studioso di un altro socialismo possibile, lungo sentieri nuovi di lotta culturale, di costruzione di una egemonia intellettuale, di un uso intelligentemente critico degli elementi portanti del “moderno”. L’ultima riscoperta di Gramsci, quindi, in un paradosso più apparente che reale, si collocava proprio a ridosso del crollo del Muro, dal quale non soltanto non era sfiorato, ma che ne faceva risaltare la figura nello spazio rimasto vuoto. All’inizio degli anni novanta un momento importante, che però non diede luogo all’interesse che avrebbe meritato, fu la pubblicazione, a cura ancora di Santucci, delle lettere giovanili (fino al 1926, ossia fino all’arresto), che confermarono la potenza e l’umanità del Gramsci epistolografo, aprendo anche squarci nuovi e insospettati sulle difficoltà dell’esistenza di un uomo a cui le vicende della vita, da quelle della salute fisica a quelle familiari, a quelle politiche, avevano rubato prima l’infanzia, poi la giovinezza. Gramsci, insomma, fu sempre, da subito, adulto. E un adulto di eccezionale maturità, dotato di un precocissimo senso della responsabilità individuale, provvisto di pazienza e ironia.

Ci vollero, nondimeno, altri anni prima che anche in Italia – ribadisco: sulla scia della rinnovata e perlopiù del tutto nuova fortuna di «Gramsci in Europa e in America» [17] – si ricominciasse, con continuità e sistematicamente, a studiare, pubblicare, tenere corsi universitari; soprattutto ad avviare ricerche sia archivistiche, sia bibliografiche, volte specialmente a rintracciare i segni della fortuna di Gramsci fuori d’Italia: in ciò fu decisivo l’impulso della Fondazione Gramsci e, in non pochi casi, di taluno degli Istituti regionali intitolati al rivoluzionario sardo, che si stavano consorziando. [18]

Assai utile per rimettere in circolazione Gramsci fu la nuova raccolta, la più ampia fino ad allora (e a tutt’oggi), delle lettere carcerarie, curata sempre da Antonio Santucci; la pubblicazione suscitò un contenzioso tra l’editore palermitano che l’aveva mandata in libreria (Sellerio), la casa editrice Einaudi e la Fondazione Gramsci, entrambe reclamanti di essere depositari dei diritti d’autore, al punto che si giunse al ritiro dell’opera dalle librerie. [19] Ma, grazie alla stessa eco mediatica della pubblicazione, si accesero nuovi fari sull’opera gramsciana e comunque si trattò di un nuovo materiale documentario che arricchiva il paniere delle conoscenze sulla vita e sulle sofferenze, private e pubbliche, di quel prigioniero eccellente del fascismo. Di Gramsci si ricominciò dunque a parlare sulla grande stampa oltre che negli ambienti scientifici, e, assai meno, in quelli politici.

Lo dimostrava, ancora nel 1996, la pubblicazione di un saggio che costituiva (dopo un lontano analogo più sintetico lavoro di altro studioso, apparso nell’anno stesso dell’edizione Gerratana) [20] il primo tentativo di ricostruire le contese politiche oltre che scientifiche su Gramsci: libro utilissimo, ancorché con taglio ideologico, che sarebbe diventato una piccola guida per militanti, oltre che per studiosi. [21] Intanto, una nuova messe di edizioni antologiche giungeva sui banconi (non nelle vetrine) delle librerie e, talora, fino agli scaffali delle biblioteche: dopo il Gramsci martire, il Gramsci ortodosso, il Gramsci eretico, il Gramsci nazionale e popolare, il Gramsci fratello maggiore di Togliatti, sembrava riaffacciarsi il “Gramsci di tutti”, prestandosi, suo malgrado, a letture e interpretazioni multiverse, che passavano dalla nuova destra, che insisteva sui suoi tratti nazionali, produttivistici e organicistici, fino alla sinistra postcomunista, che ne faceva un pensatore liberale; mentre quel che rimaneva della sinistra marxista, in non pochi suoi segmenti, volgeva di nuovo il suo sguardo verso quel volto dai grandi occhi profondi, che gli occhialini evidenziavano, sotto la massa dei capelli crespi. Si riscopriva, citandolo e ricitandolo, in tutta la sua drammatica potenza, il bellissimo schizzo che ne aveva disegnato Piero Gobetti nel 1922:

Antonio Gramsci ha la testa di un rivoluzionario; il suo ritratto sembra costruito dalla sua volontà, tagliato rudemente e fatalmente per una necessità intima, che dovette essere accettata senza discussione: il cervello ha soverchiato il corpo. Il capo dominante sulle membra malate sembra costruito secondo i rapporti logici necessari per un piano sociale, e serba dello sforzo una rude serietà impenetrabile; solo gli occhi mobili e ingenui ma contenuti e nascosti dall’amarezza interrompono talvolta con la bontà del pessimista il fermo vigore della sua razionalità. [22]

Infine, il segno decisivo del ritorno di Gramsci sulla scena culturale, fu l’avvio dell’Edizione Nazionale degli Scritti, nel 1996-1997, sotto l’egida della Fondazione Gramsci: non fu senza significato, certo, che il clima politico fosse di una nuova fiducia nella sinistra, appena giunta al governo del paese, dopo la prima breve ascesa e caduta di Silvio Berlusconi. E, tuttavia con l’Edizione Nazionale (che aveva nondimeno un comitato scientifico internazionale, nel quale primeggiava la stella di Eric Hobsbawm, già frequentatore dei raduni gramsciani), se Gramsci era ormai acquisito al Pantheon del Pensiero, la gran parte di coloro che lo studiavano provvedevano consapevolmente, e talora inconsciamente, a neutralizzarlo sul piano politico: la sinistra che governava non solo era lontana da qualsivoglia tentazione eversiva, ma era dichiaratamente lontana dalla stessa tradizione marxista. Gramsci rimaneva, comunque, “un comunista”, anche se da più parti si insisteva, anche riprendendo spunti dei decenni passati, sul carattere “diverso” del suo comunismo, e sul suo marxismo originale. Ciò non toglie che, politicamente, a Gramsci fosse preferito, spesso soprattutto dai militanti del partito da lui fondato, di volta in volta Carlo Rosselli o don Milani, John Kennedy o Karl Popper... Addirittura, nell’anno 2000, nel corso di un convegno celebrativo dei cinquant’anni della fondazione dell’Istituto Gramsci, che pudicamente si volle intitolare a Gramsci e Rosselli, l’allora leader emergente dei DS Walter Veltroni ebbe a schierarsi accanto a Rosselli, cercando di allontanarsi appunto da un ingombrante Gramsci, dimostrando con ciò di non conoscere né l’uno, né l’altro.

Eppure, se politicamente Gramsci non aveva più appeal, per impulso della progettata Edizione Nazionale (nel cui gruppo di lavoro non mancarono e non mancano tensioni) e di tutto quello che cominciava a nascere intorno a essa, gli studi gramsciani conobbero un imponente rilancio e poi via via una decisa accelerazione, dal sessantesimo anniversario della morte (1997), fino al settantesimo (2007), le cui manifestazioni, per numero, intensità e durata, sorpresero gli stessi gramsciani e gramsciologi. Oltre a sancire l’ingresso di Gramsci tra i massimi esponenti della cultura italiana, l’Edizione Nazionale ebbe soprattutto la funzione di stimolo a ricerche, mentre si formava, entro o intorno a essa, una nuova generazione di studiosi. Anzi, guardando a ritroso verso l’ultimo quindicennio, si può affermare che sul piano dell’acquisizione documentaria si sono forse compiuti maggiori progressi che nel mezzo secolo precedente.

E ciò, mentre fuori d’Italia Gramsci veniva scoperto e approfondito, con un salto notevole non solo nella quantità delle traduzioni, ma nella loro qualità e natura, con la prosecuzione o l’avvio di edizioni integrali, con la nascita di “Cattedre Gramsci”, con un nuovo interesse degli editori alla pubblicazione di testi e di studi: difficoltoso in un primo tempo, poi un po’ alla volta più facile. Alcuni convegni latinoamericani (Messico, Brasile, Argentina, Venezuela, in particolare), tra gli ultimi anni novanta e il primo decennio del XXI secolo, testimoniarono, oltre ogni dubbio, la nuova fortuna del pensiero di Gramsci nel mondo e in specie nel subcontinente americano, dove il richiamo a Gramsci appariva soprattutto, ma non esclusivamente, di tipo militante; a differenza che nel mondo anglosassone (dagli Stati Uniti all’Australia, fino al subcontinente indiano), dove Gramsci veniva scoperto e letto e impiegato metodologicamente, quale teorico, o prototeorico dei cultural studies o dei subaltern studies. [23]

