Il 150° anniversario dell'unità d'Italia cade in una situazione di inedita gravità della vita nazionale.
In nessuna delle ricorrenze del passato, né nel 1911 né tanto meno nel 1961, la compagine unitaria era stata messa in discussione così come accade oggi. Certamente, per gli spiriti più pensosi, la ricorrenza ha costituito occasione per una riflessione severa sulle condizioni della vita nazionale, che sfuggisse alle retoriche di circostanza. E ovviamente il bilancio critico veniva soprattutto dalle regioni del Mezzogiorno. Non solo perché appariva sempre più evidente lo squilibrio tra il Nord e il Sud del Paese, ma perché in questo squilibrio si manifestava anche il modo in cui era stata realizzata l'unità. Tre anni di guerra civile, tra il 1861 e il 1863, mascherata come una guerra al brigantaggio, con migliaia di morti e feriti, avevano fondato un Stato destinato ad apparire nemico, per lungo tempo, ad una parte vasta del popolo italiano. Né i decenni successivi, con la lunga coscrizione obbligatoria che sottraeva i giovani al lavoro, e con le aspre politiche fiscali della Destra, crearono un legame di fiducia tra il nuovo Stato e le popolazioni del Sud. La prima guerra mondiale completò l'opera, mostrando come lo Stato pretendesse dai contadini perfino il sacrificio della vita, senza aver mai dato ad essi il benché minimo beneficio o vantaggio. La fragilità del consenso dello Stato unitario, dunque, trovava comprensibilmente nelle terre del Sud le sue ragioni.
Oggi la situazione appare rovesciata. La minaccia all'unità del Paese viene dal Nord, dalle zone ricche d'Italia. Ma occorre fare attenzione ad usare le parole. La minaccia, non è agitata dalle regioni: dalla Lombardia, dal Piemonte, dal Veneto, dal Friuli, dalle genti di quelle terre. Essa ha un agente molto più esiguo e molto sopravvalutato. La minaccia viene in realtà da un ristretto ceto politico, la Lega. Ricordiamo che, nonostante i recenti successi in tante realtà locali, questa formazione si aggira intorno al 10% dell'elettorato nazionale. Essa è nata - secondo la vasta analisi che ne fece Ilvo Diamanti nel 1993 – da un deficit di rappresentanza politica delle regioni più industrializzate del Paese nel Parlamento e nel Governo. Colmato rapidamente tale deficit, ed accolto da pressocché tutti i partiti il progetto di un mutamento in senso federale dello Stato, la Lega non aveva più ragioni di esistere. E difatti è stata messa all'angolo per non poco tempo, perché essa era figlio di un risentimento, e non aveva alcun progetto politico generale. Ma l'interesse a mantenere il potere e i redditi che provengono dall'essere un partito, ha spinto i capi più abili di questa formazione a spingere sempre più oltre gli obiettivi e le rivendicazioni, a inventare mitologie oltre a tanti fasulli simboli identitari.
Tante sono le parole mobilitanti che questo ceto politico spregiudicato e senza nessuna fede ha sbandierato in questi anni. Ma di recente ha trovato un capro espiatorio nei lavoratori immigrati e un nuovo mito millenaristico, il federalismo fiscale. L'agitazione dei fantasmi che creano insicurezza e domandano protezione, e il sogno di un ritaglio territoriale delle ricchezze che faccia ancora più ricchi i già ricchi. Si tratta di una miscela che ha successo politico, ma può avere un effetto devastante sulla nostra vita, sull'avvenire della comunità nazionale.
Questo nodo dovrà essere analizzato e discusso con la necessaria serietà. Non c'è dubbio che una delle ragioni di forza della proposta del federalismo fiscale stia nella cattiva condotta e nella irresponsabilità di tante amministrazioni pubbliche del Sud. Su questo il nostro giudizio di critica è fermo e intransigente. La cattiva amministrazione non è mai stata rivoluzionaria ed essa è frutto di politiche clientelari che danneggiano i ceti poveri, mortificano la democrazia e la dignità delle persone, sovraccaricano la spesa pubblica. Ma. chiarito questo aspetto, noi affermiamo che, tanto sotto il profilo storico quanto alla luce del presente, le pretese della Lega sono senza alcun fondamento. E la ricorrenza del 150° costituisce un'occasione per discuterne.
