Per i biologi e gli ecologi la pianificazione, o comunque le scelte effettuate di volta in volta uniformate solo all’imperativo della crescita illimitata – cui è intrinseca l’enormità della speculazione finanziaria e fondiaria – danneggiano e poi distruggono l’impronta ecologica: la superficie necessaria a garantire le esigenze di una popolazione umana riguardo ai differenti aspetti della sua vita tra i quali hanno importanza prioritaria e i maggiori effetti ambientali la produzione di cibo, lo smaltimento dei rifiuti, l’assorbimento dell’anidride carbonica liberata dai combustibili fossili. Senza territorio aperto agricolo-alimentare, senza il coerente riutilizzo degli avanzi e senza la sintesi clorofilliana dovuta alle stesse coltivazioni oltre che ai grandi spazi boschivi o in ogni modo alberati, vincerebbe la morte, non la vita.
L’impronta ecologica si esprime in termini spaziali. Nella condizione economico-sociale odierna lo spazio in crisi di iper-consumo non è rinnovabile; lo sarebbe solo mediante processi rivoluzionari, ovvero tornando indietro, modificando profondamente i rapporti produttivi, sociali e politici. Il giovane Marx dei Quaderni (taccuini) etnologici pensa che la crisi sociale contemporaneapossa risolversi solo ritornando alla proprietà comunitaria arcaica, e non si spaventa delle parole. Per Fernand Braudel ogni realtà sociale è per prima cosa spazio; gli spazi sono legati da rapporti di dipendenza sia nelle geografie umane vaste sia negli ambienti socio-spaziali piccoli (dunque il giusto progetto, penso, deve mettere in relazione assetti dello spazio e assetti sociali). Marc Augè, nel notissimo Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, sembra lanciare un avvertimento in particolare agli urbanisti e agli architetti: “quando i bulldozer cancellano il territorio […] è nel senso più concreto, più spaziale che si cancellano, con i riferimenti del territorio, anche quelli dell’identità”.
In Braudel e in Augé, come in tutti gli studiosi delle società storiche in rapporto all’identificazione in un luogo, lo spazio è organizzazione consapevole o spontanea volta al bene della collettività; l’opposto di cosa ci racconta la storia/cronaca del contemporaneo nel nostro paese. Scopriamo ogni giorno gli sconvolgimenti territoriali insieme allo scompiglio di piccoli e grandi raggruppamenti sociali (irrilevante se da loro stessi percepiti o no). Impariamo dalla storia, dall’etnologia e dall’antropologia che all’interno di società ben riconoscibili nei caratteri relazionali “l’organizzazione dello spazio e la costituzione dei luoghi rappresentano una delle poste in gioco, una delle modalità delle pratiche collettive e individuali” (Augè). Spazio organizzato, appunto, ossia il territorio vitale per la collettività. Il modo di trattare lo spazio esprime il bisogno della collettività di pensare all’identità, alla relazione e anche ai relativi elementi simbolici. Attenzione: la costituzione dei luoghi non riguarda solo lo spazio d’insediamento fisico aggregato della popolazione, del gruppo, ma innanzitutto lo spazio della necessità assoluta, la base vitale della vastità agro-silvo-pastorale.
Queste constatazioni confermano che il consumo di terra comporta l’abolizione nuda e cruda degli esseri viventi. Si obietterà che l’uomo oggi sta meglio che mai, vive più a lungo. Può darsi che il nostro turno non sia ancora giunto, però segnali ce ne sono, a scala planetaria. Intanto guardiamo nella nostra casa, dove vivono i nostri fratelli mammiferi che ci nutrono. Secondo il Cnr al principio degli anni Ottanta esistevano in Italia 28 razze autoctone di bovini. Vent’anni dopo i nostri fratelli avevano già pagato un duro prezzo alla distruzione delle risorse ambientali. L’Unione europea segnalava che 21 delle 28 razze bovine censite allora erano in via di estinzione.
Osserviamo ora i dati censuari Istat inerenti alle superfici agrarie, sapendo che il territorio nazionale è di circa 300.000 Kmq. Tra il 1981 e il 2000 la diminuzione della Sau (Superficie agraria utilizzata) è stata pesantissima: da quasi 200.000 a circa 130.000 Kmq. Si dirà che la Sat (Superficie agraria totale, comprendente anche i boschi dentro il perimetro aziendale, gli incolti, gli edifici, i fossi, le strade poderali, eccetera) era maggiore (di oltre 60.000 Kmq). Ma è proprio tale differenza a mostrare l’incessante processo di impoverimento. Quanto sarà oggi lo spazio aperto davvero utilizzabile per una buona agricoltura e dunque per fondarvi anche la conservazione incondizionata del restante paesaggio italiano? Quale il ricetto dinnanzi al potere del caterpillar?
Pressappoco nel periodo in cui l’Istat eseguiva i propri rilevamenti, altri avvisarono che si dovevano salvare in prospettiva ad ogni costo almeno 100.000 Kmq netti per coltivazioni capaci di rispondere alla domanda interna e di sostenere la competizione nel mercato internazionale. Quanti saranno oggi? Non lo sappiamo. Sappiamo che il settennio trascorso corrisponde a una decisiva intensificazione dell’ideologia e della pratica di “sviluppo del territorio”, locuzione insensata invece piena di senso reale giacché in questo caso sviluppare significa edificare edificare edificare, occupare terreno con manufatti di ogni genere. Se adottassimo un’ottica valutativa capace di separare il loglio dal grano, vale a dire evidenziare il paesaggio agrario effettivamente in piena salute, una stima intorno alla metà sarebbe forse la più credibile.