Nel sessantesimo della morte, mentre si consolidava l’impresa dell’Edizione Nazionale, e si realizzarono alcuni convegni che fornirono ulteriore prova della presenza di Gramsci ben oltre i confini italiani ed europei, [24] veniva pubblicata una nuova edizione delle lettere dal carcere, concentrata sul carteggio, bilaterale, tra Antonio e la cognata Tatiana Schucht, la persona che più di qualsiasi altra seguì amorevolmente il penoso calvario del prigioniero di Turi. [25] Ben più ricca, e davvero imprevedibile, fu la mole delle celebrazioni del settantesimo della morte, con innumerevoli eventi, da Sidney a Torino, da Roma a San Paolo del Brasile, dalla Sardegna alla Puglia; convegni, ma anche edizioni di testi, pubblicazione di studi, avvio di grandi imprese. Fu quello l’anno, il 2007, dell’uscita dei primi due tomi dell’Edizione Nazionale, dedicata ai Quaderni di traduzione, inediti; a cui, tre anni più tardi, si aggiunse il primo volume dell’Epistolario. [26] A seguire, una cascata di iniziative: seminari, altri convegni, premi, edizioni, altri studi, opere di consultazione, quali la BGR (Bibliografia Gramsciana Ragionata), un repertorio che ricostruisce con schede analitiche tutto quanto è stato pubblicato in lingua italiana su Gramsci, dal 1922 a oggi; e il Dizionario gramsciano, concentrato sull’analisi e l’interpretazione del lessico e delle figure chiave dei Quaderni. [27]

Oggi la bibliografia gramsciana comprende oltre diciottomila titoli, ormai in una quarantina di lingue. Circa duemilacinquecento sono in lingua inglese; e, per fare un esempio lontano, circa seicento in giapponese. Si è annunciato l’avvio dell’edizione cinese dei Quaderni, dopo quella delle Lettere, mentre, giunte a compimento edizioni europee (francese, tedesca, angloamericana), veniva ripresa quella russa, avviata in passato e poi interrotta; e così via, in un profluvio incessante di cui sarebbe impossibile dare conto anche sommario. Il risultato è che Antonio Gramsci è oggi uno dei duecentocinquanta autori più letti, tradotti, citati e discussi di tutti i tempi, di tutti i paesi e di tutte le lingue e di ogni genere (ossia letterati, filosofi, scienziati...). È uno dei cinque italiani più studiati e tradotti e commentati dopo il XVI secolo. E l’interesse per questo pensatore, scrittore, dirigente politico e militante rivoluzionario ha registrato una eccezionale crescita nel corso degli ultimi anni. Da Chávez a Sarkozy, per menzionare due politici di opposta sponda, Gramsci è diventato un autore da citare, oggetto, oggi più che prima, di appropriazioni politiche e strumentalizzazioni ideologiche; le quali, nondimeno, sono il segno di una rinnovata attualità, di una riscoperta vitalità del pensiero di Gramsci, nostro contemporaneo.

Le nuove generazioni che studiano Gramsci (e i convegni per il settantesimo della morte ne hanno fornito un’importante testimonianza), possono farlo con un approccio diverso: appassionato ma senza soverchi ideologismi, partecipe, ma con sufficiente distacco critico; sono assenti da questi nuovi studi, proprio per ragioni generazionali, tanto il rimpianto quanto il rimorso o il rimbrotto; i «nati dopo il Settanta», [28] possono guardare a Gramsci, e alla vicenda politica e culturale in cui l’edizione dei suoi scritti lo ha collocato, in modo nuovo, “leggero”, pur con la serietà necessaria a un lavoro scientifico. [29]

L’Edizione Nazionale, dopo la pubblicazione dei Quaderni curati da Valentino Gerratana, e le nuove sollecitazioni provenienti, copiosissime, da fuori d’Italia, hanno favorito la costituzione di manipoli di nuovi studiosi e studiose della vita, del pensiero, dell’azione politica di Antonio Gramsci, che delle superfetazioni ideologiche dei “favorevoli” e dei “contrari”, nonché degli utilizzi politici togliattiani in fondo poco sanno e poco vogliono sapere, desiderosi, piuttosto, di riaccostarsi direttamente ai testi, e di coglierne le insospettate valenze, di sapore squisitamente umanistico, ma altresì capaci di suscitare nuove sintonie a larghissimo raggio, dalla politica all’ermeneutica.

