LE elezioni europee (25 maggio) sono ormai dietro l’angolo, e la campagna elettorale, per altro poco animata, si presta a molte considerazioni. Può avere conseguenze sulla sorte dell’euro, quindi è più importante di quanto non sembri. Ma può essere riassunta in pochi concetti. Alla base di ogni considerazione, quando si parla di Europa, dovrebbe essere una regola tassativa: ogni moneta in circolazione deve avere alle spalle uno Stato, non può fluttuare nel vuoto, o fare capo a più Stati, distinti e indipendenti uno dall’altro. Il dollaro è la moneta degli Stati Uniti d’America: ha alle spalle uno Stato federale, un singolo governo, un singolo parlamento, e i cittadini degli Stati Uniti, anche se si sono affrontati in un passato ormai lontano in una dura guerra civile, parlano la stessa lingua, hanno la stessa storia. Un quadro del tutto diverso presenta l’Europa: ben più profonde sono le differenze fra le popolazioni che abitano nel nostro continente. A cominciare dalla lingua: polacchi e portoghesi, tanto per dire, non si capiranno mai. Per questo gli Stati Uniti d’Europa, sul modello americano, non si faranno, non si potranno mai fare: sono una utopia. Ne consegue che la moneta unica, l’euro, è stata una creazione avventata, e tutto sommato un errore. Bisogna pur dirlo, anche se le intenzioni che l’hanno ispirata erano lodevoli.
Adesso, tuttavia, non si può tornare indietro: tanto gli economisti quanto gli uomini d’affari sono convinti che la marcia indietro sarebbe un nuovo errore, peggiore del primo. Ed è anche vero che l’euro, sebbene sia stato un’operazione avventata, ha portato, con le difficoltà, molti benefici. La soluzione è la creazione di organi comunitari che, pur non essendo il prodromo di un’unione politica europea, aiuteranno a coordinare la politica economica dei vari Stati in Europa e agevoleranno il funzionamento della moneta unica. Mario Draghi, forte del-la sua posizione alla guida della Banca Centrale Europea, è fra coloro che più spingono in questa direzione. Non mancano le proposte di economisti e di personaggi con incarichi ufficiali. Purtroppo, i governi europei non hanno finora compreso l’urgenza degli interventi: hanno dato l’impressione, secondo un’immagine molto efficace, di una banda di allegri ragazzi che corrono ridendo, di buon umore, verso il precipizio.
Ma i vari provvedimenti suggeriti dagli esperti non devono dar luogo a equivoci: non sono la premessa di una federazione europea; bensì sono misure di carattere tecnico che mirano ad agevolare la sintonia della politica finanziaria fra vari Paesi. Ed è interessante l’evoluzione dell’idea di Europa attraverso gli anni. Subito dopo la guerra una federazione continentale, fra le nazioni che ne costituivano l’ossatura, fu il grande ideale. Erano allora europeisti gli uomini di Stato più importanti, da Adenauer a De Gasperi e a De Gaulle, era europeista perfino Churchill; e quella che auspicavano era l’Europa umanitaria, fattore di pace, per reazione alla carneficina che aveva insanguinato il continente. Poi, a poco a poco, il ricordo della strage si è attenuato: oggi si è ancora europeisti, ma con altre aspirazioni, più razionali e meno sentimentali: fondamentalmente, per resistere alla concorrenza del Terzo Mondo nell’economia globale. Bisogna pur riconoscerlo: si sono attenuati gli entusiasmi. Il Primo ministro inglese, cioè di una nazione che europeista lo era con misura anche mezzo secolo fa, ha promesso che si indirà l’anno prossimo nel suo Paese un referendum sull’appartenenza al Mercato comune, se rimanervi o uscirne. È anche vero che quando si è data vita al Mercato comune l’Europa sognava ancora di reggere le sorti del mondo. Oggi sono altri gli ideali: l’Europa, dalla Scandinavia al Mediterraneo, aspira piuttosto a essere una grande Svizzera ordinata e benestante, vivere in pace in un mondo pacifico, non dare fastidio a nessuno.