La Repubblica, 16 dicembre 2015 (m.p.r.)
La crisi dell’acqua a Messina non è un incidente di percorso, ma il preannuncio del mondo che verrà. Anzi, che è già venuto: megalopoli come San Paolo, Lagos, Mumbai (ma anche Los Angeles) sperimentano frequenti siccità. L’urbanizzazione che concentra nelle città il 53% della popolazione mondiale (nel 2030 sarà il 70%) non fa i conti con l’ambiente, con l’esaurirsi delle risorse naturali, con carestie che parevano dimenticate ma colpiscono un miliardo di esseri umani ammassati negli
slum.
Secondo il geografo M. Gandy, «non c’è nessun modo per placare questa sete urbana e industriale: nuove fonti di approvvigionamento semplicemente non esistono». Mutamenti climatici, disastri idrogeologici, mancata manutenzione dei suoli, cementificazione di superfici agricole aggravano una crisi che ci sforziamo di non vedere. In un libro recente, Water 4.0, David Sedlak (che insegna ingegneria sanitaria) prefigura un mondo in cui crescono insieme lo spreco e la penuria, e l’acqua è un prodotto troppo costoso per i poveri. L’acqua è la cartina di tornasole del degrado ambientale, e il mondo distopico di Mad Max di George Miller (2015), dove un tiranno la elargisce capricciosamente alle plebi, rischia di essere il nostro. Messina mostra in piccolo quel che a San Paolo riguarda 21 milioni di abitanti.
Nel 1979 Hans Jonas, nel suo Principio responsabilità, proclamava “l’imperativo ecologico”: «La comunanza dei destini dell’uomo e della natura, riscoperta nel pericolo, ci fa riscoprire la dignità propria della natura, imponendoci di conservarne l’integrità». Ma in nome di che cosa? Due correnti del pensiero ecologico hanno tentato una risposta. Nel 1969 un chimico, James Lovelock, lanciò “l’ipotesi Gaia”, secondo cui la Terra è un sistema unitario che si autoregola puntando a risultati ottimali. Se questa visione porta il nome della dea greca della Terra, Gaia, è su proposta di un vicino di casa di Lovelock, William Golding (l’autore del Signore delle mosche), che vi alluse anche nel suo discorso di accettazione del Nobel (1983).
Ancor più influente è lo storico L. White, che imputava (1967) la crisi del rapporto uomo-natura alla convergenza tra concezione cristiana dell’uomo e fede baconiana nella tecnologia: donde la distruzione di risorse naturali e «il carcinoma dell’urbanizzazione non pianificata». Per White, la via d’uscita è «trovare una nuova religione, o ripensare la nostra» secondo l’insegnamento di San Francesco, «il piú grande radicale della storia cristiana dopo Gesú», perché ha «sostituito l’idea dell’eguaglianza di tutte le creature (incluso l’uomo) a quella del dominio illimitato dell’uomo sulla natura».
San Francesco è stato dunque il santo patrono degli ecologisti cinquant’anni prima dell’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco (24 maggio 2015), dove il Cantico delle Creature innesca la riflessione sulla «smisurata e disordinata crescita di molte città, invivibili dal punto di vista della salute, non solo per l’inquinamento da emissioni tossiche, ma anche per il caos urbano, i trasporti e l’inquinamento visivo e acustico. [...] Non si addice ad abitanti di questo pianeta vivere sommersi da cemento e asfalto, privati del contatto con la natura. In alcuni luoghi, rurali e urbani, la privatizzazione degli spazi ha reso difficile l’accesso dei cittadini a zone di particolare bellezza; altrove si sono creati quartieri residenziali “ecologici” a disposizione di pochi, dove altri non entrino a disturbare una tranquillità artificiale. Gli spazi verdi sono curati nelle aree “sicure”, non dove vivono gli scartati della società».
Parlando di ambiente, uno storico (White) e un chimico (Lovelock) richiamano precedenti religiosi o mitici; il Papa propone una diagnosi orientata su un asse non solo religioso, ma etico-politico, e aggiornata sull’orologio dei movimenti ecologici e per il diritto alla città. Perciò l’enciclica condanna la crescita delle megalopoli, la privatizzazione degli spazi, la formazione di ghetti urbani per «gli scartati della società», e parla di responsabilità come «cura della casa comune», missione affidata da Dio all’uomo, ma anche secondo il diritto, «moderatore effettivo delle regole per le condotte consentite alla luce del bene comune, funzioni irrinunciabili di ogni Stato: pianificare, coordinare, vigilare e sanzionare all’interno del proprio territorio». Questo rimescolarsi delle carte, dove il linguaggio religioso invade testi scritti da studiosi laici e il Papa adotta un linguaggio secolarizzato, nasce dalla drammatica situazione del mondo che ci circonda, che impone una responsabilità comune.
Il nesso forte, che ricorre nell’enciclica, tra devastazioni dell’ambiente, minacce alla salute e crescita delle povertà, indirizza la diagnosi verso le pratiche della democrazia, inclusa quella azione popolare che viene dal diritto romano e che risalta in alcune recenti Costituzioni dell’America Latina (Brasile, Colombia): «Poiché il diritto si dimostra insufficiente a causa della corruzione, si richiede una decisione politica sotto la pressione della popolazione. La società, attraverso ong e associazioni intermedie, deve obbligare i governi a sviluppare normative, procedure e controlli più rigorosi. Se i cittadini non controllano il potere politico non è possibile contrastare i danni ambientali». Questo ammonimento ci riguarda tutti: al centro dell’enciclica, come delle riflessioni di filosofi e giuristi, sono i diritti delle generazioni future, giacché «l’ambiente è bene collettivo, patrimonio di tutta l’umanità e responsabilità di tutti».
Perciò, oltre ogni differenza ideologica, «è urgente elaborare un pensiero comune pratico, uno stesso insieme di convinzioni volte all’azione, innescata dai principi del bene comune e indirizzata alla politica» (J. Maritain).