Rimane nondimeno decisivo lo studio della ricezione del pensiero, lungo il filo delle edizioni dei testi gramsciani, degli studi, delle istituzioni che a Gramsci si sono variamente richiamate: specie se si tratti di studi condotti senza pregiudizi, senza i condizionamenti della militanza o dell’appartenenza, anche se con una forte empatia verso l’autore: del resto, difficilissimo (e, per quanto mi riguarda, anche superfluo) sottrarsi al fascino di un essere speciale, sotto tanti riguardi, quale fu Gramsci. Riaccostarsi, con gli strumenti della filologia storica, ma con una disposizione d’animo aperta e tendenzialmente da allievi ideali di quel maestro ancor più ideale, oggi appare importante, anche per il momento storico che stiamo attraversando. Dinnanzi al crollo dell’utopia e della speranza comunista in Occidente, mentre dall’America Latina giunge la proposta di un nuovo socialismo per il XXI secolo, Gramsci acquista un valore pregnante, proprio per la natura antidogmatica del suo pensiero, per il carattere critico della sua visione del comunismo, per la duttilità intelligente della sua analisi delle possibilità e dei limiti della “Rivoluzione in Occidente”.

In una situazione babelica di linguaggi e opzioni politiche, di fallimento di tutte le grandi fedi politiche e religiose, Gramsci forse viene riscoperto incessantemente perché ci insegna a non rinunciare alla lotta, proponendo una rivoluzione che sia un processo e non un atto, che nasca da un lungo lavorio di preparazione culturale e pedagogica, una rivoluzione internazionale e sovranazionale, una rivoluzione che non sia più la presa della Bastiglia o del Palazzo d’Inverno, bensì una trasformazione “molecolare” a carattere internazionale e sovranazionale. Gramsci, teorico delle situazioni di “crisi”, eccezionale reinventore del concetto oggi imprescindibile di “egemonia”, ci suggerisce, pacatamente, con la fusione dell’ottimismo della volontà e del pessimismo della ragione, qualche percorso per passare dalla crisi alla sua analisi e al suo superamento.

Soprattutto pare utile oggi, a proposito di egemonia, rispondere non con ulteriori polemiche al vituperio corrente, fondato su sciocchezze e menzogne, [30] ma, piuttosto, fare, come si cerca di fare in questo lavoro, con un’attenta ricostruzione del processo di formazione di quella egemonia, che si rivela, con i suoi limiti e le sue contraddizioni, come un grande disegno culturale, del quale Togliatti è il regista, alcuni intellettuali di partito gli attori, mentre l’opera e la figura di Antonio Gramsci rappresentano la trama, la materia prima, il soggetto. Quel disegno, in realtà, non andò completamente in porto, per gli svolgimenti della situazione politica interna e internazionale – il 18 aprile 1948, con la sconfitta delle sinistre, l’ingresso italiano nel Patto Atlantico, l’involuzione del socialismo reale, la morte di Stalin, la rivoluzione ungherese, il XX Congresso del PCUS, la difficile destalinizzazione... –, ma rappresentò il più lucido tentativo di dare un’anima culturalmente profonda, di alto valore, al processo della ricostruzione del paese uscito dalla guerra e dal fascismo. E Gramsci, pur nell’utilizzo, talora spregiudicato, talaltra del tutto legittimo, da parte di Togliatti e dell’intelligencija “organica”, riuscì non solo a non farsi schiacciare dalla politica del momento, ma a resistere come un cristallo di roccia imponendosi come l’autore di cui il Partito comunista, la sinistra e l’Italia tutta avevano bisogno.

Da questo Gramsci dopo Gramsci, pensatore fortemente italiano e “nazionale”, ma, scoperto un po’ alla volta, nei termini universali e globali, possiamo trarre la conferma della necessità di quel cambiamento radicale di rotta per il mondo, reso urgente dalla situazione di guerra permanente, di aggravamento di ingiustizie sociali all’interno delle singole società nazionali, di emergere di disuguaglianze tra un Sud e un Nord del mondo ormai insostenibili... Ma questi elementi della crisi in atto, sottolineano innanzi tutto la necessità della lotta per la verità, filo conduttore della vita e dell’opera, politica e intellettuale, di Antonio Gramsci. E quale dovrebbe essere il ruolo dell’intellettuale, come Gramsci ce lo propone, negli scritti e nell’esempio concreto, di altissimo valore, se non la battaglia «per la verità»? [31] La nuova, ultima fortuna di Gramsci, davanti a un socialismo che si fondò sulla menzogna e su nuove ingiustizie, rovesciando le proprie premesse e promesse, risiede forse innanzi tutto in questa passione per la verità, che lo ricollega da un lato a un Romain Rolland e – sia pur in modo critico – a un Julien Benda, dall’altro a un Edward Said, che più di ogni altro sembra aver raccolto il testimone dalle mani di Antonio Gramsci, attribuendo all’intellettuale il compito supremo di «dire la verità». [32]

NOTE

1 Rinvio per una puntuale e pungente ricostruzione a G. Liguori, La conversione di Gramsci e la creazione di un nuovo senso comune (di destra), in “Historia Magistra”, I (2009), 1, pp. 17-29.