L'economia nazionale e la ricchezza dell' Italia non è certamente riducibile al PIL delle regioni e al suo gettito fiscale attuale. Le strutture economiche di un grande Paese sono il risultato del lavoro, dell'ingegno, della capacità di progetto di più generazioni di uomini e di donne. Chi ha costruito le strade, le ferrovie, i porti, le dighe, i canali? I cittadini di oggi che votano lega? Essi sono il risultato di un processo secolare, che talvolta travalica la stessa vicenda unitaria. E come si fa a dividere ciò che hanno realizzato i meridionali da ciò che hanno realizzato le popolazioni del Nord? I meridionali che ai primi del '900 emigravano in massa negli USA inviarono per un quindicennio un fiume di dollari in rimesse nei loro paesi. E quel denaro, finito nella Cassa Depositi e Prestiti servì in gran parte per finanziare le opere pubbliche nelle provincie del centro-nord. Grazie a tanta moneta pregiata affluita in Italia, la lira riusciva a fare agio sull'oro, consentendo agli imprenditori di acquistare macchinari industriali con una moneta che mai era stata tanto forte in tutta la sua storia.
E quanto i lavoratori meridionali hanno contribuito al miracolo economico del dopoguerra ? Sempre con l'emigrazione, ad esempio, ammazzandosi di lavoro nelle miniere di carbone del Belgio, e contribuendo a far affluire carbone in un paese privo di fonti di energia come il nostro. E quanti franchi svizzeri e marchi hanno inviato, per decenni, dalla Svizzera e dalla Germania ? Abbiamo già dimenticato gli ex contadini e braccianti, le migliaia di giovani meridionali che hanno permesso alla Fiat, a tante altre fabbriche del Nord, di realizzare merci competitive grazie ai loro bassi salari e alla loro capacità di fatica? Non fa parte questo lavoro di una eredità di ricchezza che continua a vivere in altre forme nelle città e nei territori di quelle regioni?
Ma noi non accettiamo neanche questo modo angusto di valutare la ricchezza di un Paese, quasi che essa possa essere identificata solo con le merci e con le infrastrutture. Come si fa a separare il reddito dalla cultura, la produzione dalla scienza, il benessere di un popolo dalla qualità dei suoi artisti e dei suoi intellettuali. ? E allora faremo la conta, regione per regione, di dove sono nati Benedetto Croce e Gentile, Gramsci e Sturzo, Verga e Pirandello, Enrico Caruso e Vincenzo Bellini? Noi non la faremo questa meschina conta, per la semplice ragione che l'Italia come Paese, a differenza della Nazione, è da ben più tempo e assai più profondamente unita e al tempo stesso diversa e multiforme al suo interno. A scorno delle ridicole mitologie etniche inventate dalla Lega, si può affermare con assoluta certezza storica che non esiste in Europa un Paese che abbia subito tante contaminazioni genetiche e culturali quanto l'Italia. Dai Greci ai Longobardi, dai Bizantini agli Arabi, dai Normanni agli Aragonesi quanti popoli e razze si sono mescolati con noi! Centocinquanta anni di storia unitaria hanno prodotto nel nostro paese un profondo interscambio di culture, di storie,di esperienze di vita. Le popolazioni del sud, del centro e del nord si sono fuse attraverso milioni di matrimoni misti, e la lingua italiana è oggi largamente praticata dalla stragrande maggioranza della popolazione. Le popolazioni del sud hanno dato e continuano a dare un grande e prezioso contributo alla ricchezza economica e culturale di questo paese. Noi non abbiamo , dunque, enclaves etniche al nostro interno, come il Belgio, la Spagna o addirittura Stati come il Galles, la Scozia e l' Irlanda in Gran Bretagna. Il nostro è un popolo di antica identità per lingua, cultura, religione. E allora la pretesa della Lega di creare un enclave di territori autosufficienti con il pretesto del federalismo fiscale non ha alcun fondamento e non deve passare. Oggi il rischio di una secessione più meno “dolce“, più o meno arrogante e razzista, è rafforzato dalla crisi economica in corso. Il pericolo che questo paese si spacchi in tanti statarelli in competizione tra loro è reale.Già oggi con il cosiddetto federalismo demaniale si profila il rischio di una spoliazione privata del nostro patrimonio comune. Quanti beni artistici e naturali possono finire in mani private? E che cosa rimarrà, di questo passo, della memoria collettiva impressa nei luoghi e nel loro uso pubblico? Tutte le recenti esperienze di secessione, anche pacifica, hanno fatto registrare un regresso per i lavoratori e portato a moltiplicare i nazionalismi e ad esaltare le xenofobie. Se si imboccasse questa strada,la qualità della vita civile dell'Italia intera, al Nord come al Sud scadrebbe gravemente, precipitando in forme di odi e rancori tra italiani dagli esiti imprevedibili.
