« comune-info, 13 marzo 2017 (c.m.c.)
Tra i molteplici significati che ha assunto la parola libertà, ce ne sono due in particolare che la seguono da sempre come un’ombra: la negazione, la presa di distanza, la fuga da qualcuno o qualcosa, e la parentela con la scena pubblica. Libero, nel lessico greco e latino, è il non schiavo: maschio, adulto, appartenente a una comunità di eguali a cui è affidato il governo della città, figlio di genitori nati a loro volta liberi, in grado di sostenersi in armi e perciò dotato di poteri politici. È il cittadino guerriero. Fuori, negli interni domestici che la libertà e la politica si lasciano alle spalle, ci sono gli schiavi, le donne, gli adolescenti, esclusi dalla partecipazione alla cosa pubblica ed espropriati della loro stessa vita. Ma, sacrificato sull’altare della pòlis, è anche l’individuo, sottoposto in tutto, fin nelle sue scelte più intime, all’autorità del corpo sociale.
Un destino comune sembra imparentare perciò all’origine la libertà e la politica: uno strappo, un atto di cancellazione, il bisogno di dislocarsi rispetto a una matrice o a vincoli più o meno dichiarati. Nel vuoto apparente che si lasciano dietro vanno a collocarsi le donne, ma anche i corpi, le persone, le relazioni primarie e le vicissitudini improrogabili di ogni esistenza. Sarà per questo che, anche quando si fanno più articolate, più estese, le libertà – politiche, individuali – restano per larga parte formali, facili a sparire o a farsi inglobare su un versante o sull’altro.
C’è voluto un lungo percorso affinché, dalla zona d’ombra della vita pubblica, condizioni, rapporti dati come “naturali” – le passioni del corpo, la proprietà, le disuguaglianze economiche, i ruoli sessuali, gli impulsi d’amore e di odio – mostrassero, riaffiorando, quanto profonde, ramificate e inafferrabili siano le radici della libertà, quanto sia più giusto toglierle quella desinenza assertiva e parlare invece di “liberazione”.
Oggi sappiamo quanto sono esili i confini tra democrazia e regimi totalitari, quanto il sostrato biologico, considerato la frontiera estrema oscura della ragione, possa diventare, come è stato per il nazismo, la “verità ultima” della storia di un popolo; sappiamo che la guerra può confondersi con la difesa della vita, e quindi con la pace; conosciamo l’ambiguo legame che tiene insieme il bisogno di sicurezza, di protezione, l’attesa verso l’esterno, e la rinuncia alla libertà. Allo stesso modo, non possiamo ignorare che la resa delle donne al dominio dell’uomo è tuttora compensata da risarcimenti secondari, da gratificazioni illusorie e tuttavia durature. Ma non sembra che tale saggezza riesca a scalfire il sedimento secolare delle coercizioni su cui continuano a crescere e proliferare libertà visibilmente fragili, diritti destinati a restare sulla carta, opportunità, eguaglianze solo verbali.
Dove l’idea di libertà ha subito il suo più radicale ripensamento è stato nelle pratiche del femminismo, nella coscienza che ha riportato fuori dalle secche della “naturalità” il più antico dei domini, quello che ha riservato al sesso maschile non solo il potere di decidere le sorti del mondo, ma il pensiero, la costruzione ideativa e immaginaria che lo sostiene. L’intelligenza dell’uomo, essendosi arrogata le prerogative di unica esperienza compiuta dell’umano, non poteva che dare al processo di individuazione – cioè all’uscita dalla comune condizione animale – il volto di un “neutro”, mutilato di quell’appartenenza corporea e di sesso che l’avrebbe rivelato nella sua parzialità. Riportate entro la narrazione della storia personale – attraverso l’autocoscienza e la pratica dell’inconscio – le illibertà non potevano che subire un processo inedito di svelamento: non erano solo quelle presenti nella vita sociale, e neppure ne condividevano modi e qualità.
Rispetto alle coercizioni esterne e a tutte le forme di violenza manifesta, che si sono accompagnate al dominio maschile, “immensa” appariva l’ “alienazione dell’io” conseguente all’aver fatta propria inconsapevolmente la rappresentazione del mondo dettata da altri.
Nelle conversazioni radiofoniche, tenute su Radiotre da Rossana Rossanda con alcune amiche femministe sulle “parole della politica”, Paola Redaelli così descrivere la rivisitazione del concetto di libertà:
«Libertà è una parola bellissima. Per me anzitutto vuol dire libertà di essere. Libertà di essere diversa. Per cui, a dire il vero, non è senza contraddizioni con uguaglianza. Libertà di essere diversa malgrado le leggi, al di là delle leggi, anche al di là di quelle che chiamavi ‘leggi di natura’. Libertà è poter scegliere senza cancellare niente di se stessi: il proprio essere intellettuale, i propri bisogni materiali, il proprio io profondo. Libertà è poter non trascurare nessuna parte di sé. Trasformare davvero il proprio rapporto con il mondo, fino all’ultimo e senza possibilità di tornare indietro». (R. Rossanda, Le altre, Feltrinelli 1989)
Per una “libertà che parte da dentro”, lo scavo nelle vite, spinto fin dentro la memoria del corpo, sembra non avere mai fine, e il femminismo, che ha aperto questo nuovo orizzonte, appare davvero come “la rivoluzione più lunga”, quella che non disdegna le frontiere ultime del pensiero, le esperienze che hanno il corpo come interlocutore e parte in causa. Riportare lo sguardo sulla scena pubblica, come chiede oggi un movimento di donne in evidente ripresa, senza restare ancora una volta respinte o affascinate, comporta un forte ancoramento alla storia e alla cultura che il femminismo ha prodotto, la riattualizzazione di teorie e pratiche che per fretta o paura sono state troppo presto abbandonate. Richiede soprattutto che, pur continuando a parlare di “libertà femminile”, non si dimentichi che dominate e dominanti hanno parlato per millenni la stessa lingua, che l’alienazione delle une non è stata senza costi per l’umanità degli altri.
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