Gli economisti, secondo Kenneth Boulding – preciso riferimento di Carla Ravaioli nella sua incalzante critica al modello economico dominante – sono le sirene pazze della crescita economica. Molti urbanisti e architetti sono sirene perfettamente savie della pianificazione o della libera azione incentrate sull’espansione fisica, sull’occupazione di terra libera, sulla crescita infinita dell’ingombro: uguali uguali ai proprietari fondiari, agli impresari edili, agli improduttivi imprenditori di iper-mercati e centri commerciali, ai politici e amministratori pubblici fautori di grandi interventi liberisti e di infrastrutture inutili. E i cittadini, “la gente”? Come hanno potuto accettare la continua sottrazione della risorsa originaria? Il suolo, il terreno, la terra… Jarred Diamond, il biologo fisiologo biogeografo americano autore di Collasso. Come le società scelgono di morire o di vivere (2004, Einaudi 2005) definisce “amnesia di paesaggio” la malattia di intere popolazioni. Vedono mutare il territorio e non si rendono conto “che i cambiamenti sono enormi; ci si abitua giorno dopo giorno e quando il problema emerge è troppo tardi”. Si ignora che per formare un centimetro di quel “suolo utile” perduto occorrono secoli.
Che fare? Potranno nuove leggi incidere decisamente sul futuro del territorio italiano? Ribaltare il destino dello scampolo sfuggito al caterpillar? Il passato e la contemporaneità disegnano il futuro se non avvengono rilevanti fratture politiche e sociali. Non abbiamo già sperimentato condizioni legislative decenti benché incomplete? Non sono state costantemente eluse e negate fin da subito nel dopoguerra? Non è vero che la rovina dell’ex Bel Paese (“Malpaese”, Giovanni Valentini) è dipesa da una triade procedurale, se così posso esprimermi, della quale è parte forse maggioritaria, insieme al piano mancato e all’abusivismo, la pianificazione per lo più locale corredata dalle sue sottomarche indipendenti: il piano parziale, il falso piano particolareggiato, la variante urbanistica, il lottizzamento, le iniziative stampigliate da una miriade di acronimi con base P(piano)… e svariate iniziali appiccicate, fino al singolo stranito progettone edilizio decisionista?
A proposito di consumo o risparmio di suolo, cosa ci ha offerto recentemente la cultura di certi progettisti? L’incredibile proposta della nuova città di VeMa, una scorpacciata nella più fertile campagna padana fra Verona e Mantova. I Comuni e le Regioni, quali politiche territoriali stanno praticando? Come il favoloso serpente mercuriale che si forma nell’acqua e divora se stesso, loro mangiano la propria terra. Un esempio recente proveniente dalla Lombardia: la Regione realizzerà un’autostrada di quasi settanta chilometri a 2+1 corsie per senso di marcia da Broni a Stroppiana (mai sentiti questi nomi, amici non lombardi?) in pieno Parco regionale del Ticino: area di riserva Mab (Man and biosphere) dell’Unesco, Zps (zona di protezione speciale), coltivazioni di altissimo pregio (vigneti e soprattutto risi superfini Carnaroli e Arborio).
Accetto l’accusa “sei ripetitivo, conosciamo i tuoi argomenti “ e non mollo: buone leggi nazionali relative al territorio non servono se non si affronta il problema dei poteri in Regioni e Comuni. I sindaci e i presidenti affiancati da giunte infarcite di tecnici subalterni agiscono sulla base del potere personale e oligarchico assicurato da una normativa condivisa dalla sinistra in omaggio alla mitizzata stabilità di governo. I Consigli? Ferrivecchi, memoria di vecchie battaglie democratiche. Non contano nulla, si torcono fra impotenza e frustrazione. Il nuovo potere fa e disfa nelle città e nel territorio aperto, dentro o fuori dai piani, dentro o fuori dai vincoli ambientali. Il decisionismo indiscutibile è diventato esso stesso il piano. La battaglia a difesa del territorio aperto e del paesaggio deve allargarsi alla necessità di risolvere il problema del potere ad ogni grado dell’assetto democratico. Difficile? Certamente, giacché stanno covando nuovi accordi fra i partiti per garantire poteri molto più ampi anche al primo ministro eletto. Ma valga per la sinistra discordante il principio che le buone battaglie vanno sempre combattute anche se si sa che se ne perderanno la maggior parte, forse tutte.
Questo articolo uscirà nella rivista trimestrale “il Grandevetro”, edita a Santa Croce sull’Arno (Pisa). Può essere letto come completamento riguardo allo spazio aperto dell’articolo Alla ricerca dello spazio perdutoriguardante le piazze della città,apparso in Eddyburg il 25 novembre 2006 e pubblicato sul fascicolo n. 78, marzo-aprile-maggio 2007, della rivista L.M.