«I difensori dell’attuale architettura comunitaria e delle sue regole competitive, insistendo sull’intangibilità di politiche i cui effetti disastrosi sono sotto gli occhi di tutti, non fanno che alimentare le pulsioni dellpopulismo».
Il manifesto, 30 aprile 2014
Commentando il crollo della fiducia nell’Unione europea (nel 2013 al 28% tra i cittadini italiani) Ilvo Diamanti sottolineava su La Repubblica di lunedì come l’attaccamento all’Europa sopravvivesse essenzialmente per la paura di quel che ci potrebbe accadere rimanendone fuori. Non è un motivo spregevole e non si discosta poi tanto dalla ragione che ispirò il pensiero dell’unità europea alla fine della seconda guerra mondiale: la paura che gli orrori vissuti dal vecchio continente potessero ripetersi ancora una volta. Converrà allora riproporre insistentemente all’opinione pubblica europea qualcosa di cui spaventarsi, qualcosa di realmente minaccioso.
Per il primo maggio i neonazisti tedeschi annunciano marce in numerose città (Rostock, Dortmund, Duisburg, Essen , Kaiserlautern, Plauen e Berlino). Di per sé il fatto non desta eccessiva preoccupazione essendo la Repubblica federale un paese fortemente vaccinato contro l’estremismo di destra. Ma è l’eco delle parole d’ordine che preparano l’evento, le assonanze, le parentele fraseologiche tra gli slogan dei nazionalisti germanici e le esternazioni di alcune formazioni politiche europee numericamente consistenti e che si richiamano non al fascismo ma alla democrazia, che dovrebbe suscitare spavento. «Il nostro popolo prima di tutto», «lavoro e giusto salario per tutti i tedeschi», «Ogni trasformazione comincia da te, se sei insoddisfatto, se vorresti cambiare qualcosa e non vuoi vigliaccamente arrenderti al destino, devi fare qualcosa. Noi facciamo qualcosa! Noi ci prendiamo cura!» Questa preminenza dell’elemento nazionale, l’ostilità verso gli stranieri, il richiamo a una partecipazione in prima persona che è in realtà affidamento a un capo, attraversano con maggiore o minore intensità, più o meno apertamente esibite, anche le prime miserevoli battute della campagna elettorale dell’euroscetticismo italiano. Dal manifesto di un candidato berlusconiano il quale promette «in Europa, prima l’Italia» ai «pugni sul tavolo» dei 5 Stelle che dipingono la politica europea come una rissa da osteria.
Una partita nella quale il proprio paese deve imporsi sbraitando sugli altri. Laddove non è un movimento europeo, ma una singola forza politica nazionale ad avanzare la pretesa di «rivoltare l’Europa come un calzino». Mettiamoci poi la rivalutazione presidenziale del militarismo e la scelta dei due marò trattenuti in partibus infidelium, come simbolo dell’orgoglio nazionale, per completare un quadro davvero sinistro.
D’altro canto, i difensori dell’attuale architettura comunitaria e delle sue regole competitive, insistendo sull’intangibilità di politiche i cui effetti disastrosi sono sotto gli occhi di tutti, non fanno che alimentare queste pulsioni. Lo spauracchio che agitano per contrastarle (fuori dall’Europa o mutandone incisivamente le regole si starebbe ancora peggio di così) sbiadisce ogni giorno di più, a vantaggio delle sirene nazionaliste, che possono avvalersi di evidenti dati di realtà.
Coerentemente con una Unione rimasta in larga misura ostaggio degli stati-nazione, le elezioni per il parlamento di Strasburgo si giocano tutte sulla misurazione dei rapporti di forze interni ai singoli paesi.
Come spesso accade, è ancora una volta Beppe Grillo a mettere in chiaro senza troppi giri di parole l’assoluta irrilevanza della dimensione sovranazionale: «Se vinco le europee salgo al Quirinale e pretendo l’incarico». Il pugno vero, insomma, lo si batte sul tavolo di Giorgio Napolitano