2 Cfr. Ch. Buci-Glucksmann, Gramsci et l’état, Fayard, Paris 1975 (trad. it. Gramsci e lo Stato. Per una teoria materialistica della filosofia, Editori Riuniti, Roma 1976).

3 Cfr. A. Gramsci, Cahiers de prison, a c. di R. Paris, Gallimard, Paris 1978-1996, 5 voll.

4 A. Leone de Castris, La teoria critica delle istituzioni liberali, in “Lavoro critico”, 9 (1977), pp. 7-57 (7): si tratta di un fascicolo monografico “Su Gramsci”, uno dei primi esempi della nuova critica gramsciana dopo l’edizione Gerratana.

5 Cfr. G. Francioni, L’officina gramsciana, Bibliopolis, Napoli 1984.

6 Si veda infra, pp. 23-29.

7 Si veda infra, p. 200.

8 Cfr. F. Sbarberi (a c. di), Teoria politica e società industriale, Bollati Boringhieri, Torino 1988; Id., Gramsci. Un socialismo armonico, Franco Angeli, Milano 1986.

9 Si veda infra, pp. 187 ss.; ma in merito all’edizione delle Lettere, Elsa Fubini mi disse (intervista registrata, 1984) che Caprioglio si era attribuito una firma in modo indebito in quanto egli era solo il redattore della casa editrice; la raccolta e la cura erano in realtà sue (ossia della Fubini).

10 I volumi gramsciani a sua cura sono: Nuove lettere di Antonio Gramsci. Con altre lettere di Piero Sraffa, prefazione di N. Badaloni, Editori Riuniti, Roma 1986; Antonio Gramsci: 1891-1937, Editori Riuniti, Roma 1987; A. Gramsci, Lettere,

1908-1926, Einaudi, Torino 1992; A. Gramsci, Lettere dal carcere, Sellerio, Palermo 1992. Santucci, tra gli altri lavori gramsciani, avrebbe anche curato la prima antologia di tutti gli scritti: A. Gramsci, Le opere, TEN, Roma 1996 (poi Editori Riuniti, Roma 2007).

11 Ho ricostruito il processo di adattamento di Gramsci a Torino, nell’Introduzione all’antologia da me curata: A. Gramsci, La nostra città futura. Scritti torinesi (1911-1922), Carocci, Roma 2004.

12 Alludo agli atti di due convegni del 1987: Gramsci e il marxismo contemporaneo, a c. di B. Muscatello, Editori Riuniti, Roma 1990 (contributi fra gli altri di N. Badaloni, J. Bidet, G. Labica, A. Davidson, O. Löwy, J. Texier, A. Tosel, G. Prestipino) e Modern Times. Gramsci e la critica dell’americanismo, a c. di G. Baratta e A. Catone, Diffusioni 84, Milano 1989 (poi Edizioni Associate, Milano 1989; contributi fra gli altri di J. Buttigieg, J.P. Potier, R. Finelli, F. Frosini, Ch. Riechers, A. Tisekm, T. Szabò, S. Kébier, G. Girardi, A. Santucci, L. Cortesi).

13 Cfr. M.L. Righi (a c. di), Gramsci nel mondo, Fondazione Istituto Gramsci, [Roma] 1995.

14 Cfr. J. Cammet (a c. di), Bibliografia gramsciana, Editori Riuniti, Roma 1991.

15 Cfr. sulla diffusione del pensiero gramsciano, La lingua/le lingue di Gramsci e delle sue opere. Scrittura, riscritture, letture in Italia e nel mondo, Atti del Convegno Internazionale di Studi (Sassari, 24-26 ottobre 2007), a c. di F. Lussana e G. Pissarello, con un saggio introduttivo di G. Vacca, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2008. Cfr. in particolare K. Katagiri, Gramsci e la sinistra giapponese (pp. 241-243) e P. Manduchi, La diffusione del pensiero di Gramsci nel mondo arabo: traduzioni, riletture, prospettive (pp. 245-260).