Ma proporsi di tornare indietro oggi non sarebbe solo un’operazione che farebbe regredire la qualità dello stare insieme. Sarebbe una scelta suicida anche per le regioni del Nord.
In un mondo sempre più interconnesso e globalizzato è necessario, per salvarsi, far conto su maggiori, non minori solidarietà, condivisioni, equità. Per questo riteniamo che, pur denunciando tutte le sue contraddizioni presenti e passate, l’Unità d’Italia rappresenti un valore in sé.
Non dobbiamo confondere le vicende storiche e i comportamenti concreti via via assunti dallo Stato italiano con le aspirazioni profonde e gli stessi interessi delle popolazioni italiane.
Noi riconosciamo che l'Italia affonda la sua originale vitalità storica nella multiforme attività delle sue città, dei suoi comuni, dei suoi territori. Questa è stata per secoli la sua forza, il carattere fondativo che l'ha fatta primeggiare in Europa per intraprendenza economica e finanziaria, per creatività artistica e culturale. Ma con la nascita dei moderni Stati-Nazione le mille autonomie di cui si componeva l'Italia sono apparsi a un certo punto come un limite, e il nostro Paese è stato messo ai margini della grande scena europea. Solo con la fondazione di una comunità più larga, di uno Stato che guidasse le molteplici esperienze locali, l'Italia è ritornata ad essere protagonista. Oggi noi, sul piano istituzionale, possediamo tutte le articolazioni necessarie per mettere insieme autonomie e vitalità dei territori con le configurazioni via via più vaste. Siamo dotati di comuni,provincie, regioni, Stato e operiamo all'interno dell'UE. Gli spazi istituzionali esistono già – forse sono anche troppi - e potrebbero consentire una efficace dialettica tra le realtà locali e la dimensione nazionale e sovranazionale. Il vero problema, in realtà è la qualità del sistema politico italiano nel suo complesso. Un grande nodo storico e politico che si vuol surrogare con marchingegni istituzionali.
Negli ultimi decenni, con la scomparsa dei partiti di massa, con l'emarginazione del sindacato, i ceti popolari hanno perduto rappresentanza e voce. Da ciò proviene – insieme agli effetti di un trentennio di politiche neoliberali - la scadente qualità della cultura politica, il decadimento della democrazia e della vita civile italiana. Qui sta l'origine dell'abbandono di ogni seria riflessione sul nostro Mezzogiorno e sulle sue potenzialità. In tanto immiserimento dello spirito pubblico si trovano anche le ragioni del dilagare del razzismo e dell'odio. Una miscela che porta le nazioni alla rovina.
Dunque a questo noi dobbiamo prestare attenzione. Se i partiti si sono svuotati di sostanza culturale, esiste tuttavia , al Nord al Sud e al Centro un'altra Italia, dotata di cultura, progetti, moralità civile,che non appare rappresentata, che non è registrata dal radar dei media, ma che è vasta e diffusa ed è portatrice di un cultura solidale per ridare forza e prosperità al nostro Paese. Questa Italia non è rassegnata e ha voglia di combattere.
L'articolo è in corso di pubblicazione sulla rivista Carta, che ci ha cortesemente consentito di anticiparla su queste pagine
Qui l'appello perl'incontro di Teano