Massimo Terni, “La mano invisibile della politica. Pace e guerra tra stato e mercato”, Garzanti, pp. 192, euro 16,60
È convinzione diffusa quella che, nell'età globale, l'economia abbia imposto alla politica il suo primato. Su questo tema, e su quello strettamente connesso del declino della sovranità statale, si cimenta ora Massimo Terni, studioso di dottrine politiche, con un libro dal titolo eloquente: La mano invisibile della politica. La politica è dunque tramontata nell'epoca del mercato globalizzato? Per rispondere alla domanda Terni, opportunamente, non si schiaccia sulla diagnosi dell'oggi, ma compie un largo giro riflettendo sui modi in cui i rapporti tra economia, politica e Stato si sono articolati nelle vicende del pensiero e in alcuni grandi snodi storici.
Tanto per cominciare, c'è un punto che conviene tenere ben presente: la centralità e il primato sociale dell'economia, così come lo abbiamo conosciuto nel nostro tempo, non è affatto una situazione priva di alternative. Anzi, come l'autore ricorda riprendendo Karl Polanyi, l'epoca dello homo oeconomicus è una parentesi «relativamente breve rispetto a una storia millenaria in cui vigeva il principio aristotelico della "sussidiarietà" dell'economia: prioritarie sono sempre state le ragioni della politica, che utilizzava l'economia per i propri scopi, ma senza mai considerarla un valore in sé».
La virtù pubbliche del consumo
La civiltà occidentale nasce, in Grecia, proprio affermando il valore dello spazio pubblico politico rispetto a quello privato dell'oikos (in greco, la casa) dove ci si dedica appunto alla oikonomia, cioè alla necessaria produzione dei beni di sussistenza, che è certamente una base, ma che sarebbe aberrante considerare come il fine della vita umana o come lo scopo principale dell'agire politico dei cittadini (Terni riprende qui il tema caro a Hannah Arendt). È vero che la svalutazione dell'attività materiale dipendeva anche dal fatto che questa veniva svolta, in una certa misura, da schiavi; ma ciò è esatto solo in parte perché, come ha mostrato una brava studiosa marxista della Grecia classica, Ellen Meiksins Wood, in realtà la base sociale della polis ateniese era costituita proprio da cittadini-contadini indipendenti, che svolgevano da sé il lavoro materiale necessario alla loro vita.
Non c'è dubbio comunque che, per tutta l'antichità e il medio evo, era impensabile considerare la produzione di beni come un fine supremo, e l'idea di fare denaro con il denaro era considerata perversa e peccaminosa. Per l'individuo moderno, invece, come dirà «il padre di tutti gli yankees», Benjamin Franklin, «il tempo è denaro»; l'uomo è considerato come naturalmente incline allo scambio e al guadagno (Adam Smith), la categoria centrale diventa quella dell'«interesse», e l'operare della mano invisibile del mercato appare come la più efficace garanzia di prosperità e di benessere per tutti. Il fine della politica diventa quello di incrementare la «ricchezza delle nazioni», mentre i lussi e i vizi privati perdono la loro caratterizzazione negativa perché, se fanno girare il denaro, si trasformano presto in «pubbliche virtù».
Il rapporto tra economia e politica, dunque, sembra capovolgersi: se prima l'economia era sussidiaria rispetto alla politica, con la modernità è la seconda che deve mettersi al servizio della prima. Però la «triste scienza» con la quale Marx farà i conti è ancora una political economy: la crescita economica viene perseguita nel quadro e con i limiti dettati dallo Stato nazionale che, sospinto dai conflitti di classe, diventa anche un fattore di redistribuzione della ricchezza prodotta, un Welfare State che si incarica di far rifluire i benefici anche verso coloro che, secondo la pura logica di mercato, ne resterebbero esclusi. Del resto, l'ideologia che accompagna questo processo non è priva di contraddizioni: per un verso si basa sull'idea del mercato come meccanismo naturale, spontaneo e autoregolantesi (la mano invisibile smithiana). Mentre invece, a ben guardare (e lo hanno mostrato perfettamente Giovanni Arrighi e Immanuel Wallerstein) l'imposizione di un ordine di mercato avviene con il contributo determinante dei poteri statali, che le forze economicamente dominanti utilizzano per perseguire i loro fini.
Denazionalizzati e contenti
Il primato dell'economia resta incardinato dentro lo Stato sovrano, con tutte le contraddizioni che ciò comporta: dallo Stato come (marxianamente) comitato d'affari della grande borghesia e della grande finanza, allo Stato come istituto che, almeno nelle dichiarazioni, trae la sua legittimità dalla sovranità popolare. E la conseguenza è che il conflitto di classe prende spesso la forma di una lotta per condizionare, controllare o «prendere» il potere dello Stato e, a partire da quello, governare le potenze dell'economia.
Ma nell'età globale, e veniamo così al punto di oggi, anche questo instabile e conflittuale bilanciamento dei poteri si rompe: se, come ci raccontano tutte le analisi più accreditate, la sovranità dello Stato perde i pezzi; se, come scrive giustamente Terni, è in corso sotto i nostri occhi un processo di «denazionalizzazione» (che quasi inverte quello di «nazionalizzazione» che aveva avuto il suo culmine nell'Ottocento), allora la sovranità popolare rischia di ritrovarsi ad abitare un «non-luogo». E il potere economico-finanziario sembra godere finalmente delle condizioni per affermarsi senza contro-poteri effettivi che siano ancora in grado di limitarlo.
Lo Stato pare ridursi, scrive Terni, al «partner di un sistema di imprese transnazionali finalizzato a un'accumulazione di capitale fine a se stessa», nel segno di una «privatizzazione di fatto» di quelle che avrebbero dovuto essere «funzioni di interesse collettivo».
In un quadro così fosco, l'autore non suggerisce ricette, ma propone una indicazione convinta. Se la politica può avere ancora un ruolo, è a partire dal fatto che potestà politica e Stato-nazione non vanno necessariamente insieme. Se è vero che si sono date molte forme di autorità politica prima dello Stato (da quelle di tipo comunitario e tribale all'universalismo medievale del Papato e dell'Impero) il tema di oggi è che si sta andando verso una politica post-statale, i cui contorni, però, sono ancora poco definiti e sui cui esiti non è facile essere ottimisti.