16 Ho sviluppato questa tesi nel mio 1989. Del come la storia è cambiata, ma in peggio, Ponte alle Grazie, Milano 2009.

17 Così si intitolò un volume collettaneo curato da A.A. Santucci (Laterza, Roma-Bari 1995: importante il saggio introduttivo di E.J. Hobsbawm; gli altri contributi facevano il punto nelle varie realtà: Tosel per la Francia, F. Fernández Buey per la Spagna, D. Forgacs per il Regno Unito, J. Buttigieg e F. Rosengarten per gli Stati Uniti, I. Gregor’eva per la Russia, C. Nelson Coutinho per il Brasile, O. Fernández Díaz per il resto dell’America Latina).

18 Una rassegna utile, sia pur molto sintetica, di iniziative e pubblicazioni è in G. Vacca, G. Schirru (a c. di), Premessa, in Studi gramsciani nel mondo. 2000-2005, il Mulino, Bologna 2007, pp. 9-17. Il volume è una selezione di articoli apparsi in varia sede extraitaliana: tra gli altri di A.K. Sen, J.A. Buttigieg, M.E. Green, J.C. Portantero, B. Fontana e D. Kanoussi.

19 Cfr. A. Gramsci, Lettere dal carcere, cit.

20 Cfr. G.C. Jocteau, Leggere Gramsci, Feltrinelli, Milano 1975.

21 Cfr. G. Liguori, Gramsci conteso. Storia di un dibattito 1922-1996, Editori Riuniti, Roma 1996.

22 P. Gobetti, La rivoluzione liberale, Cappelli, Bologna 1924, p. 105.

23 Si veda, per un riferimento essenziale, almeno G. Baratta, Antonio Gramsci in contrappunto. Dialoghi col presente, Carocci, Roma 2007; ma cfr. anche gli Atti del Convegno di Formia (1989): Gramsci nel mondo, cit.; per i cultural studies, G. Vacca, P. Capuzzo e G. Schirru (a c. di), Studi gramsciani nel mondo. Gli studi culturali, il Mulino, Bologna 2008.

24 Rinvio ai rispettivi volumi degli Atti: Gramsci e il Novecento, a c. di G. Vacca, con la collaborazione di M. Litri, Carocci, Roma 1999 (organizzato dalla Fondazione Gramsci); Gramsci da un secolo all’altro, a c. di G. Baratta e G. Liguori, Editori Riuniti-IGS, Roma 1999 (organizzato dall’IGS); Gramsci e la rivoluzione in Occidente, a c. di A. Burgio e A.A. Santucci, Editori Riuniti, Roma 1999 (organizzato dal Partito della Rifondazione Comunista di Torino).

25 Cfr. A. Gramsci, T. Schucht, Lettere, 1926-1935, a c. di A. Natoli e C. Daniele, Einaudi, Torino 1997.

26 Cfr. A. Gramsci, Epistolario, vol. I: Gennaio 1906-dicembre 1922, a c. di D. Bidussa, F. Giasi, G. Luzzatto Voghera e M.L. Righi, con la collaborazione di L.P. D’Alessandro, B. Garzarelli, E. Lattanzi, L. Manias e F. Ursini, Istituto della

Enciclopedia Italiana, Roma 2009.

27 Cfr. Bibliografia Gramsciana Ragionata 1922-1965 (1), a c. di A. d’Orsi, Viella, Roma 2008 (sotto l’egida della Fondazione Gramsci); Dizionario gramsciano 1926-1937, a c. di G. Liguori e P. Voza, Carocci, Roma 2009 (sotto l’egida dell’IGS

Italia).

28 Riprendo il titolo di un celebre articolo di Mario Morasso (apparso sul “Marzocco” nel 1897), che si riferiva, ovviamente, al XIX secolo.

29 Ne è stato esempio notevole il convegno “Il nostro Gramsci”, organizzato dal sottoscritto per conto della Fondazione Istituto Piemontese A. Gramsci, a Torino, nel novembre del 2007, riservato alla generazione post-1970.

30 Rinvio per la storia del concetto e per le polemiche sul suo uso al volume Egemonie, a c. di A. d’Orsi, con la collaborazione di F. Chiarotto, Dante & Descartes, Napoli 2008.

31 Così si intitola una raccolta di testi gramsciani curata da R. Martinelli: Per la verità. Scritti 1913-1926, Editori Riuniti, Roma 1974.

32 Alludo a E. Said, Dire la verità. Gli intellettuali e il potere, Feltrinelli, Milano 1995.

(8 maggio 2011)

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